A . JT. Vho
Puoi-'. A. BONGIOANNI
GLI SCRITTORI
DEL GIUOCO DELLA PALLA
RICERCHE E DISCUSSIONI LETTERARIE
TORINO
Casa FCciitrice
ERMANNO LOESOIJER
1907
PUOFRIKTÀ LETTERARIA
%
PREFAZIONE.
Nell’ accingermi a questo lavoro, io in’ ero
proposto di contenerlo nel campo puramente lette-
rario, studiando specialmente l’arte degli scrittori,
com’essa si manifestava nei passi die trattavano
del giuoco della palla ; ma presto m’avvidi che
per l’intelligenza stessa di questi passi e per com-
prendere come il nobile esercizio abbia potuto
fornire materia e forme d’arte originali ai più
svariati argomenti, eran necessarie alcune ricerche
intorno alle varie forme di esso, alle sue vicende
storiche e alla sua maggiore o minore frequenza
nei diversi tempi. Queste ricerche dovettero essere
più copiose nella prima parte, elio riguarda le let-
terature classiche; nella quale mi accadde di do-
vermi indugiare alquanto a ricercar le fonti delle
notizie intorno al giuoco e a distinguere e deter-
minar con precisione le forme di esso, sia per
rettificare parecchie inesattezze che si leggono
nei trattatisti che si copiali l’un dall’altro sia per
proporre di certi passi d’autore una più probabile
interpretazione o per risolvere le questioni a cui
questi potevan dar luogo. Alla seconda parte in-
vece potei dare, secondo il mio intendimento,
carattere più letterario ; poiché, senza troppo oc-
cuparmi di ricerche storiche, prese le mosse dal
passo d’uno scrittore, m’estesi a esaminar l’arte
sua, o particolare di quel passo o generale di
tutta la sua opera letteraria, a delineare la sua
fisionomia individuale o l’indole di tutto un pe-
riodo letterario, a far raffronti con altri scrittori,
a notar derivazioni, a dimostrar rassomiglianze,
a rilevar pregi e difetti, eco.
Non tutti gli scrittori , che han parlato del
giuoco, io ho tratto sotto il mio esame: d’alcuni
pochissimi non potei avere visione; altri omisi,
perchè troppo poveri d’arte o di notizie o di signi-
ficazione ; i più trattai più o meno diffusamente
secondo la loro importanza; se bene o male vedrà
chi avrà pazienza di leggere.
PARTE PRIMA
IL GIUOCO DELLA PALLA
nella vita e nella letteratura dei popoli classici
CAPITOLO I.
Diversi periodi nella storia della ginnastica presso i Greci e forme
maggiori e minori di essa. — Carattere del giuoco della palla,
sue funzioni e suo sviluppo. — Le notizie più antiche del
giuoco ( Odissea , VI), origine di esso, i trattatisti (Ateneo,
Erodoto, Plinio e Saverio Quadrio; Caristio Pergameno).
— Le varie forme del giuoco: la /'eninda e l ’ ar pasto (Ate-
neo, Polluce e Marziale); Varpasto e l’epiaehiro (Ateneo,
Polluce, Marziale e Antonio Scaino; Luciano, Ovidio e
Properzio); l' Urania (Odissea, Vili e Polluce); V A porr assi
(Polluce e Platone); le palle variopinte ( Odissea , Antillo,
Platone e Ovidio).
La ginnastica in uso presso i Greci ci si presenta
sotto due forme: Luna, maggiore, più grandiosa, più
fastosa, composta d’esercizi più violenti, per lo più mar-
ziali, esclusivamente pubblici, solenni per il numero degli
spettatori che vi partecipavano e per lo scopo a cui eran
diretti; l’altra, minore, più umile, più mite e tranquilla,
più familiare e fatta, sia in pubblico sia in privato, per
sollazzo e passatempo.
Ora, dallo scopo diverso che ciascuna delle due forme
si prefiggeva e dal posto che l’una prendeva di fronte
all’altra e anche dagli stessi generi letterari ne’ quali
ciascuna trovava la sua espressione, mi par di poter di-
videre la storia della ginnastica in tre periodi ben di-
stinti tra loro.
— 4 —
Nel primo periodo la forma maggiore della ginnastica
conserva il suo primitivo carattere religioso: consiste
cioè in giuochi solenni diretti a onorare gli Dei, gli
Eroi, i Defunti; la troviamo quindi nella grande poesia
epica, che è appunto l’esaltazione di Uomini e di Numi:
n eWIliaile e nei poemi che ne derivano. Achille infatti
indice giuochi funebri per l’amico Patroclo (1) ed Enea
per il padre Anchise (2) e i Troiani, arrivati al capo
d’Azio, lieti d’esser sfuggiti alle crociere dei Greci, sa-
grifìcano a Giove e celebrano Actia Iliacis... littora
ludis (3).
La forma minore invece ha per unico scopo il diletto
ed è l’occupazione amena d’una gente che goda i be-
nefìzi della pace: la si trova quindi specialmente nella
letteratura idillica e pastorale: nnW Odissea (4) pressoi
Feaci, che rappresentano appunto una società pacifica
o gioconda (5); in Virgilio (6), dove enumera i vantaggi
della vita dei campi; nel Sannazzaro (7), dove descrive i
giuochi dei pastori, ecc. ecc.
11 secondo è il periodo più glorioso della ginnastica
e coincide precisamente col periodo più glorioso della
storia greca. La forma maggiore della ginnastica è an-
cora in esso, almeno esteriormente, un’istituzione reli-
giosa; ma ha assunto insieme una funzione altamente
civile: è divenuta uno dei fattori principali del carattere
civile e della coscienza nazionale; la forma minore ha
bensì ancora per scopo il diletto, ma è diventata coeffi-
(1) Iliade, XXIII.
(2) Eneide, V.
(3) Eneide, III, vv. 278 e segg.
(4) Odissea, VI e Vili.
(5) Cfr. in proposito: Athai^ei Xaucratidis, Deipnosophi-
starum Libri XV, in latinum versi a Jacopo Dai.eciiampio Ca-
donensi. Lugduni, apud Antonimi) De Ilarsy, MDLXXXII1, lib. I,
pag. 14 in fine.
(6) Georchicbe, II, in fine.
(7) Arcadia, Prosa XI.
— 5 —
cicute attivo dell’educazione della gioventù. È questo il
tempo in cui è concetto comune allo spirito greco che
è solo buon soldato o buon cittadino chi è sano e bello
e forte, e solo è tale chi esercita il corpo con assiduità
e perseveranza; è questo il tempo in cui ai giuochi pub-
blici, olimpici o istillici o pitici o nemei, accorrevano
spettatori da ogni parte della Grecia, e il vincitore in
essi aveva onori maggiori che il trionfatore in Roma
e la vittoria era registrata tra i fasti della patria.
Ma mentre allora la ginnastica maggiore ebbe una
glorificazione letteraria quale non aveva avuta mai nè
più doveva avere, poiché l’inno di Pindaro (2), lanciando
i suoi voli trionfali attraverso gli azzurri del cielo greco
e inalzandosi fino al seggio degli Dei, poneva l’Olimpio-
nice nel novero degli Eroi; la forma minore della gin
mistica entrava nella letteratura solo indirettamente,
raccomandata da' filosofi e da’ moralisti come elemento
necessario dell’educazione d’ogni buon cittadino. Anzi già
nei dialoghi di Platone la ginnastica accenna a congiun-
gersi con la medicina, avviandosi così ad assumere quel
carattere che le è più manifesto nel terzo periodo, il quale
corrisponde a quello della decadenza della bella civiltà
greca. I corpi si sono indeboliti, le fibre infralite; le
formo violento e faticose della ginnastica maggiore non
sono più sopportabili, se non dagli organismi più forti
che sono i meno; prevalgono quindi le forme minori e
s’accentua il loro carattere educativo non solo, ma
anche, e più, quello igienico e terapeutico, sicché alcuni
esercizi diventano perfino rimedi della farmacopea usuale
contro malattie specifiche.
(1) Cfr. tutta l’opera poetica ili Pindauo. Ma Pindaro è un
solitario che non fa scuola.
(2) 1 Greci di quest’epoca, Plinio Secondo li chiama col di-
spregiativo di graeculi: « Graeeuli indulgent Gtjmnasiis » (Punii
Secondi, Kpislulae , lib. X, 49.
• «
Ora, il giuoco della palla, il quale fu degli esercizi
ginnastici uno dei più cari agli antichi Greci o Romani,
perchè, adunando in sè varietà d’altre esercitazioni come
il salto, la corsa, il lancio, ecc., e occupando tutte le
membra del corpo, serviva mirabilmente a sviluppare la
vigoria delle forze, l'elasticità dei muscoli, l’eleganza dei
movimenti; segue, storicamente e letterariamente, le vi-
cende delle forme minori della ginnastica. Lo vediamo,
per conseguenza, escluso dalla poesia epica e dalla lirica
corale di Pindaro; ma viceversa lo troviamo esistere già
in due forme diverse, nell’età eroica, presso il popolo
beato del magnanimo Alcinoo; e se, quando la ginnastica
maggiore trova la sua apoteosi nelle liriche del poeta
Tebano, esso modestamente si raccoglie nei trattati etico-
morali e nella letteratura aneddotica e in alcune simi-
litudini e immagini retoriche, quelli dimostrano la sua
nobile funzione educativa e queste l’immensa sua diffu-
sione per tutto il mondo antico, diffusione provata anche
dal fatto che una parte dello stesso Ginnasio era — pol-
lo più, se non esclusivamente — riservata ai giuochi con
la palla; e appunto dal nome greco di questa sferisterio
era chiamata.
E quando, ammorbiditasi la ginnastica per adattarsi
alle forze infiacchite dei decadenti, vennero a cessare
tanti esercizi violenti e faticosi, il giuoco della palla, che
aveva nella sua stessa natura trovate tante varietà da
poterli sostituire, acquistò sempre maggior sviluppo e
importanza, tanto da meritare da Galeno l’onore d’una
trattazione speciale. E^?n verità la ragione della durata
di quest’esercizio, attraverso a tutta la storia greca, dal-
l’età eroica alla decadenza, e la sua frequenza presso
tutte le classi di persone e la sopravvivenza a molti altri
esercizi, consiste appunto nella sua naturai virtù di va-
riarsi e di adattarsi. Mutate infatti le dimensioni e la
materia della palla, mutato il numero dei giocatori e la
distanza tra di essi, mutate le regole o solo qualche par-
ticolarità sostanziale o accessoria del giuoco, ecco tante
nuove varietà di esso, quali più semplici, quali più com-
plicate; le line più facili, le altre più faticose; quelle rii
carattere fanciullesco e trastullevole, queste grandiose
e interessanti.
1 teneri fanciulli quindi e le vergini delicate e i vecchi
deboli trovavano in esso il diletto d’ un piacevole pas-
satempo; i validi efebi invece e gli adulti robusti un
esercizio che ritemprava e ringargliardiva le loro forze.
Gli sfaccendati ingannavano con esso le ore tediose
dell’ozio; la gente del volgo si sollevava con esso dalle
fatiche del suo mestiere; uomini di studio e uomini di
stato e uomini di spada si distraevano con esso dalle
applicazioni e dalle cure della milizia e della repubblica.
Vi giocavano gli Spartani rudi e forti, gli Ateniesi snelli
e aggraziati, i Greci d’Asia e di Sicilia molli ed effeminati.
Se ne dilettavano insomma persone d’ogni sesso, d'ogni
età, d’ogni classe, d’ogni stirpe, trovando ognuno in esso
una forma a sè adatta.
Per corrispondere dunque a tanti scopi e per conve-
venire a tanta gente e cosi diversa, l’arte della sferi-
stica assunse a poco a poco grande varietà e numerose
specie di giuoco si vennero a formare in essa. Di queste
diverse specie, delle principali almeno, gli scrittori ce
ne hanno conservati i nomi; ma le notizie intorno al
modo con cui ciascuna di esse era fatta sono in verità
vaghe e incomplete nei trattatisti più antichi, confuse
e talora contradditorie nei più recenti; di guisa che non
riesce sempre facile districarsi dalla seira selvaggia
delle incertezze e delle contraddizioni.
Ma considerando che queste incertezze e queste con-
traddizioni sono derivate per lo più da differenti e non
sempre rette interpretazioni che i trattatisti han fatto
dei passi di quegli scrittori classici che, pur parlandone
indirettamente, ci han lasciato della sferistiea le mag-
— 8 —
giori notizie, panni miglior cosa risalire a essi, come
alle fonti più pure e genuine, per attingere intorno al
nostro argomento le notizie più chiare e sicure.
*
* #
Il primo accenno al giuoco della palla nella lette-
ratura greca si ha nel canto VI dell'Odissea. Chi non
ricorda il bellissimo episodio di Nausicaa pien di tanta
vera e soave poesia? Per suggerimento di Minerva, che
protegge Ulisse, la bella figlia del re Alcinoo se n'è ita
di buon mattino con le ancelle ai lavatoi marini, non
lontani dal luogo, ove giace addormentato l’esimio Ulisse,
oppresso dalla stanchezza della lunga traversata; .Nau-
sicaa, per volere della Dea, die benevoli cose pensa per
l'eroe, dovrà servirgli di guida alla città dei magnanimi
Feaci. Ila dunque (dia risciacquati i suoi panni e scio-
rinatili; s'è bagnata con le ancelle e unta di grasso
olio; ha preso con esse il cibo apprestato dalla saggia
madre Arete; poscia, dopoché far sazie di cibo essa e
le ancelle, giocarono dunque con la palla, avendo de-
posti i celi del capo, e fra loro cominciò il gioco Nau-
sicaa dulie belle braccia Ma quando appunto essa
già aveva in /nenie di ritornare a casa, dopoché avesse
aggiogati i muli e piegate le belle vesti, un’altra cosa
pensò una Dea, Minerva dagli occhi lucenti : come Ulisse
si svegliasse e vedesse la donzella dai begli occhi, la
quale alla città dei Feaci lo guidasse. Allora dunque
la regai fanciulla gettò la palla a un’ancella; ma
sbagliò VanceMa e la palla andò a cadere in un vor-
tice profondo; gridarono esse forte e l’esimio Ulisse
si svegliò (1).
E svegliato, è vestilo e rifocillato dalla gentil fanciulla
e condotto alla città.
(1) Odissea, VI, vv. 99-101 e 110-117.
— 9 —
Il passo, tradotto letteralmente, ci consentirà in se-
guito alcune osservazioni importanti.
Per intanto se ne può dedurre che in tempi antichis-
simi il giuoco della palla era già assai comune, almeno
nelle società pacifiche e tranquille come quella dei Feaci.
A che prò' infatti Nausicaa sarebbe venuta ai lavatoi,
se Plissé non si svegliava e si presentava a lei? Il giuoco
dunque e il grido sollevato dalle ancelle all’error della
loro compagna, è il mezzo al quale il poeta ricorre per
risvegliar l’eroe. Bisogna dunque che quello fosse ben
comune a tutte le classi di persone e assai frequente ai
tempi dell'autor dell 'Odissea, perchè questi lo introdu-
cesse nell’episodio come elemento d’arte e come mezzo
naturale e verosimile dello svolgimento dell’azione. E
come ogni usanza, per divenir popolare, ha bisogno di
un periodo di precedente sviluppo nel quale metta ra-
dice e si diffonda, così si può ritenere che il giuoco della
palla già fosse in uso ai tempi anteriori agli omerici e
probabilmente dunque già nell’età eroica (1).
Gli eruditi anche s’esercitarono a ricercare chi no
sia stato l’inventore o almeno presso quale popolo esso
abbia avuto origine; ma le loro notizie ci paion piuttosto
desunte da circostanze esterne di fatti o da caratteri
particolari di persone e di città, clic non da dati intrin-
seci e positivi.
Ateneo, per esempio, ci riferisce che Agalli (2), nella
sua grammatica Corcirea, fa Nausicaa inventrice del
giuoco (3); ma è troppo evidente che quell’antico grani-
ti) Bel resto l’antichità degli esercizi ginnastici — e non c’è
ragione d’escludere da essi il giuoco della palla — è attestata dalla
loro origine mitica. Platone però ne dà un'origine naturale; in-
cominciarono i primi uomini a saltare; l’arte che ne ordinò i
movimenti fu la Ginnastica (Leggi, VII).
(2) Suida ha Anaijalli. — Cfr. SuidaE, Lexicon graece et
latine. — Cantabrigiae, Typis Academicis, MDOCV. Tom. Ili,
pag. 415 sotto s/ihaira.
(3) Ateneo, fìeipnosoplt., lib. I, pag. 11.
— 10 —
malico di Coreica fu indotto nella sua opinione dalla
lettura dell’ Odissea e dal desiderio di onorare la sua
concittadina, come osserva lo stesso Ateneo (1); e così
Dicearco che dà il merito di quest’invenzione ai Sicionii (1)
e Ippaso che lo dà agli Spartani (1), furon senza dubbio
tratti a farlo, l’uno dalla fama di quelli che furon popolo
industrioso e attivo e fecondo d'invenzioni nelle arti,
nella scienza e nelle manifatture; l’altro dalla fama di
questi, primi sempre in ogni esercizio del corpo (1).
Contrariamente a questi, Erodoto ci informa che i
Lidi si vantavano d’aver trovato tutti i giuochi in uso
presso di loro e presso i Greci. Ciò sarebbe avvenuto
al tempo del re Albi, quando, essendo il paese tormen-
tato dalla carestia, per ingannar la fame, inventarono il
giuoco delle tessere ( cijboi ) dei dadi (rìsi ràgaloi), della
/mila e tutti gli altri, tranne gli scacchi (2).
Certo, chi abbia solo mente ai vari giuochi che og-
gidì si fanno con la palla, più atti tutti a destar l’ap-
petito che a calmarlo, farà le meraviglie di questa loro
strana origine nata dal bisogno di smorzar gli stimoli
della fame; e mostra infatti di meravigliarsene perfino
il dotto Houlenger (3), versatissimo nella conoscenza dei
costumi dei popoli antichi.
Ma tra le forme antiche del giuoco con la palla, al-
cune ve n’erano tranquille e senza grande movimento e
tale era, per esempio, quella che si faceva con la 1." specie
della piccola palla, cioè con la palla inolio piccola (sfódra
micrà), nella quale, quelli che vi si esercitavano, movevano
solo le mani le line assai vicine alle altre (4). In questa
(1) Ibidem.
(2) Erodoto, Istorie, I, 94.
(3) Caius Julius Boulengerus, De Lndis apud reteres nel
Thesaurus reterum anliquitatum Greciae ah Jacopo Gkonovio
contextus et designatus, Y'enetiis, Pasquali, MDCCXXXV, vo-
lume VII, cap. I, De ludorum orinine, col. 907, F.
(4) Oribasii, Medieinalium coltectorum Libri XVII , in Me-
ri tene artis prineipes post llippocratem et Galenum. Excudebat
— 11 —
(brina di giuoco, conio la descrivo Oribasio, si doveva
ancora star ben ritti sul corpo; nelle pitture invece dei
vasi, che son poi le testimonianze più sicure e fedeli,
si vedono spesso fanciulle sedute che si gettano e ri-
gettano la palla (1).
Con queste forine, le quali, essendo statarie e alcune
anche sedentarie, stavan benissimo in compagnia degli
astragali e dei dadi, l'origine riferita da Erodoto cessa
di essere assurda e diviene assai meno improbabile:
sull'autorità infatti di Erodoto, mostrano di accettarla
tutti gli scrittori che direttamente o indirettamente han
trattato del giuoco della palla.
E tra gli altri l’abate Saverio Quadrio (2); il quale però,
insieme con la notizia di Erodoto, accoglie anche quella
di Plinio, che fa inventore del giuoco della palla un tal
Pithus (3); e cerca di metterle d’accordo. Ma nel farlo,
dimostra il buon abate in quali traviamenti può cadere un
uomo, anche di vero ingegno e di solida coltura, quando
nei suoi ragionamenti parte da un’idea preconcetta. Nella
sua Storia e ragion (Vogai poesia (1) aveva egli scritto
che infinite cose s'erano propagate dall’ Egitto ad altre
arnioni. Anche il giuoco della palla doveva a suo parere
esser venuto alle nazioni occidentali dall’Egitto. Comincia
Jlenricus Stephanus, MDLXVII, lib. VI, cap. XXXII, col. 298:
« Pila ralde parrà; qui in ea exercentar carpare maxim eelato
/aduni et colludenles manna mandata proxime admarent ».
(1) Gulu e Kònkr, nella traduzione francese La eie des Greca
et des Itomains, Paris, I. Kodtschild, éditeur, 1884, pag. 268.
(2) Francesco Saverio Quadrio, Lettera intorno alla Sfe-
ristica, ossia Giuoco della Palla degli antichi al marchese Teodoro
Alessandro Trivulzio indiritta. Milano, Stamperia di A. Agnelli,
1751, pag. 22 e anche pag. 9.
(3) llistor. Naturalis , VII, 56-57: « Pilarn lusoriam invenit
Pithus ».
(4) Quadrio, Storia e ragion d’ogni poesia. Bologna, 1739,
voi. 1, pag. 36; voi. Il, pag. 17 e 737: voi. IV, pag. 20, 32, 34
e 109 e seguenti.
— 12 —
dunque ad asserire (1) che il Pithus di Plinio era figlio
del re Athi, ricordato da Erodoto e anche da Plutarco (2).
Ma Pythus, per una serie di variazioni fonetiche che
sembrano salti e piroette d’un acrobata, si viene a iden-
tificare con Phot, nato da Chain, figlio di Noè. E come da
questo Pbut, secondo Giuseppe Ebreo, discesero i Libii,
cosi la palla inventata da Pbut o Pythus, re di questi,
viene a nascere nella Libia (la Lidia di Athi scompare)
non tu senso stretto, sì quella parte della Libia infe-
riore, che riguarda l'Egitto (3), cioè a dire nell'Egitto,
come il buon abate voleva dimostrare (4).
Ma tornando alle forme quiete del giuoco della palla,
è tutt al più con esse che giocando si poteva cantare,
se si vuol credere a Caristio Pergameno (5), il quale
asserisce che ancora ai suoi tempi questo si faceva dalle
donne di Corcira. Per quanto riguarda le donne dei suoi
tempi, noi non abbiamo dati sufficienti per mettere in
dubbio 1 asserzione di Caristio; e può darsi benissimo
che le giocatrici di queste forme piane e statarie con
una cantilena lene lene regolassero ritmicamente il get
tare e il rigettar della palla. Ma poiché l’accenno a
Nausicaa è evidente ed è evidente la sua derivazione
dall’ Or/ òssea (0), fa d’uopo subito stabilire che la natura
(1) Lettera intorno alla ‘eristica , ecc., pag. 22.
(2) De Viriate morali, cap. XX in principio.
(8) Lag. 27.
(4) l’agg. 26-29.
(5) Frammenti di Storici Greci, raccolti da C. Mùller. Pa-
rigi, Didot, voi. I\ , pag. 369, lin. 14 e seguenti.
(6) La notizia dataci da Caristio ha tutta l’apparenza d’essergli
stata suggerita da una cattiva interpretazione del verso 100 del
Canto \ 1 dell’ Odissea, dove Molpés non va preso nel senso di
canto, ma in quello più largo di diletto, trastullo, giuoco. Non
nego che alcuni, anche illustri, interpreti caddero nello stesso
errore. Nella splendida edizione dei poeti epici greci antichi fatta
a Colonia nel 1614 (Oi tés eroikes poéseos pAloioi poiètai pdntes,
Colon iae Allobrogum ; Typis Petri De la Povere MDCX1V) con
— 13 -
e le circostanze del giuoco, quali noi le leggiam nel
poema, escludono assolutamente che Nausicaa potesse
giocando cantare. Il giuoco infatti richiedeva anzitutto
grande attenzione; lo dimostra lo sbaglio fatto da Nau-
sicaa nel gettar la palla all'ancella, causato appunto dalla
disattenzione in cui Minerva, per i suoi ben noti fini, fa
cadere la bella giocatrice (1). Richiedeva inoltre destrezza
e forza: lo provano le varie circostanze di essa: le fan-
ciulle depongono i veli del capo per esser più libero e
sciolte nei movimenti; la palla lanciata con veemenza
va a cader lontano nel gorgo profondo (2); Nausicaa è
paragonata dal poeta a Diana che caccia su per le balze
selvose delPErimanto e del Taigeto (3).
Non è ammissibile quindi in modo alcuno che Nausicaa
potesse cantare tra le fatiche e la tensione di un giuoco
così difficile e faticoso; e cade l’asserzione di Caristio,
per quanto si riferisce a quella Corcirese antica, e cade
con essa la bella conclusione che ne vorrebbe trarre il
Quadrio che si trattasse d’un giuoco a g rande perfezion
condotto, perchè (Omero) lo descrive accompagnato da
canto e da musica (4).
la versione latina a fronte, il verso in questione è tradotto « Tuni
Nausicaa pulchris tilnis incipit cantilenarli ».
Ed il Pindemonte cosi lo riproduce:
E il canto intonava alle compagne
Nausicaa bella dalle bianche braccia.
Ma l’edizione Didot ha invece: « Tum Nausicaa pulchris ulnis
Indimi incepit» ed il Mazzoni:
Con la palla giocavan i veli dal capo rimossi
Davano il segno Nausicaa dalle candide braccia.
E così va inteso.
(1) Odissea, VI, vv. 112-117.
(2) Ib., v. 116.
(3) Ib., vv. 102 e segg.
(4) Op. cit., pag. 26.
— 14 —
Ma a qual giuoco dunque s’esercitava Nausicaa?
Ateneo, nominando prima Nausicaa e poi un giuoco
detto phaùiinda (1), lascia capire die questo era il
giuoco da essa fatto, sebbene poi dimostri di fare una
cosa sola della feninda con l’arpasto contro ogni pro-
babilità, come vedremo; Eustazio, commentatore antico
e pregiato, dice apertamente essere il giuoco di Nau-
sicaa la feninda (2); Polluce (3), che non ne dice nulla,
è colui che implicitamente dà la prova maggiore che
sia appunto dessa. Infatti le notizie, che ci dà delle varie
specie di giuoco, egli le ricava dagli scrittori classici che
ne han parlato: V Urania, per esempio, dall’ Vili del-
V Odissea; l’ammenda cosidetta del Ile e dell'Asino dal
Teeteto di Platone, ecc. E donde avrebbe desunto le no-
tizie della feninda , se la descrizione, che ne fa, s’accorda
così bene con quella del giuoco di Nausicaa? Ora la
feninda (1) si faceva cosi: tra molti giocatori, chi era
in possesso della palla, fingendo di gettarla a uno, la
gettava invece a un altro, il quale doveva essere at-
tento e pronto a prenderla, affinchè non giungesse a
coloro, in mano dei quali si voleva evitar che venisse.
La semplicità primitiva del giuoco e la circostanza
che Nausicaa, tra tante compagne, a una sola in par-
ticolare dirige la palla lasciati credere che si tratti pre-
cisamente della feninda, nella forma semplice, piana e
pur movimentata che troviamo ne\\' Odissea, non in quella
(1) Op. cit., pag. 11.
(2) IIiekonymus Mercurialis, De Arte Gymnastiea. Libro II,
cap. IV. De sphaeristica in Utriusi/ue thesauri antiquitatum Grae-
carum lìomanarumrjue nooa supplemento cont/esta a Johanne
Polena. Venetiis, Pasquali MDCCXXXVII, voi. 111. col. 543, 1).
(3) Polluce, op. cit., lib. IX, cap. VII, pag. 1091-1092.
(4) Id. pag. 1092.
(i in quelle più violente, scomposte e complicate che col-
l’andar del tempo possono esser nate dalla forma antica
o che con essa poi sono state confuse.
Poiché a questo punto ci si presenta dinanzi una que-
stione, la quale merita che ci soffermiamo a discuterla.
Già abbiamo accennato come Ateneo, parlando della fe-
rii nda, la identifichi con l'arpasto. Osserva egli infatti:
Quel che nel giuoco della palla ora chiamano arpa-
sto, una rotta lo chiamavano feninda(l). Polluce, più
discretamente ma non meno chiaramente: Sembra poi
che la feninda sia il giuoco con la palla minore ; il quale
prende il suo nome, da rapire (2). Queste affermazioni
valgono (pianto dire che arpasto e feninda erano la
stessa cosa: il che contraddice a (pianto noi sappiamo
dcll'arpasto. La fonte diretta delle notizie più genuine e
sicure intorno a questo giuoco è ancora un poeta, ma sta-
volta un poeta latino: Marziale. Nè deve stupire questo
ricorrere a un poeta di Roma per risolvere una questione
intorno a un giuoco di Grecia. Già prima assai del tempo
in cui fiorirono i due scrittori alessandrini dai quali noi
togliamo queste notizie, moltissime usanze e costumanze
e molti spiriti e molte forme della civiltà greca erano co-
minciate a penetrare tra i Romani; e accettate integral-
mente e modificate secondo il carattere e i costumi del
nuovo popolo, conservando o mutando il loro nome ori-
ginario, s’erano poi di nuovo sparse per tutto il mondo con
la dominazione romana: ed era cosi nata e s'era. sparsa,
nel bacino del Moditerraneo specialmente, una civiltà
che era la risultante della fusione della civiltà greca con
la romana; più romana, per vero dire, in qualche centro,
più greca in qualche altro; ma composta ovunque o nella
sostanza o nella forma di elementi comuni, che quelle
(1) Ateneo, loc. cit., pag. 11.
(2) Polluce, loc. cit-, pag. 1902 «o eh tot) arpàzein ononui-
xastai ».
due civiltà, s'erano tra loro scambiati. Questa condizione
di cose si riflette anche nella letteratura. Salvo la lingua,
non si può quasi più parlare in questo tempo di lette-
ratura esclusivamente greca o romana: poiché non v’è
Corse scrittore greco, il contenuto delle cui opere non sia
in qualche minima parte romano, come non v’è scrittore
romano che non accolga in sé qualche po’ di contenuto
greco: sicché in questo tempo servono tanto gli scrittori
greci a illustrare le cose di Roma, quanto gli scrittori
latini quelle di Grecia. Descrizioni infatti di usanze indi-
gene e straniere; nomi propri, latini greci barbari orien-
tali, di occupazioni, di fogge, di passatempi, d’oggetti
d'ogni più estrania parte, si leggono in Marziale, che
più al vivo e più fedelmente forse d'ogni altro scrittore
ci rappresenta la società cosmopolita, varia, eterogenea
dei suoi tempi. I suoi non sono quadri disegnati e dipinti
con ampiezza di linee e. colori, ma piuttosto schizzi trat-
teggiati a tocchi brevi semplici e (ini; scarni talvolta
e compressi, ma nella loro nudità stessa più espressivi
e vivaci. Spesso la linea s’accorcia o s’allunga, si drizza
o si ricurva a segnare più visibile il difetto: lo schizzo
allora si fa pupazzetto, e più acuta ne scatta la punta
satirica; ma sempre l’essenza e il carattere della natura
delle persone e delle cose è colto e riprodotto con im-
peccabile precisione ed evidenza. Ora, se da mia parte
lo stesso scopo satirico della sua poesia lo portava a
osservare la vita a sé circostante e a spiare ogni più
minuta abitudine e occupazione di tutte le classi di
persone e a fermare nel conio dei suoi epigrammi
quanto di notevole gli capitava sott’occhio; dall’altra
la tendenza stessa del suo spirito e la qualità del genere
letterario da lui trattato che lo portavano alla concisione
e gli facevano aborrire le circonlocuzioni, il suo verismo
audace e spudorato che non gli negava l’uso di nessuna
espressione e lo tratteneva dall’eufemismo, l’esigenze
delle frequenti antitesi che amano il senso proprio del vo-
cabolo, gli fecero radunare nei suoi scritti tanta varietà
— 17 -
.li particolari intorno a usi, costumi, condizioni, profes-
sioni, divertimenti, mode, ecc. ecc., tanta ricchezza di
termini tecnici riguardanti gli oggetti della casa e dei
templi, dei ginnasi, ecc. ecc., che un commento, appena
sufficiente all’intelligenza delle sue poesie, basterebbe a
formare, a mio parere, un quadro completo della vita
del suo tempo.
Nessuna meraviglia dunque se anche intorno al giuoco
della palla è Marziale che ci fornisce le più copiose
informazioni.
Ecco Pepigrammà in cui egli definisce Yarpasto:
Haec rapit Anthaei velox in pulvere draucus,
grandia qui vano colla labore facit (1).
Il rapit, in cui è accennata l’etimologia di arpa. s/o.
contiene già in sé l'idea della violenza; chè ogni rapina
6 lotta e ogni lotta è sempre più o meno violenta. 11
giuoco inoltre, vuoi perchè spesso la palla cadeva a terra
e i giocatori s’affollavano e s’avviluppavano nella lotta
intorno a essa per carpirla, vuoi per il tramestio che
d’ogni parte si faceva continuamente, sollevava gran
polvere: il poeta questo, lo rileva col in pulrerp Anthei ;
e vi insiste ogni qual volta ne ha da parlare in altri
epigrammi. Così Yendromida servirà all’amico, quando
si sarà fatto sudare a rapir Yarpasto marni pulve-
rulenta{ 2); e l’altro amico farà bene a temprarsi in
esercizi anche più energici che non sia il rapir l’arpa sto
pulverulento (3). Inoltre questo giuoco era assai faticoso;
e per questo e anche per la immoderata veemenza e
per i movimenti scontorti e scomposti, riservato esclu-
sivamente agli uomini. Lo stesso Marziale infatti volendo
rappresentarci una virago che la vuol far da uomo, dice
che non solo mangiava e beveva più che virilmente, ma
• r
(1) Edizione Teubneriana di Lipsia. Lib. XIV., Ep. 48.
(2) IV, 19.
(3) VII, 32.
anche s’esercitava in tutti gli esercizi più faticosi e tra
gli altri n e\V ai-pasto (1).
Ciò considerato, chi legge con qualche attenzione
l’episodio di Nausicaa gentile, può seriamente pensare
eh 'essa giocasse al Var pasto ? N essa n accen no nel l’ Odissea,
nessuna, anche lontana, allusione giustificherebbe una
tale interpretazione. E poiché dalle medesime sue pa-
role, non v’è dubbio che Ateneo parli AqW ai-pasto (2), non
si può spiegare altrimenti la confusione che egli e Pol-
luce, che forse lo copia, fanno della feninda collV/e-
pasto, se non ammettendo una delle due seguenti ipotesi:
l.° che i due scrittori siano stati tratti a identificare la
feninda, giuoco al loro tempo già forse caduto in disuso,
con Yarpasto da una certa quale apparenza di rapina
che pur c’è nella feninda, tentando i giocatori, ora col
chinarsi, or collo stendersi, or cól piegarsi, or col saltare
qua e là, d’intercettare la palla ad altri diretta; 2." che
la feninda, giuoco in origine semplice c interessante
ma non soverchiamente faticoso e turbolento, si sia ve-
nuto complicando e trasformando, fino a tramutarsi a
poco a poco ue\V ai-pasto, tanto in voga ai tempi di
Ateneo e Polluce da far dimenticare la feninda e il modo
più calmo, più solazzevole, più fanciullesco con cui essa
si faceva (3).
Ma piuttosto che alla feninda mi par che Vai-pasto si
possa avvicinare a un altro giuoco che Polluce chiama
(1) VII, G7.
(2) Loc. cit., pag. Il «quel ette nel giuoco della />alla era
chiamato Arpasto un tempo chiamavano Feninda, anche a me (jrc-
ditissimo per la fatica e l’ardor della lotta intorno alla palla».
(3) Il (juAimio (loc. cit. pag. 47 e segg.), nega anche lui che
la feninda possa essere l 'arpasto per tre ragioni : 1 .“ perchè Omero
non potè rappresentarci donzelle che giocando facessero di sé si
mal governo; 2." perchè \s.faininda consisteva in infingimenti e
inganni; 1‘ arpasto in combattimenti e gare, cioè non era giuoco
ingannatorio ma certatorio; 3.* perchè diversa era la maniera ili
giocare.
— 19 —
epishyros o epikoinos o ephébiké, sebbene altri voglia
mostrar di negarlo (1). 1 giocatori che dovevano essere
molti ( epikoinos ), si dividevano in due schiere eguali di
numero e si ponevano in distanza gli uni contro gli altri;
si tirava in mezzo una linea (detta sckyros, onde eplshyi'os)
e sopra di essa si poneva la palla; due altre linee a
questa parallele e da questa equidistanti, limitavano lo
spazio in cui le schiere si potevano muovere; vinceva chi
mandava la palla oltre la linea segnata dietro la schiera
avversaria.
Il modo con cui Polluce descrive questo suo epishyros
non lascia dubbio: il numero dei giocatori ( epikoinos ),
la loro età e gargliardìa ( ephebihé ), la linea in mezzo,
la palla collocata in principio su di essa, le due linee
estreme limitanti lo spazio, le condizioni del vincere, tutto
là pensare aWarpasto e al florentin giuoco del calcio,
che dà questo, con ogni probabilità, per non interrotta
tradizione ò derivato.
Si mettano infatti insieme e si combinino e si com-
pletino l’una coll’altra le indicazioni che ce ne lasciarono
Marziale, Ateneo e Polluce; si paragonino con la descri-
zione che del calcio fa Antonio Scaino nel suo trattalo
del pallone; poi si giudichi, se non si tratta dello stesso
giuoco: Si segna spazio entro al quale hanno a cacciar
la palla quelli che voglion esser i vincitori della bat-
taglia; si batte la palla con qual parte più piace della
persona e sia ogni tempo a terra o in aria, ecc. ... (2).
Si pone la palla in mezzo e, dato il segnale (con tromba
o tamburo), uno colpisce la palla col piede — onde
gioco del calcio — ; quindi si caccia e ricaccia (3), 11
(1) Lo nega infatti il Jungermann alla nota 84, pag. 1092
dell’opera citata di I’olluce : « Xec itaque rectum « harpastum» ad
« cpiskgrou sphalras eidos » referri putant posse viri dodi ».
(2) Antonio Scaino, Il giuoco della palla , Venezia, Giolito,
1555, pag. 283.
(3) 10., pag. 283.
— 20 —
giuoco è vera battaglia nella quale spessissime rotte
quinci et quindi, ranno i giuncatovi con grandissima
vitina sossopva e dove si scorge il valor dei 1>uoni
corridori et di quelli che alfa fotta sono destri e pos-
senti (1).
L’idea della lotta, che compare, implicita o esplicita,
in questi scrittori citati, fa pensare al dialogo di Luciano
intitolato Anacarsi nel quale Solone, dopo aver lunga-
mente esaltati i vantaggi della ginnastica, ammonisce il
filosofo Scita: Poiché- tu dici, o Anacarsi, che visiterai
anche il resto della Grecia, ricòrdo/ i, quando giungerai
a Sparto, di non deridere quei cittadini né credere
che essi facciano opera inutile, quando nel teatro sca-
gliandosi l'un contro l’altro in lotta contro la polla-
si percuotono; sicché , soggiunge, da questo e da altri
esercizi escono tutti pesti e sanguinanti (2). E anche
vi accenna Seneca, quando scrive a Lucilio suo di esser
lieto che la sphaerornachia (3), cioè la lotta intorno alla
palla, lo liberi per quel giorno dai molesti, attratti allo
spettacolo; ma sentendo venir gran clamore dallo stadio,
si domanda il filosofo perchè tanto pochi coltivino l’in-
gegno si corpus perdaci exercitatìone ad lume pa-
tientiam potest, qua et pugnos pariter et calces non
unius hominis ferut, qua solem ardentissimum in fer-
ventissimo polvere sustinens aliquis, et sanguine suo
madens, diem ducat (3).
Dove i tratti fondamentali del giuoco, che noi vedemmo
in Marziale, in Ateneo, nello Scaino, sono quasi identi-
camente, perfin cogli stessi vocaboli, riprodotti, esclu-
dendo la descrizione evidentissima di Seneca ogni altro
significato di sphaerornachia che non sia lotta intornio
alla palla, come rescinde Stazio stesso, quando, sphae-
(1) Ib., pag. 286.
(2) Luciano, Dialogo XLIX, 'Andcharsis é peri gt/mnasion, 38.
(3) Seneca, Episiulae Morales ad Lucilium, Epistola LXXX.
— 21 —
roinachia avvicinando a Insto pilaris, dà del suo signi-
ficato non dubbia esplicazione (1). Ed è senza fallo questo
giuoco deWar-pas/o che Ovidio sconsiglia alle donne come
forma di giuoco troppo faticosa e turbolenta. Imparino
esse gli scaccili, gli astragali, i dadi; mille fossero i
giuochi, tutti gl'imparino (2): ma agli uomini Sun/ cele-
resque pi lue (8), dove il celeres collima a puntino con
il relax di Marziale, nè lascia dubbio sulla natura del
giuoco. Ed è ancor questo il giuoco, a cui Properzio me-
ravigliando e ammirando che s’esercitassero le fanciulle
spartane, nega implicitamente che vi si esercitassero le
romane (4).
Da tutto questo si vede che Vai-pasto, per la sua stessa
violenza e fatica, era piuttosto in uso presso la gente
giovane e forte e tra i popoli era preferito dagli Spar-
tani e dai Romani, di tutti più energici e robusti; e
resta sempre più confermata la conclusione che esso non
è il giuoco di Nausicaa.
Ma oltre a questo, fatto dalla ‘figlia del re, ancora a
un altro i Feaci si divertono nell’OdiSsm; e Polluce lo
chiama Urania, dal gettar che si faceva la palla verso
il cielo. Ecco il racconto dell’ Odissea: Ulisse, pervenuto
ai palazzi del magnanimo Alcinoo, sebbene ancora sco-
nosciuto, v’è ospitato regalmente con tutti gli onori che
si dànno agli ospiti insigni. Il re lungi potente ha fatto
approvar dall'assemblea l’allestimento d’una trireme per
ricondurlo alla patria terra; ha invitato i nobili scettrati
a un banchetto in suo onore; ha indetto finalmente
pubblici giuochi per dilettarlo. Tra gli altri vi fu quello,
in cui i Feaci erano più esperti, vale a dire la danza
con la palla. Gareggiano Alio e Laodamante. Questi
(1) Stazio, Epistula ad Marcellum, come prefazione al lib. VI,
Bylcarum.
(2) Ovidio, Ars Amatoria, lib. ni, v. 349 e segg.
(3) Ovidio, Ars Amatoria, lib. Ili, v. 383.
(4) Properzio, Elecjie, III, 14.“.
dunque, dopoché ébbcr preso in mano la beila palla pur-
purea, che per loro fece Polibo, l’uno la gettava verso
le nubi ombrose, piegandosi all’ indietro; l’altro poi da
terra in alto slanciandosi, abilmente V afferrava prima
di laccar coi piedi la terra (1).
Polluce, nel ripetere su per giù quel che di questo
giuoco si legge nell* Orfi'ssm cade in un'inesattezza ripe-
tuta poi da Mercuriale (2) c da altri trattatisti posteriori.
Scrive egli infatti: Nell’ Urania poi uno. piegandosi,
gettava la palla verso il cielo; gli allei saltando avevan
cura di prenderla, prima eh' essa cadesse a terra ( prtn
eis gdn autèn peschi) (3), mentre è chiaro il passo del-
V Odissea: pàros poshi oùdas hihéstai (4) cioè: prima
che (il giocatore) toccasse coi piedi la terra (5). In questo
anzi consisteva tutta l’abilità.; misurare cioè con rocchio
la distanza della palla e calcolarne la velocità, per esser
pronti a spiccare il salto all’istante conveniente e affer-
rarla, mentre s’era col corpo in aria.
Ma in verità, tutte le notizie che Polluce ci dà in
questo passo, oltre non essere esattissime, sono assai
oscuro e disordinate. Ecco, per la chiarezza, la traduzione
letterale del passo: AW/’apnrraxis bisognava gettar la
palla contro il suolo, e aspettato il salto, ribatterla
con la mano ; e si contava il numero dei salti. Nel-
l’ Urania invece, l’uno, piegandosi, gettava la palla al
cielo; gli altri poi avevan cura di prenderla, prima
che cadesse in terra, il che par che voglia dire Omero
(1) Odissea, Vili, vv. 372-377.
(2) Mercuriale, loc. cit- , lib. II, cap. IV, col. 544, C.
(3) Polluce, loc. cit., pag. 1093.
(4) Odissea, Vili, v. 376.
(5) Ben traduce il Pindemonte:
L’un la palla gittava vèr le fosche
Nubi, curvato indietro; e l’altro, un salto
Spiccando, riceveala, ed al compagno
La respingea senza fatica o sforzo
Pria che di nuovo il suol col piè toccasse.
- 23 —
dei Feaci. Quando però gettassero la patta contro il
maro, computavano il numero dei sotti; il vinto era
chiamato asino e faceva quel che gli si ordinasse; il
vincitore invece era re e ordinava. Dunque egli parla
prima di un certo giuoco che chiama Aporraxis e che si
faceva scagliando la palla contro il suolo e poi colpen-
dola nel salto colla mano; si contava quindi il numero
dei salti e vinceva chi glie ne faceva far di più; poi
passa a descrivere l’Urania, nella quale la vittoria non
dipendeva affatto dal numero dei salti che si facessero
fare alla palla; finalmente ritorna a parlar d’un giuoco
in cui di nuovo si contava il numero dei salti, che eran
quelli che appunto decidevan della vittoria; senonchò la
palla, invece di battersi contro il suolo, si gettava contro
il muro (1). Ora, l'Urania m'ha tutta l'apparenza di star
li a dividere in due parti la descrizione d’un medesimo
giuoco che si presentava sotto duo aspetti diversi se-
condo che la palla si batteva contro terra o contro il
muro; leggera differenza, messa benissimo in rilievo dalla
tenue avversativa però , che sarebbe più che impro-
pria, se fosse stata usata a far rilevare una differenza
sostanziale quale sarebbe quella tra l’Urania e il giuoco
che segue. Era questo necessario avvertire, perchè eb-
bero di qui origine certe conclusioni inesatte che è bene
rettificare.
Polluce, infatti scrive: Il vinto poi veniva chia-
mato asino ed eseguiva quel vite gli si ordinasse; il
vincitore invece era re e dava l'ordine . Questa parti-
colarità è evidentemente ricavata dal Teeteto di Platone;
nel (piale si legge: Chi errerà , quando gli toccherà di
parlare , segga, come dicono i fanciulli giocando alla
palla, e sia asino; e chi riesca a non sbagliare, sarà
nostro re, e ordinerà qualunque cosa voglia sia ris-
posta (2). Appare dunque evidente che una maniera sif-
(1) Polluce, loc. cit., lib. IX, cap. VII, pag. 1098-1094.
(2) Platone, Teeteto, HI, 146.
— 24 -
fatta di premiare il vincitore e di dare una penitenza al
vinto era comune a tutti i giuochi che i ragazzi facevan
con la palla.
E questa medesima cosa afferma Eustazio nel com-
mentare il passo dell’Orftssra, dove i due giovani Feaci
gareggiano all’Urania; poiché egli non parla nè di un
giuoco nò dell’altro in particolare, ma dice semplicemente
che, giocando alla palla, chi vinceva era chiamato re
e asino chi perdeva (1). Errano quindi tanto quei trat-
tatisti e commentatori, i quali vorrebbero che questa
usanza fosse particolare deH’Urania (della quale, ad ogni
modo, meno particolare doveva essere che di qualunque
altro giuoco, perchè questa esigeva grande abilità e di-
ligenza e si faceva non tra i fanciulli, ma tra i torti
efebi, assai, e forse unicamente, studiosi dell’onor della
vittoria), quanto quelli che la dicono propria del Vapor-
russi (alla quale però meglio parrebbe adatta, perchè
giuoco e ammènda, per il loro carattere fanciullesco,
sembrano ai ragazzi maggiormente convenire).
Ma ritornando ai Feaci e alla loro Urania, la gran
passione che essi avevano per questo e per tutti i giuochi
con la palla — passione che ebbero poi dopo tutti i
Greci — la si rivela anche nella cura che riponevano
nel fare la palla e nel rivestirla di bei colori. La pre-
para quindi ad Alio c a Laodamante l’industre Polibo
e l’adorna d'un bel colore rosso ( spimi ra poì'phyrée) (2).
Più tardi si dipinsero poi anche a più colori. Platone,
nel descrivere la sua terra ideale, la paragona a una
palla formata con dodici liste di pelle distinte da colori
(1) Il passo di Kustazio (il quale a sua volta cita il Teeteto
e un proverbio di Cratino) è riportato da Gotofrfdo Jungur-
mann in una dotta nota a l’olluce, colla quale tenta di dar maggior
assetto al disordine del testo, correggendo l’interpunzione. Ma
ci riesce solo a mezzo. — (Vedi edizione citata dell’llemsterliuis,
pag. 1903, nota 94).
(2) Odissea, Vili, v. 373.
— 25 —
diversi, dei quali i colori di quaggiù, di cui fanno uso
i pittori, sono le immagini (1).
Più solitamente però erano dipinte lo palle che s’usa-
van nei giuochi minori; probabilmente quelle che Antillo
chiama piccole e grandi {non le piè grandi del giunto),
le quali, fatte di polle fine e sottile e ripiene di piume
o di lana o di grani di fico o anche di sabbia, erano
usate più specialmente dai fanciulli e dalle fanciulle. Si
trovano infatti disegnate sopra vasi fìttili palle colorate
come accessorio nelle scene della vita del ginnasio e dei
.divertimenti donneschi. Anzi se ne rinvennero, con di-
versi altri balocchi e arnesi da lavoro, sospese alla pa-
reti d’una tomba d’una greca donzella (2).
E Ovidio, il fine interprete dei miti greci, ci rappre-
senta P infelice Pigmalione, che, foggiatasi con le sue
stesse mani la sua pena amorosa, spasima dinanzi al-
l'insensibile statua eburnea. E arde e sospira e l’am-
mira e le favella e l’accarezza e la bacia; poi, per cat-
tivarsene l’amore,
grata puellis
Miniera fert illi conclias teretesque capillos
Et parvas volucres et llores mille colorimi
Liliaque pictasque pila» et ab arbore lapsas
Heliadum lacryinas (3).
Tra gli altri doni dunque anche le palle variopinte;
prova evidente della loro frequenza nei trastulli d’una
greca donzella.
(1) Platone, Fedone, LIX ; in principio.
(2) Dizionario delle antichità Greche e Romane di Antmones
Ricii, tradotto sotto la direzione di R. Bonghi e G. Dei. Ri-: sotto
Pila.
(3) Ovidio, Metani., X, vv. 259-263.
r
CAPITOLO II.
Te varie forme di giuoco presso i Romani: il trilione; alcune
usanze di questa e di altre forme di giuoco (Marziale, Ma-
crobio e Diogene); il folte e il follicolo (Marziale, Antillo,
Svetonio, Flauto); la par/anica e alcune frasi tecniche del
giuoco (Marziale, Varrone, Nonio, Plauto); congetture
intorno all’interpretazione di <|ueste frasi ; l’opinione del Qua-
drio; significato del vocabolo PiUerepus (Seneca, un’iscri-
zione antica); una multa originale al vinto.
La ginnastica presso i Romani non ebbe mai carattere
religioso e quindi neppure l’onor d’una letteratura che
fosse l’esaltazione di essa e insieme di miti religiosi e
leggende eroiche, come fu in Grecia la lirica di Pindaro;
salvo, per rillesso, qualche accenno fuggevole in Orazio.
Essa, nè nella sua forma più importante, cioè in quella
di carattere marziale che si faceva al campo di Marte
per preparare alla patria buoni soldati, nè nella sua
forma minore, cioè in quella fatta per diletto negli sfe-
risteri pubblici e privati e un po’ dappertutto, non ebbe
una letteratura sua propria: il giuoco della palla ne
seguì naturalmente le sorti ed entrò indirettamente nella
letteratura; ma più frequente in quella che chiamerei
di costumi: nella satira, nella storia aneddotica, in certe
immagini retoriche, ecc. Le notizie più ampie e più si-
cure intorno alle varie specie di giuoco, noi le ricaviamo
ancora da Marziale; oltre all ' arpaslo, di cui già ab-
— 27 -
biarao parlato, tre ne troviamo menzionate negli epi-
grammi di lui: la pila (1) paganica, la pila trigonali s
e il follis.
La trigonale — per cominciare da essa — si chia-
mava anche semplicemente trigone , dal greco trigóne o
trigóno , perchè i giocatori, disposti in triangolo si get-
tavano e rigettavano a vicenda la palla; ma se nel get-
tarla è probabile che usassero la destra, è certo che
nel rimandarla usavano la sola sinistra.
Nel lemma, in cui definisce il trigone , Marziale mette
in rilievo questa particolarità:
Si me mobili bus nosti expulsare sinistris
Suoi tua. Tu nescis? Rustice, reilde pilam (2).
E la ripete in altri epigrammi. L’importuno Menogene,
che insiste a seccarti a forza di gentilezze per l'arsi
invitare a cena,
Captabit dexlra laevaque trigonem,
linputet acceptas ut tibisaepe pilas,
vale a dire, ricevendo la palla rolla destra , commetterà
un fallo che sarà contato a te come punto di vantaggio (3).
E all’amico Paulo che lo difende ripetendo che non è
lui l’autor degli epigrammi, tra gli altri auguri che gli fa,
inette pur quello che la sua sinistra sia lodata pii'i di
quella di Polibo, famoso giocator di trigone (4).
(1) Son curiosi due epigrammi che il Du Change riporta nel
suo Glossario sotto pila :
Est pila pes pontis, pila ludus, pila taberna;
Pila terit pultes, sed pila geruntur in liostes:
e
Ludum laudo pilae, plus laudo pocula pilae.
( niossarium ad scriptores mediae et infimae latinitatis, auctore
Carolo Dufresne domino Du Chance, Venetiis, Sebastianus
Coleti, MDCCXXXIX, tom. V, col. 452).
(2) Marziale, XIV, 46. Altre edizioni (come p. e. Pomba,
Torino, 1833) hanno nobilibus.
(3) Marziale XII, 82, vv. 4-5.
(4) Id. VII, 72, vv. 9-11.
— 28 -
E conferma l’uso della sinistra in questo giuoco e ne
rimane a sua volta spiegato, l’aneddoto narrato da Ma-
crob io. Avendo Cesare guadagnato a Cecilio cinquanta
talenti, datine cento ai compagni: Vi pure, domandò, che
io abbia giocato con una mano so/a? (1).
Ma il medesimo epigramma (2) di Marziale è ancora
importante per altre preziose informazioni:
Sic palmam tibi de trigone nudo
Unctae det favor arbiter coronae
Nec laudet Polybi magis sinistras, ecc. (2).
Nudo trigone, dice il poeta, perché nudi vi si solevano
esercitare; nudi infatti si vedono i giocatori di esso nella
moneta di M. Aurelio Antonino riportata da Mercuriale (3);
anzi non solo al trigone, ma anche ad altri giuochi di
palla giocavano nudi. Cosi infatti sono i giocatori di
folte nella medaglia di Gordiano JII presso lo stesso
Mercuriale (4); e Trimalcione (5), quel bel tipo che fa tutto
alla rovescia, giuoca vestito nelle terme, probabilmente
alla paganica, come vedremo (6). Per evitare poi i ma-
fi) Poleno, Utriusque thesauri antii/uitatum romanarum
grecarumgue nova supplemento congesta . Venetiis MDCCXXVI1,
col. HI eoi. .'106' oppure : Fioritegli magni seti l’olganthea Jloribus
novissimi^ sparsa. LLb. XXI11 Joseph: Laugii. Lugduni, Ravand,
MDCXLVIII, sotto Ludus\ apoftegmata, col. 1621 ; o direttamente:
Mackoiiio Saturnalium. Lib. Il, 6, 6.
(2) VII, 72, vv. 9-11.
(3) Loc. cit. coll. 551-552.
(4) Coll. 547-548.
(5) E. Petrosi: Arbitri, Salgricon, Lendini MDCCVII, p. 28.
(6) Del resto non solo per giocare alla palla, ma per lare
altri esercizi ginnastici si solevano gli antichi denudare. Dionigi
d'Àlicarnasso (Antiquitates Romanae, VII) ci informa che primo
a spogliarsi tutto fu Neante Spartano. Anche Tucidide (Istorie, I)
dice che furono primi gli Spartani; anzi presso di loro si eser-
citarono nude anche le donne (Properzio III, 12.*). 11 qual costume
approvano Platone (Della Repubblica, V) e Plutarco (Licurgo,
XIV), come quello che conferisce ai buoni costumi e dà alle donne
una vereconda scioltezza e un’ingenua fiducia in se stesse.
— 29 —
i
Ianni, che, accaldandosi nel giuoco, potevan loro venire
da quell’abbigliamento un po’ leggero, giocavano nel
tepidario: e appunto per questo e non perchè si riscal-
dassero i giocatori o la palla o la mano come altri vor-
rebbe spiegare, Marziale chiama altrove tepido il tri-
gone (1). Anzi per maggior precauzione si ungevano di
grasso olio: ed era anche comminata una multa a chi,
untosi, non giocava. Lo si ricava da una lettera di un
tal Diogene all’amico Sofolide. Il quale Diogene, essendo
venuto a Mileto, entrò nel Ginnasio, e, visto nell’atrio
un tale che giocava male alla palla, s’accostò al custode
della palestra e gli domandò che multa era costituita
contro colui che, unto, non giocava. Ed essendogli stato
risposto: un obolo, egli mostrando l’amico : Quel gio-
rnee, disse, non sentendosi minacciato da nessuna
multa . svogliatamente giocando, ti froda (2). Quest’ul-
tima notizia mi è parsa non inutile almeno per lo studio
dei costumi antichi: le altre e del giocar nel tepidario
e dell’ungersi prima dell’esercizio, le avrei benissimo
omesse perchè notissime, se non mi servissero a dimo-
strare come Marziale, con la scelta sempre felice del-
l'epiteto, sa rilevare e definire le qualità intrinseche e
sostanziali di ciò che descrive e illuminarci con una
sola parola intorno a un intero sistema o usanza.
#
* *
Il folle era una palla fatta di cuoio e piena d’aria,
come dice il suo stesso nome, che in latino, chi non lo
sapesse, significava originariamente sacco di cuoio, donde
i sensi derivati di mantice e palla gonfiata. Dal verso
di Marziale:
Plumea seu laxi partiris pondera follis (3),
(1) IV, v. 5 — XII, 83, v. 3.
(2) Ledere di Diogene, XXXV, .4 Sofolide, nel volume Epi-
stolografi greci, edito da Rodolfo IIf.rsgiier. Parigi, Didot, 1873.
(3) IV, 19 v. 1.
— 30 —
alcuni ne vorrebbero dedurre che il folle poteva anche
esser riempito di piume. Ma bene osserva Mercuriale
che plutnea qui va inteso in senso figurato per leggera;
si noti infatti che il poeta, non senza intenzione, riferisce
plumea a pondera e non a folli s.
Dall’atteggiamento dei giocatori nella moneta di Gor-
diano III (1) appare che essi dovevano per lo più colpire
il folle — più grosso della loro testa — con l’avambraccio,
che si vede quasi tutto difeso da cinghie: ma può darsi
che lo colpissero anche col pugno e colla testa, come
in certi giuochi ancora oggidì si vede fare. Non era
dunque un giuoco nè faticoso nò difficile e vi giocava
l'età più mite: i fanciulli e i vecchi; onde a ragione
Marziale nel lemma che gli si riferisce:
Ite procul, iuvenes: mitis mihi convenit aetas,
Folle decet pueros ludere, folle senes('2).
Che poi il giuoco si facesse in luogo appositamente
ricoperto di polvere, affinchè questi giocatori, poco saldi
in gambe, cadendo non si facessero male, come arzi-
gogola Mercuriale, non mi arrischio d’ ammettere (3).
Evidentemente egli tolse l'idea della polvere cosparsa sul
suolo per attutire il colpo della caduta, rial de polvere (4),
donde l’importuno Menogene, che già conosciamo, rac-
coglie e riporta il folle , che, sgonfiatosi ( laooum ), è ca-
duto prima d’arrivare alla mèta. Ma qui il de polvere
va inteso semplicemente nel senso di dal suolo e il con-
cetto di polvere messo lì da Marziale non serve ad altro,
a mio giudizio, che a dar maggior risalto alla servilità
svenevole di Menogene. La conclusione, a cui si spinge
Mercuriale, mi par che non abbia fondamento.
Vi era ancora un’altra palla di cuoio che si gonfiava
d’aria: ma era assai più piccola del folle e si chiamava
(1) Mercuriale, Ioc. cit.
(2) XIV, 47.
(3) Mercuriale, loc. cit., lib. II, cap. V., col 548, A e 547, I?.
(4) XII, 82 v. 5.
— 31 —
follicolo cioè piccolo folle. Ma Antillo presso Oribasio,
nominando tra le altre la palla vuota (sphaira kéne), che
chiama anche follicolo, la dice nè facile nè adatta e da
omettersi (1). Il che combinerebbe con quanto ci dice Sve-
tonio (2), il quale, parlando di Augusto, narra che dopo
le guerre civili passò dalle esercitazioni militari con le
armi e il cavallo ad pilara follimlumque : e infine
tralasciò anche questi passatempi, per solo passeggiare
e andare in lettiga. Io credo si possa stabilire che tra la
palla gonfiata nella moneta di Gordiano III — palla che
per la sua grossezza non poteva comportare se non un
giuoco che si facesse da vicino — e il follicolo vi fossero
tante dimensioni intermedie di palle, e che a mano a
mano che la dimensione diminuiva, cresceva la distanza
tra i giocatori e quindi la difficoltà del giuoco, sicché
le partite col follicolo erano tra le più faticose e dif-
ficili e richiedevano maggior forza e destrezza. Però
come vi si giocasse non si sa. Mercuriale (3) crede di
poter ricavare da Plauto che il follicolo si colpiva col
pugno e Panvinio (4) aggiunge che per questo la mano
veniva munita di cinghie.
Il passo di Plauto, cui accenna Mercuriale è questo:
« Il servo Trachalione minaccia il lenone Lambraee che
si vuol ricondurre le suo ancelle:
Traciiauo: Agedum ergo, tange utramvis digitulo minumo
Lambrax : Quid si attigero? ^
Extemplo, hercle, ego te follem
m „ . [pugillatorium.
Traciialio : Faciam (5).
(1) Oriuasio, loc. cit. cap. XXXII, col. 299: «Pila inanis,
cui edam folliculo nomea cut , aeque exercet ac motoria, in qua
curritur; nei/ue lanieri faci hs negue apta atrjue omittenda».
(2) Svetonio, Vita d’ Augusto, cap. 83.
(3) Loc. cit., lib. II, cap. V, col. 540, E.
(4) De ludis Circensibua in Graevius, Thesaurus aniiquita-
tum romanarum IX, col. 335, nota 3, a.
(5) Plautus, Itudens, act. Ili, scen. IV, vv. 624-626.
— 32 —
La comica ed energica espressione te faciam fol-
mel pugillatorium non lascia dubbio che non si tratti
di un folle che si colpiva coi pugni, nudi o difesi da
cinghie non importa. Errò dunque Oribasio il quale, tra-
ducendo Antillo, chiama folle pugillatorio quel corico
che consisteva nell'attaccarc al soffitto un grosso pallone
e nel farlo ondulare con forza, cercando poi di fermarlo
con il torso, senza toccarlo con le mani. Il quale eser-
cizio, come si vede, non ha nulla a che fare con il fol-
licolo, il quale, di tutti i giuochi antichi, è quello che
sembra avere con il nostro pallone col bracciale la mag-
gior rassomiglianza (1).
Finalmente l’ultima specie di palla in uso presso i
Latini era la pila paga)) ira, cosi detta perchè si giocava
nei pagi (villaggi) dalla gente del contado; più tardi
penetrò in città, ma fu sempre il gioco preferito dal
popolo. Marziale ce ne fa una descrizione abbastanza
particolareggiata :
llaec quae ilitticili turget paganica piuma,
Folle minus lava et minus arcta pila (2).
Era dunque fatta di cuoio ma, a differenza del folle
e del follicolo , infarcita di piume: del folle però era
meno grossa e più dura; più grossa invece e meno dura
del trigone, poiché in quest’epigramma per pila si deve
intendere trigone. Ce lo spiega lo stesso Marziale:
Non pila, non follis, non te paganica thermis
l’raeparat, aut nudi stipitis ictus liebes;
Vara nec in lento ceromate brachia tendis,
Non harpasta vagus pulverulenta rapis... (3).
Sono qui annoverate quelle quattro specie di palla
delle quali Marziale ci dà in quattro epigrammi delle
(1) Il Panvinio (loc. cit ) sembra essere della stessa opinione,
quando aggiunge come da noi col bracciale.
(2) Marziale, XIV, 45.
(3) Marziale, VII, 32, vv. 7-10.
— 33 —
vere e proprie definizioni (1); ma tre sono indicate con
il loro nome proprio: follia, paganica, harpasta; solo
il trigone è designato col termine generale di pila.
Dunque pila vale in questo e nell’epigramma sovracitato
trigone; ed è presumibile che questa stessa forma di
giuoco indichi, per lo più, presso tutti gli scrittori latini.
E però da notare che si trovano non di rado in latino
con i verbi di giocare taluni avverbi, che qualche trat-
tatista vorrebbe intendere come designazioni dell'una o
dell’altra forma ili giuoco: occorre invece subito avvertire
che non solo non si hanno elementi per stabilire con
certezza che quelle determinazioni avverbiali esprimes-
sero maniere particolari di giocare, ma che anzi tutto dà
a credere che piuttosto indicassero atti o momenti spe-
ciali di tutte o di alcune forme di giuoco. Cito i tre passi
di scrittori, donde i trattatisti han tolto le tre determina-
zioni in questione. Leggesi in Varrone presso Nonio (2):
Yidebis ante lanienas pueros pila expuhim liniere; e
in Novio presso il medesimo (3): In molis ludunt rap/im
pila; e in Plauto, là dove il parassita Cureulione, ritor-
nando frettoloso dalla Caria, per farsi far largo per la
via, comicamente apostrofa gli astanti:
Date viam, noti ntiiue ignoti, dum ego hic otlicium ineum
i’acio : fugite omnes, abite et de via secedite:
Tum isti Graeci palliati
Tum isti, qui ludunt datatilo servi scurrarum in via,
Et datores et lactores, omnes subdam sub solum!
Proinde se domi contineant, vitent infortunium (4).
Da questi luoghi non si ha nessuna indicazione per
dare ai tre vocaboli uno speciale significato: solo la loro
etimologia e le cognizioni che abbiamo intorno ai giuochi
(1) Sono gli epigrammi 45, 46, 47 e 48 del libro XIV.
(2) Varrò apud Noniu.m II, 28.
(8) Novius apud Nonium II, 213.
(4) Pi. auto, Ci ir cui io, act. Il, scen. 1(1, vv. 286-296.
— 34 —
con la palla presso i Romani, ci possono in qualche modo
guidare alla loro interpretazione. Colla loro guida dunque
possiamo forse spingerci a congetturare che con da-
ta tim ludere si indicasse l’atto dell’ inviar la palla al-
l’avversario colpendola, e datar si chiamasse chi così la
mandava: con ex pulsi in furiere ( 1) si designasse l’atto
del rimandarla ribattendola, e factor fosse chi così la
ricacciava: onde factiones si vennero a chiamare le parti
avversarie (2); con raptim ludere, finalmente, si signifi-
casse quel lottare accanito intorno alla palla per impos-
sessarsene. Volendo quindi riferire i tre termini cosi
intesi alle specie di giuoco che abbiamo nominate, sa-
rebbe da attribuire il raptim ludere all 'arpasto; il da
tati m e V expulsim più particolarmente al follicolo e
alla paga) dea (3).
Ciò ammesso, non mi pare esatto affermare, come
fa Ausonio Popma, che qui dalaliui (ludebant) pili crepi
(1) A <|uesta versione s’accosta il Panvinio (loc. cit., col. 335
0 s egg.) traducendo exptdsfm con di rimando. Meno bene il Tuu-
kigio che illustrando l’epigrufe d’ l'rsus Totjatus (Graevius XII,
col. 396 e seggd spiega expulsim quando la palla x' aspettava dal
tetto.
(2) Factiones, vocabolo innocente dunque, e nato da padre
piacente; corrottosi però inseguito e piegatosi a esprimere uno
dei mali peggiori dell’umanità.
(3) .Mi sono indotto a cosi interpretare il datatim, l'expulsim
e il raptim liniere, e a riferire questi termini a quelle forme di
giuoco, considerando anche le maniere moderne di giocare con
la palla. Perché, sian sopravissuti ai secoli per non interrotta
tradizione o siansi riprodotti per tarda imitazione o comunque
siansi rinnovellati, è certo che Varpaxto è il giuoco del calcio,
dove avviene, per rapir la palla, quella lotta a cui s’attaglia il
raptim ludere; e che il follicolo assai s'assomiglia al giuoco col
hracciale e la pat/anica alla piccola palla di cuoio, ancora in uso
in qualche villaggio subalpino. Nei quali due ultimi giuochi v’è
chi manda la palla e chi la ricaccia, cioè il dator e il factor,
che rispettivamente datatim ed expulsim ludunt. Non è da tra-
scurarsi però la spiegazione che il Quadrio dà delle tre frasi in
questione. Secondo lui (op. cit., pag. 78 e segg.), raptim ludere
vocantur a Latinis (1) per la ragione cbe, se stiamo al
significato generale ed etimologico della parola pilicrepus
significa un giocatore, che, a qualsiasi forma giocando,
colpisca datatim o expulsim la palla, sicché il colpo ri-
suoni secco e vibrato; ma se vogliamo interpretar quel
vocabolo in senso antonomasiastico e considerarne i signi-
ficali speciali nei vari passi latini in cui è a noi perve-
nuto, lo dovremo riferire specialmente ai giocator di
trigone. Due volte troviamo usato pilicrepus nella ci-
tata inscrizione di Ursus Togatus
ovantes convenite pilicrepi
e sotto
Ursumque canile voce concordi
Senem Harem , Focosum , Pilicrepum,.SWm/n.s7 icum (2).
Ricorre lo stesso vocabolo in un'inscrizione ripor-
tata dal Dosino : iMicrepi fucile , li. e., qui pila, hic
luditis, magno pilarurn strepita , plaudite (3).
era mandar la palla e rimandarla quando già aveva toccato il
suolo, cioè lasciandole fare il salto e Lucano (« Incerti auctoris
ari Calpurnium Pisonem Poemation Lucano vulgo adscriptum,
v. 174, Lipsiao, ex orticàia Datili Tauchnitii, 1834. — Ho corretto,
come si può vedere, la citazione del Quadrio — ) avrebbe chiamato
questa maniera Piloni cadentem renooare, oggidì giocare ai bal-
betto. Datatim Indere (pag. 8(1) avveniva quando, fingendo di darla
a uno, a un altro si dava, come da Knnio presso Isidoro (I, 25)
guani in choro pila
Ludens, datatila dot ne et communem facit,
A tinnì tenet, ahi mutai, olii manun
est occupata.
Expulsim liniere era «piando, gittata la palla in alto, si sfor-
zavano i giocatori, perchè altri non la buscasse, di tenerla con
colpi in aria, replicandoli più che potevano (pag. 81), da che con
simile forinola questa guisa di fare ulla palla espresse Lucano:
Piloni geminare volanteni. ( Ad Pisonem, Poemation, v. 174).
(1) Ausonii Po e. mai- Fkigii, De di (ferenti in rerborum a cura
di T. Vai. lauri, Torino, Tipografia Salesiana, 1875, pag. 346.
(2) Graevius, XII, col. 396 e segg.
(3) Dinsertationen Isagogicae, pag. 66, A.
— 36 -
E finalmente Seneca, per dimostrare che il saggio,
anche tra i rumori più assordanti, si sa concentrare
e può quindi meditare e studiare, reca l’esempio di sè
che, abitando a Baia sopra il bagno e pervenendogli
d'ogni parte ogni sorta di fracassi, tuttavia non se ne
sentiva disturbato. E tra i romori più insopportabili an-
novera quello fatto dai pili crepi. Si vero pilicrepus su-
pervenerit et numerare coeperit. pilas , actum est { 1).
Ora, Ursus Togatus, il quale si vanta d’essere stato
vitrea qui primus pila Lusit decente)' cani suis taso-
ribus, cioò il primo, come vorrebbero i più, a usar nel
giuoco la palla di vetro che, cadendo, si poteva rompere,
in quale altro giuoco l'avrebb'egli introdotta, se non nel
trigone, in cui l’abilità somma consisteva appunto nel non
lasciar cader mai la palla? Egli giocava inoltre Thermis
Traianis, Thermis Agrippae et Ti/i Multum et Nero-
ri is precisamente come il pilicrepus di Seneca nei bagni
di Baia; e l’iscrizione del Rosine, in cui pilicrepi sono
invitati ad applaudire magno strepita pilarurn, fu ritro-
vata appunto nelle Terme di Pompeo: le quali circostanze
concordano tutte perfettamente con i ragguagli che Mar-
ziale ci dà del trigone, cioè con il trigone nudo (2) e
e con Yunctae coronar e col consiglio di fuggir Mono-
gene, giocator di trigone, in thermis et circa balnea (3).
Di più nel trigone la palla dura e piccola ( minus arda
pila cioè del trigone era la stessa paganica) (4), col-
ti) Epistula LXVI, in principio.
(2) VII, 72.
(3) XII, 82. E poiché pila — trigone, si ricordi anche l’epi-
gramma di Marziale (XIV, 163):
« Redde pilam; sonat aes thermarum ludere pergis?
Virgine vis sola Ictus abire domum ».
E a chi volesse opporre che Menogene giuoca nelle terme
anche al Colle, si potrebbe osservare che il folle, cosi grosso e
gonfio, non poteva mai dare quel suono secco che il senso stesso
di pilicrepus rivela.
(4) XIV, 45.
- 37 -
pila, dava un suono secco, come di mani insieme battute,
il quale suono giustifica 1'espressione dell’inscrizione
plaudite magno strepitìi pilarum e risponde alla stessa
ragione etimologica di pilicrepus. Mi par quindi logico
conchiudere che pilicrepi fosser detti più specialmente
i giocator di trilione; conclusione questa tanto più ragio-
nevole, se si pensa che, per la vicinanza dei giocatori
di triijone e per il loro numero che era di tre, i colpi
dovevano essere molto rapidi e vibrati, e per conse-
guenza le voci che li accompagnavano per enumerarli (1)
forti e continue e dai colpi stessi quasi ritmicamente
regolate; donde il frastuono che Seneca lamenta con
l’espressivo auctum est.
I colpi, così diligentemente contati per assegnare
con equità la vittoria al vincitore, ci dimostrano che le
pari ite con la palla non si facevano neppure allora
pei solo scopo di esercitare le forze del corpo; ma esse
erano, come ai tempi nostri, interessate con scommesse
di danari, come già dicemmo a proposito di Cesare
elio vinse a Cecilie cinquanta talenti; oppure, nei giuo-
chi dei fanciulli specialmente, con ammende a cui il
vinto si doveva sottoporre, come già vedemmo avvenire
tra i Greci. Una strana penitenza in uso presso la gio-
ventù romana, ce 1 apprende Plutarco (2), per spiegar
l’origine del cognome Stira, frequente nella famiglia dei
Lentuli, come afferma anche Plinio (3). Cornelio Lentulo,
che lu poi fautore di Caldina e capo dei congiurati ri-
masti in città, era stato questore sotto Siila e aveva com-
messe ogni sorta di estorsioni. Richiesto di dar conto in
Senato della sua amministrazione, si rifiutò sdegnato e
(1) Seneca (loc. cit. ) : « et pila s numerare coeperit ». E si ri-
cordi anche che Menogene riceverà il trigone colla destra,
Imputet acceptas ut tibi saepe pilas.
(2) Plutarco, Cicerone, XVII.
(3) Plinio, Xat. Itisi., VII, 10, 5.
— 38 -
indifferente: anzi quasi per dileggio aggiunse che era
pronto a porgere il polpaccio come solevano t ragazzi,
quando nel giuoco della palla sbagliavano. Sul polpaccio
infatti il vinto era colpito dal vincitore, come attesta il
grammatico citato dal Panvinio (1). Il qual Panv.mo pure
afferma che questa pena era d'uso in quel giuoco che .1
Quadrio, come dicemmo, chiama expulsim ha ne, <
sistente nel colpir la palla replicatamene senza lasciarla
cadere. Ma nulla di certo si può sapere in proposito.
(1) Panvinio, loc. cit., col. 335 e segg.
CAPITOLO IH.
1 uoahi dove fi'i antichi giocavano alla palla e personaggi storici
Sentori di palla. -Il giuoco nella letteratura: le immagini
Seneca. Plutarco, Clemente Alebsandwno) . letteratura
di costumi (Petronio Arbitro, Plinio, Orazio, Ovidio),
il poemetto Ciri s attribuito a Virgilio.
L’essersi il giuoco della palla diviso e suddiviso in
tante varietà per adattarsi a ogni specie di persone, è
.ria un fatto che dimostra per se stesso la sua grande
frequenza presso i popoli classici. Ma prove concrete e
storiche della sua grande diffusione sono ancora g i
odifizi costruiti appositamente per esso e le notizie non
rare che gli scrittori antichi ci hanno lasciato dt quelli
che se ne dilettavano.
Nausicaa, come vedemmo, giuoca in sulle rive de
mare in una lizza improvvisata ; e cosi si faceva ai suoi
tempi e cosi si fece per molti anni ancora e cosi con-
tinuarono a fare quanti, non potendo accedere ai pubblici
ninnasi, si cercavano il loro sito nelle vie, nelle piazze,
noi campi, un po’ dappertutto, come appunto avveniva
in Roma, secondo che c’informano i citati Plauto, Varrone
e Novio.
Ma, riconosciuto il giuoco come uno degli esercizi
più utili alla educazione fìsica della gioventù e divenuto,
per conseguenza, caro a le classi più elevate, comm-
— 40 —
ciarono i Greci a costruire nei loro ginnasi gli sferisteri.
Nei quali, per vero dire, si facevano anche altri esercizi;
ma il giuoco della palla era il più frequente: v’erano
quindi più assidui i giocatori di palla, i giovani cioè e
i fanciulli, sebbene gli uomini maturi e i vecchi non
Sdegnassero di entrare spesso nei crocchi della gio-
ventù, sia per esercitarsi sia per conversare con essa (1).
E come in Grecia, cosi in Roma i nobili e i ricchi
solevano giocare al campo Marzio o più spesso nelle
pubbliche terme, poiché dopo il giuoco prendevano quoti-
dianamente il bagno, almeno dopo l’età di Pompeo (2).
Anzi i più ricchi si facevano costruire sferisteri privati
nei loro palazzi di città e nelle loro ville di campagna;
Plinio, infatti, nelle bellissime descrizioni delle sue ville
di Laurento (3) e di Tusco (4), tra le tante altre comodità
che enumera, sempre ricorda lo sferisterio.
A provare inoltre l’immensa diffusione del giuoco nei
tempi antichi stanno i numerosi cenni, che ci son per-
coliti, di persone che si dilettavano di questo ameno
e utile esercizio e gli aneddoti piacevoli e curiosi intorno
a giocatori per altre ragioni famosi.
Ateneo ricorda come appassionati di esso Demotele,
fratello del sofista Teognide di Chio, un tal Cherefane,
e piu famoso di questi Aristonico Caristio, cortigiano
di Alessandro Magno, il cui ufficio era di giocare alla
Palla dinanzi al re. Venuto costui in Atene, destò tanto
entusiasmo per la sua valentia, che gli fu donata la
(1) Platone, Eutidemo, II, in principio. - Senofonte, Me-
morabili, I, I, 10.
(2) Mercuriale, loc. cit., lib. I. cap. X, col. 489, A.
(3) Punii Secundi, Epistularum, II, 17", 1 2 : « Nee procul spac-
ci steri um quod candissimo soli, inclinato iam die, occurril ».
(4) Idem, V, 6 a , 27 : « Apodyterio superpositum est sphaeri-
slerium, quod plora 1 /enera esercitationis plureresque circu/os
capii ».
— 41 -
cittadinanza e perdi più eretta una statua (1). Alessandro
stesso poi si dilettava a giocar cou Aristonico (2) e non
con esso solo. Narra infatti Plutarco che una volta, avendo
Alessandro largamente donato alcuni suoi cortigiani, a
Serapione che si lamentava di nulla avere avuto, rispose
ch'egli nulla aveva dato perchè di nulla era stato richiesto.
Tacque Serapione per quel giorno; ma ritrovatosi un
altro giorno con Alessandro a una partita di palla, ad
altri questa getto, omettendo il re. E poiché questi,
meravigliato, gli domandò perchè a lui non l’avesse
gettata: Perché noti l’hai chiesta, rispose. Rise Ales-
sandro e di molt’oro l’ebbe donato (3).
Dionigi, tiranno di Siracusa, amava questo diverti-
mento e assiduamente vi si esercitava per riacquistar
le forze perdute (4). Ma in verità era assai pericoloso
giocar con lui. Poiché, giocando egli alla palla (studiose
enirn id factitabat ) diede tunica (5) e spada a custodire
a un giovanetto a lui carissimo. Ma avendogli un fa-
miliare detto: 0 Dionigi, tu a //idi a lui, la tua vita e
avendo il ragazzo sorriso, entrambi il tiranno mandò a
morte: l’uno per aver mostrato il modo di ucciderlo, l’altro
per aver, sorridendo, approvato (0).
(1) Ateneo, lib. I, cap. XIV, pag. 19. Ma già erano comin-
ciati quei tempi nei quali gli Ateniesi si mostrarono cosi prodighi
di statue. (Clr. Cornelio, Milziade VI, in fondo). Del resto, forse
la statua a Caristio era una nuova forma di adulazione ad Ales-
sandro, padrone ormai della Grecia.
(2) Suida, loc. cit., v. Ili, pag. 415.
(3) Plutarco, Vita d' Alessandro, XXXIX, 3.
(4) Alexander ah Alessandro, lib. 03, cap. VI, in Magnimi
Theatrum citae humanae di L. Beyerling, Lione, 1678. Tonio IV,
pag. 1074, A.
(o) ( he losser soliti gli antichi a depor la tunica per giocare,
come noi ora la giubba, ce lo attesta anche Ateneo, dove dice
che molti familiari di Antigono per giocar col filosofo Ctesibio si
spogliavano della veste. (Ateneo, I, 12).
(6) Cicerone, Discutane , 5, 81. A questo proposito scrive il
De-Amicis (Gli Azzurri e i Dossi, Torino, Casanova 1897, pag. 42) :
— 42 —
Già accennammo che si dilettavano della palla Giulio
Cesare (I), Ottaviano Augusto (2), Mecenate con i suoi
compagni del viaggio di Brindisi descritto da Orazio:
Eliodoro, Plozio e Vario, non («schisi lo stesso Orazio e
Virgilio, i quali, se quella volta non giocarono e forse
a quel tempo non giocavano più, tutto il contesto lascia
credere che prima vi giocassero (3). Vespasiano usava
spesso nello sferisterio, per conservarsi florida la salute (4);
Alessandro Severo, dopo Io studio, dava opera ora alla
palestra ora allo sferisterio (5); e Marco Antonino, l’im-
peratoro buono, era al giuoco della palla valènte tra i
primi, come ci attesta Capitolino (6).
E come questi re e capitani si distraevano colla palla
dalle cure dello Stato e della guerra, così con essa poeti,
... « non tutti pini simpatici, perché, giù, un amatore del pallone
non può arer l'animo fosco, la semplicità dei gusti è indisio
d'animo buono, dimmi come ti diverti e ti dirò chi sei. (Nè ci
si rinfacci Ferdinando IV di Napoli, malvagio, come narra il
Colletta , anche co! bracciale alla mano : che fu un’ eccezione mo-
struosa) ». E infatti, per quanto il I)e-Amicis voglia velare il suo
concetto con alquanta linissima ironia, ha però ragione almeno
in questo che il giuoco, datore di forza, è anche datore di bontà.
Però cori quel tristo Borbone, che, visto tra il giuoco giovine
macro e stentato, bianco il capo di polvere, con reste lucida
e nera di abate, lo fa saltar sulla coperta sconciamente tra le
risa di plcbaccia e di sé, tanto che al povero giovane si gran ver-
gogna ne nasce che mtior dopo alcuni mesi di melanconia (Col-
letta, Storia de! Regno di Napoli, Torino, Bomba, 1852, Tomo I,
pag. 96), può far benissimo il paio codesto Dionigi, già cosi noto
per altre sue virtù.
(1) Rohjanthea citati, sotto Ludus, Apoftegmata, col. 1621.
(2) Svetonio, Octavius, 83.
(3) Orazio, Sat., 1, 5 n vv. 48-49.
(4) Svetonio, Vespasiano, 20.
(5) Lampridio, citato da Mercuriale, loc. cit., cap. Vili,
pag. 480.
(6) Iulii Capitolini, Vitae, Basileae in officina Froebeniana,
MDXXXIII, pag. 189.
43 —
filosofi, oratori, giureconsulti si sollevavano dalle fatiche
degli studi.
Ateneo ricorda ancora come assidui alla palla Archita
Tarentino, seguace di Pitagora e cittadino adivo e pratico
della pubblica cosa (1), e il filosofo Ctesibio della Calcide,
che usava giocare coi familiari del re Antigono (2); e
un Glicone o bicone, filosofo della Troade, come appas-
sionato degli esercizi della palestra e dello sferisterio (3)
è ricordato da Diogeni» Laerzio. E come già abbiam
detto di Ateneo, così anche Sidonio Apollinare ci lasciò
scritto di sè d’essere assai amante della palla (4). Muzio
Scevola, giureconsulto famoso, oratore lodato da Cice-
rone (5) e uno degli interlocutori del dialogo De Oratore
tra un’occupazione del foro e una disputa filosofica cui
migliori uomini del tempo, si ricreava giocando (6); cosi
pure Cecilio Epirota, il quale teneva aperta in Roma una
scuola di Retorica e pel primo cominciò a legger pub-
blicamente Virgilio e altri poeti nuovi, dopo le fatiche
dello studio e dell’insegnamento, era solito giocare alla
palla con l'Imperatore per sollevar lo spirito stanco.
E se la storia registra i nomi di tanti personaggi
famosi, i quali trovavano nel giuoco della palla un gra-
devole passatempo, si ha maggior ragione di credere
che molto più si dilettasse il popolo d'un esercizio, che
non richiedeva nè grande apparato nè grandi spese, come
osserva lo stesso Galeno (7) e che quindi era alla portata
di tutti.
(1) Ateneo, 1, 12.
(2) Ateneo, 1, 12.
(3) Diogene Laerzio, Delle vite , opinioni, sentenze elei filosofi
celebri, libro X. Lipsia, Kraus 1859; lib. V, Vita di Licone o
Glicone.
(4) Apollinare, Epistola II.
(5) De offlais, II, 43. - Ad Attico, XII, 4. - De Natura Deorum,
III, 2.
t6) Cicerone, De Oratore, I, 50. - Valerio Massimo, Vili, 8.
(7) Galeni, Opera omnia, interprete Valerio Centannio
— 44 —
• •
Eppure un giuoco così comune c popolare, non ebbe
copiosa letteratura. Alle ragioni che di questa scarsezza
abbiamo altrove addotte, si può aggiungere anche quella
della grande quantità di opere greche che andarono per-
dute. Ateneo riporta frammenti di ben 1200 opere che il
tempo ci ha invidiato: e tra le* altre fa menzione d’una
tragedia di Sofocle, che, mettendo in scena Nausicaa,
trattava anche del giuoco della palla (1). Il medesimo
riproduce pure un frammento del lirico Demosseno, il
quale dimostra quanto conferisca quest’esercizio alla
grazia, eleganza e agilità del portamento e dei movi-
menti; e un altro del comico Antifane, che descrive una
specie di giuoco, probabilmente l’arpasto. Ora, questi
frammenti e il trattato dello Spartano Timocrate citati
da Ateneo in quei brevissimi cenni che ci ha lasciato
del giuoco della palla, lasciano supporre che questo
abbia avuto una letteratura assai più varia e copiosa,
e convalidano anche questa supposizione le non rare
immagini che scrittori antichi, vuoi greci vuoi latini,
attinsero da esso, come da fonte abbondante di non
spregevoli elementi per l’arte loro. Ed è questa una novella
P r ova della frequenza del giuoco presso i popoli classici.
Le immagini infatti, onde colorisce e rinforza il suo stile,
lo scrittore le deve prendere dal patrimonio delle idee
comuni e presenti nella mente del suo popolo, affinchè
t incentino. \ enetiis, apud V'. Valgrisium, 1562. Classis quarta,
parte li, pag. 47 e segg.
(1) Op. cit. pag. 16, lin. 19 e segg. E soggiunge che Sofocle,
rappresentandosi il dramma di Nausicaa, csphairise egli stesso
con grande agilità. La tragedia poi era intitolata Nausicaa è
Pluntriai ; ma di essa non ci rimangono che pochi versi. Cl'r.
Wklcker, Die grieehischen Tragòdien mit Rucksicht auC den
epischen Cyklus, 1, Abt. Bonn., 1839, pag. 227.
— 45 —
il nesso logico tra il suo concetto soggettivo e quello
universalmente noto, presentandosi pronto ed evidente
al pensiero del lettore, renda il traslato vivo ed efficace.
Ciò potemmo già vedere, p. e., nella similitudine che
citammo dal Teeteto di Platone e nella metafora colla
quale, come narra Plutarco, Lentulo Sura risponde al
Senato. Platone, per darci l'idea d’un autorità assoluta
in chi presiedesse e regolasse la discussione e d’un’ob-
bedienza remissiva negli altri interlocutori, sia la prima,
dice, come quella del re nel giuoco della palla e la
seconda, come quella dell’ asino. Perchè dunque nella
mente dei lettoli contemporanei si formasse subito il
concetto dell’una e dell’altra, quale Platone voleva che
avessero, conveniva che nel loro pensiero fosse ben viva
e familiare la visione dell'autorità esigente e assoluta
del re e quella dell'obbedienza pieghevole e passiva
dell’asino nei giuochi dei fanciulli: e per averla, dovevan
ben frequentemente avere osservato per le vie della città
e nei ginnasi quell’usanza infantile. E quando Lentulo
in Senato dà la sua petulante e sdegnosa risposta, ridu-
cendo il suo pubblico delitto alle proporzioni d’un tra-
stullo fanciullesco, noi ci possiamo figurare quale dolorosa
impressione dovette far nell’animo dei senatori il vedere
accoppiati in un’impertinente metafora i gravi affari della
repubblica e un gesto volgare solito a vedersi per i trivi i
nei giuochi scomposti della ragazzaglia. L’una e l’altra
immagine avrebbe avuta poca efficacia se il giuoco, in
quelle sue particolarità in cui s’era offerto a diventare im-
magine, non fosse stato bene e universalmente conosciuto.
Oltre la similitudine dell’asino e del re e la compa-
razione della sua terra ideale con la palla a vari colori,
Platone ha ancora nell Euh demo quest’altra similitudine:
Appena aveva parlato Eutidemo che Dionisodoro pren-
dendo la parola come si afferra la palla assaliva di
nuovo il giovanetto (1); la quale, come accenna alla pron-
ti) Platone, Eutidemo, VI, 288.
— 46 —
tòzza della risposta, fu tratta evidentemente da una forma
di giuoco in cui rapida e pronta doveva essere la ri fiat-
tuta e quindi probabilmente dall 'aporraxis.
Aristotele nomina più volte la palla. Nel Retorico (1),
asserisce che è sempre dilettevole il vincere; ma conviene
che i giuochi siano essi giocondi, vale dire vi si lotti
e si disputi la vittoria, come nel giuoco della galla e
in altri. Nello stesso dialogo paragona alla palla Paria
ripercossa che forma l’eco (2); e altrove osserva che
la palla è un dono magnifico per un fanciullo, ma punto
liberale (3).
Negli scrittori latini le immagini del giuoco della
palla sono abbastanza frequenti: e quasi direi che sono
applicate a cose maggiori e più svolte e grandiose che
non quelle greche; alcune poi sono bellissime, come
vedremo.
Ed eccone una di Cicerone riferita alla Repubblica;,
in essa i tiranni che rapiscono tra loro lo stato, son
paragonati ai giocatori che lottano intorno alla palla:
dove l’allusione aWarpasto è troppo evidente (4). Altrove,
per dimostrare che piace sempre imparare, afferma che
coloro che sanno far bene una cosa, ne traggono diletto
maggiore di quel che la natura di essa comporti, come
Tizio dalla palla e Brulla dai dadi (5). Questo Tizio,
che compare altre volte nei libri del grande oratore,
ci fornisce occasione di parlare d’una specie di traslati
che, più delle similitudini e delle metafore, richiedono
che l’idea oggettiva sia assai familiare al pensiero dei
lettori, perchè questi possano prontamente notare le
somiglianze e le dissomiglianze tra essa e l’idea sog-
gettiva dello scrittore e ne restino colpiti e dilettati.
(1) Aristotele, Retorico, I, XI, 14 e 15.
(2) De Anima, lib. II, Cap. Vili, n. -I.
(3) Etica a Nicomaco , IV, II, 18 e 19.
(4) Della Repubblica, I, 14.
(5) Cicerone, Orator, III, 23.
.
— 47 —
Sono questi i bisticci, le arguzie, le amfihologie, i motti
di spirito, che non raramente s’incontrano negli scrittori
latini. Cicerone nomina Tizio appunto a proposito di essi.
I detti ambigui, scrive, sono sopratutto arguti; ma non
spesso muovono gran riso e più si lodano. come graziosi
ed eleganti, come quello contro Tizio. Il quale era un
appassionato giocator di palla e aveva voce di rompere
spesso di notte, per una certa sua superstiziosa credenza,
le statue degli Dei. Ora non essendo un giorno venuto al
campo di Marte e domandando i compagni perchè man-
casse, lo scusò Vespa Terenzio dicendo eutn brachium
Ordisse; dove appunto è arguta l’ambiguità, potendosi
la frase interpretare perchè s’era volto un pr accio o
perdi? arem rollo un braccio (1).
E poiché siamo nei Tizii e nei motti, uno ne cita
Quintiliano. I n certo Tizio Massimo domandò stoltamente
a Carpazi©, mentre usciva dal teatro, se era stato attento.
E lece Carpazio più stupido il dubbio rispondendo: Mai
/liti, giocai alla palla nell’orchestrà (2).
Do stesso ci avverte che talvolta all’amflbologia va
unita la similitudine; come quando A. Oalba ad uno die
domandava con svogliatezza la palla : Così la domandi,
disse, come un candidato di Augusto. Dove, avverte
Quintilliano, Io spirito sta, non nell'ambiguità del pe/is,
ma nella somiglianza dell’indifferenza di quel giocatore
con l’indifferenza del candidato sicuro della propria ele-
zione, perchè raccomandato dal principe (3).
Ma ritornando alle similitudini, una bella ne ha Seneca,
la quale, per il modo ampio con cui è svolta, mi fece
(1) Cicerone, De Oratore, 11 , (53. Questo Tizio era uomo
acuto, ma cosi molle negli atti e nel portamento che da lui prese
nome un genere molle di danza (Cic. Brutus, 62). Il medesimo
lorse tu tribuno della plebe turbolento e gli si oppose Antonio
(Cic. Or., Il, 11).
(2) Quintiliano, Insti/. Orai., VI, 3, 71.
(3) Quintiliano, Instit. Orni., VI, 3, 62.
— 48 -
piti sopra dire le immagini latine avere in sè qualcosa
di quella grandiosità severa e maestosa cara allo spirito
romano, come la grazia elegante e precisa era cara al
greco. Scrive dunque Seneca: Volo Chrysippi nostri ufi
similitudine depilae Insù: quam cadere non est dubium,
ani mittentis ritio, aut accipientis. Tane cursum smini
serrai, ahi inter manus utriusque, apte ab utroque et
iactata et excepta rersafur: necesse est autem lusor
bonus, aliter Ulani collusori long o ; aliter brevi mittat.
Eadem benefica ratio est; itisi utrique persona e, dantis
et accipientis, aptah.tr, nec ab hoc exibi/, nec ad illuni
perveniet, ut débet. Si rum exercitato et dodo nego-
tinnì est, audacius • pilam mittemus; uteumque enim
renerit, manus illune expedi la et agilis re percalle! . Si
clini tirone et indocto, non /ani rigide, nec tam excusse,
sed tangiiidius, et in ipsam eius dirigentes manuni,
remisse occurremus. Idem faciendum est in beneficiis.
Quosdam doceamus, et satis iudiceniiis, si conantur,
si audent, si rotimi. Facirnus autem plerumque ingra-
tos, et ut sint, favemus ; tanquam ila demum magna
sint beneficia nostra, si gratin illis referri non poluit:
ut mutigli is lusoribus propositum est, collusorem tra-
ducere, cuni damno scilicet ipsius lusus , qui non po-
test, itisi consen tifar, extendi ( 1).
Seneca dice d’aver presa questa similitudine a im-
prestito da Crisippo, uno dei fondatori della scuola stoica,
a cui apparteneva; ma è mirabile l’arte che egli spiega
nell’intreeciare e connettere insieme i due termini di
essa e nello scegliere il linguaggio a doppio senso con-
veniente a entrambi. La similitudine è tratta dal tri-
gone, che, a differenza degli altri giuochi i quali con-
sentivano anche un avversario di minor forza senza che
vi fosse bisogno d’interromperli, richiedeva, pei- poter
essere continuato con una certa regolarità, che vi fosse
(1) Seneca, de Benetìciis, li, 17, 3-5.
— 49 —
in chi batteva la palla e in chi la ribatteva un’abilità presso-
ché uguale; donde scaturisce, già efficacemente espresso,
il pensiero dolio scrittore: che occorre, perchè il beneficio
sia cosa perfetta, che uno vi sia che voglia, sappia e
possa farlo e un altro che egualmente voglia, sappia e
possa renderlo ( tane f pila] cursum smini serra/, ubi in ter
man us litri usque, apte ab atroque et iactata et e. r copta,
rersatur){ 1). Ma poiché in questo passo il filosofo disserta
solo dei doveri del benefattore e non ancora di quelli
del beneficato, la conclusione è fatta da lui in questo
senso: cioè che è necessario che un buon giocatore,
battitore o ribattitore, assesti il colpo ben aggiustato,
più forte por mandar la palla a un avversario pii'r lon-
tano, più piano a un più vicino: il che vai quanto dire
che conviene che il benefattore adatti, proporzioni il be-
nefizio alle sue forze non meno che al carattere, alla
condizione, ai mezzi di colui nel quale intende collocarlo;
perchè del resto, quello non uscirà da lui e non perverrà
all’altro in modo conveniente (e si noti Yexibit o il per-
reniet che ben s’attagliano alla palla e al benefìzio) (1).
K ritorna in campo un’altra volta il giuoco della, palla
a dar maggior luce e svolgimento a questo concetto. Il
giocatore esperto, se ha da fare con un novellino inabile,
gli sta contro rimessamente e gli manda men serrata
la palla e glie la dirige verso la sua stessa mano. Cosi
il saggio benefattore, opera con arte discreta e prudente
e incita il beneficato a dimostrarsi grato, e già è con-
tento se lo tenta, se l’osa, se lo vuole (2). Chè altrimenti
c’è pericolo di far degli ingrati e li fanno coloro che
credono che grande sia il benefizio quando non può esser
contraccambiato; comportandosi come i maligni gioca-
tori, ai quali propositum est , eollusorem traducere , caia
da amo se ilice/, ipsitis lusus, qui non potesl, nisi con-
senti tur, extendi. Il qual punto mi par che sia stato
(1) Ih. 17, 3.
(2) Ib. 17, 4.
frainteso e dal Ruhkoff(l) nel suo commento a Seneca
e dal Porcellini (2) nel suo vocabolario, i quali interpre-
tano, il collusòrein traducere per esporlo alle beffe altrui;
e dal Varchi che traduce conte fanno i a incalorì ina-
liditi per ingannare il compagno, con danno d'esso
gioco, il quale non può durare, se l'uno e l'altro non
s'accorda (3).
lo credo invece che il traducere collusoretn significhi
allontanare l’avversario oltre il limite della sua abilita.
Poiché era il trigone un giuoco nel quale stava fissa
sempre la disposizione dei giocatori in triangolo, ma la
distanza di questi l'un dall’altro variava in ragione diretta
della loro abilità; facendosi il giuoco più lungo e quindi
più difficile dai più valenti e più vicino e facile dai meno.
E eom’è quindi guastare il giuoco l’allontanare cosi
l'avversario ch’ei non sappia più ribattere e dirigere
la palla, rendendolo quindi ancor più inetto, cosi è
falsare la natura stessa del benefizio, stimandolo solo
quando è impossibile contraccambiarlo, creando per con-
seguenza degli ingrati. Questa interpretazione mi pai-
accettabile, oltrecchè per l’esatta corrispondenza dei due
termini della similitudine, anche perchè s’accorda con il
(1) Commento all’edizione l’omba, Torino 1828, pag. 851 :
« Traducere, nem/te per ora hominum ijnodam modo tradncere,
/i. e. superbientiurn ludibrio esponere, paradeigmatfoein ».
(2) Sotto Traducere $ 6: « Tradueere collusoretn didlttr a
Senec. 2, Pene!. IT a tned. malignus lusor, qui cimi fallii, et
ludibrio exponit, ita mi Pendo piloni, ut non possi I reale excipere,
et remitterc ».
(3) L. Annuo Sknkca, Dei benefui, tradotto di lingua latina
in volgar fiorentino da Benedetto Varchi, Brescia. Tipografia
Foresti e Cristiani, MDCCCXXII, v. I, pag. 12S.
L’interpretazione data dal Kuhkoks e dal Forcki.uni fu
probabilmente suggerita dai versi d’Orazio, De arte Poetica,
vv. 379-381 :
l.udere qui nescit, campestribus abstinet armis,
Indoctusque pilae (liscive trochive quiescit
Xe spissae risum tollant impune coronae.
giudizio che Seneca dà del giuoco qui non potest, nisi
consentititi', extend i.
In questo passo, come già ho accennato, Seneca ap-
plica la similitudine solo ai doveri del benefettore; più
sotto la riprende per applicarla a quello che ha ricevuto
il benefizio. Qui accepit, inquit, beneficium, licei animo
ben ign issimo accepei -il, non comuni mari t offici um suum ;
resta/ enini pars reddendi; sicut in Insù est aliquid
pilarn scile ac diligenler excipere, sed non dicitur bonus
lusor, nisi qui apte et expedi te remisi f, quam exceperat.
È dovere insomma del beneficato, non solo esser grato
del benefizio, ma contraccambiarlo: come è del giocatore
non solo ricevere la palla, ma ribatterla. A questo punto
l’autore si propone un’obbiezione: La similitudine del
beneficato col giocatore non calza a puntino: perché?
Perché si dà lode al giocatore per atti materiali e
visibili che si giudicano cogli occhi e ch’egli quindi ha
tutto l’interesse di mettere in evidenza; nel beneficato
si giudica l’animo, che non si rivela, se non nel rendere
il benefizio. Tuttavia anche in questo caso c’è una so-
miglianza tra giocatore e beneficato: come infatti quello
va ancora giudicato valente, se. ricevuta come si con-
viene la palla, ritarda a rimandarla per una ragione non
dipendente dalla sua volontà (nec /amen ideo non bonum
lnsoreni dicam, qui piloni, ut oportebat, excepit, si per
ipsnm mora, quo niinus remitteret, non fui/), cosi pure
non è da biasimare chi non per colpa sua non ha ancor
restituito il benefizio. E all’obbiezione chi 1 , sebbene nulla
manchi all’arte del giocatore, perchè una parte l’ha
già egli compiuta e l’altra ancor la può compiere, tut-
tavia il giuoco è imperfetto perchè finisce in due colpi
soli (e s’intende naturalmente che imperfetto è il bene-
fizi 0 si sospenda a metà, ritardando a restituirlo);
risponde lo scrittore: existimemus ita esse: desi/ aliquid
lusui, non t asari; sic et in ime de quo disputa mas,
deest aliquid rei da/ae (cioè al contenuto del benefizio)
cui pars attera débetur (il contraccambio), non animo
qui animimi parem sibi nactus est : quantum in ilio
est, quod voluit, e/fecit. Dove la similitudine con sot-
tilissima variazione è trasportata tra il giuoco e il gio-
catore da una parte e il contraccambio e il benefizio
dall’altra, cioè il contraccambio mancato è il giuoco
imperfetto c l’animo grato è il giocatore che falli non
per colpa sua. Come si vede dunque dal giuoco della
palla son qui tratte immagini a colorire le più ardue o
astruse disquisizioni filosofiche.
Cosi nobilitata e per l’altezza dei concetti e per la
bellezza della forma la similitudine di Seneca ebbe una
certa fortuna. La doveva conoscere Plutarco, quando
una consimile ne mise in bocca al pitagoreo Teanore
nel dialogo Del genio di Socrate : Poiché se è bello
beneficar gli amici, non è vergognoso ricever benefici
dagli amici: un favore infatti ha bisogno di chi lo fa
non meno che di chi l'accetta; solo da entrambi esso è
condotto a perfezione di bellezza; ma colui che non
l’accetta, fa come chi sciupa una bella palla, lascian-
dola cadere invano (1).
E Clemente Alessandrino usa su per giù della stessa
similitudine in un altro ordine d'idee, per indicare cioè
la corrispondenza che v’è tra scienza e fede, una comple-
tando l’altra. Come il giuoco della palla non solo dipen-
de da colui che questa manda con arte, ma richiede un
altroché la riceva secondo la regola, affinchè il giuoco
proceda secondo le sue norme, così hi dottrina allora
si giudica esser degna della fede, quando la fededi coloro
che rodono conferisce all' apprendimento di quella (2).
•
« *
La letteratura latina, essendoci pervenuta assai meno
mutilata della greca, ci ha conservate, oltre a un numero
(1) Plutarco, De Genio Socratia, XIII.
(2) Clemente Alessandrino, Stromatum, lib. II nelle Opere
stampate a Venezia da A. /atta, 1757, pag. 442.
— 53 —
maggiore di immagini ricavate dal giuoco della palla,
anche descrizioni di abitudini e racconti di fatti della
loi o \ ita stessa o di Quella dei loro personaggi, impor-
tanti per la conoscenza dei costumi d’allora. E primo ci
si presenta il vecchio Trimalcione, famoso per la sua
famosissima cena. Lo troviamo appunto prima di Questa,
e per prepararsi a essa, intento a giocare alla pila spar-
si ra. Ma è pregio dell’opera riferire il passo intero:
Sos (una comitiva di giovani scapestrati) interini ve-
stiti errare coepimus, imo iocari tnitgis et circulis
/ intentimi accedere, cimi subito videmus senem culmini,
tunica vestitimi rassea, inter pueros capillalos (1) la-
denteai pila, Nec timi pueri nos, quamquam era/ operile
praetium, ad speetandum duxerant, quarti soleatus ille
pater familiae, qui pila sparsiva exercebatur ; nec eani
aniplius repetebat, quae terram conligerat, sed follem
plenum habebal serous sufflciebatque ludentibus. Nota-
> irnus etiam res novas, nam duo spadones in diversa
piu le circuii stabant, quorum alter matellam tenebut
argenteam, alter numerabat pilas: non quidem eas
qiias inter rnanus ludo expellente vibrabant, sed eas
quae in terram decidebant. Cimi has miraremur lauti-
has, accurrit Menelaus, et: Hic, inquit, apud quern
cab itimi ponetis; et quid ì iam principiarvi coenae vi-
detis? Etiam mine loquebatur cimi Trimalchio, lautis-
stmus homo, digitos concrepuil; ad quod signum ma-
tellarn sparlo Indenti supposuit. Exonerata ille vescica,
aquarn poposcit ad rnanus digit osque paulluluiu aspersos
in capile pueri tersit (2).
Questo passo di Petronio non solo è prezioso per le
molte in forni azioni che ci dà, ma è anche curioso per
il modo con cui ce le dà. 11 carattere strano e originale
(1) Il vecchio vizioso ! « Nullus coniatus qui non idem cinae-
dus», ammonisce S. Ambrogio. E Orazio: « leretis pueri longoni
renitente comuni », Epodo XI, pag. 28.
(2) Petronii Arbitri, Salyricon, Londini MDCCVII, p. 27 e seg.
— 54 —
del vecchio Trimalcione emerge dal contrasto della sua
figura con quella degli altri presenti; e più dalle con-
traddizioni di tutti i suoi atti con le usanze comunemente
e universalmente praticate nelle terme. Anzitutto giunca
egli, padre di famiglia vecchio e calvo, con fanciulli zazze-
ruti; e anche se si pensa che eran rilassati quei severi
costumi antichi i quali vietavano che i fanciulli si mesco-
lassero con uomini adulti, ci colpisce tuttavia la strana
o ridicola figura di questo vecchio saltellante e agitan-
tesi tra fanciulli, messo così bene in luce dalla sapiente
antitesi degli epiteti. Giuoca egli inoltre dopo il bagno, o
almeno si comporta come se fosse dopo il bagno, mentre
si soleva giocare prima di questo; è infatti vestito di
una rossa veste, mentre si soleva giocar nudi, per esser
pronti a tuffarsi al suono del campanello che annunziava
l’ora del bagno (1); ed è solcai us mentre i sandali sol si
calzavano, quando s’era presti a uscir dalle terme (2).
È difficile stabilire a quale delle forme di giuoco men-
zionate corrisponda la pila sparsiva (1); Mercuriale (1)
opinava che sia la paganica, che si batteva e ribatteva
da giocatori lontani; e mi pare che si possa esser non
alieni dall’accettar l’opinione, autorevole sempre, di
Mercuriale. Il battere e il ribattere la palla fa ricordare
l'expulsim ludere di cui abbiamo discorso e più ce lo
(1) Marziale, XIV, 163. In quest’epigramma, che già abbialo
trascritto, la Form arjita virgo è contrapposta alle terme, perchè
il bagno delle terme era caldo, la Fons ar/ua virgo era invece
gelidissima, come da Marziale stesso VI, 42, 18 (cruda cirgine),
XI, 47, 6 (gelida virgine), e da Ovidio, Ars Amatoria, III, v. 385 (ge-
lidissima virgo). Però da questo passo di Ovidio, e da Tastino, III,
12, v. 22, risulterebbe i giovani romani si solevano pure bagnare
neU'acrjua vergine. Quindi l’antitesi nell’epigramma di Marziale
non è assoluta, se non si vuol pensare a un infiacchimento di
costumi.
(2) L’importuno di Marziale, raccoglierà e riporterà il folle
sgonfiato « etsi iam lotus, iam. soleatus crit » cioè già in procinto
d’andarsene.
la ricordare expellente ludo, che troviamo più sotto
ripetuto. K la paganica era senza dubbio un giuoco
difficile, fatto dalla gente lesta e robusta; e poiché in
lui tutto è contraddizione, ecco giocarvi il vecchio inatto
di Trimalcione. Le palle poi, che andavan per le terre,
più non si raccoglievano e si sostituivano con altre che
uno schiavo teneva in un sacco; ma par di leggere tra
le righe che tutti gli altri solevano riprender la palla
caduta per continuare il giuoco. Uno schiavo eunuco
conta i punti; però non i colpi ben dati, ma quelli sba-
gliali e noi impariamo dunque che usavano contare quelli
non questi e che Labilità consisteva» appunto nel non
lasciar cader la palla in terra (come, p. es., nel nostro
giuoco del pallone toscano). Finalmente quel vecchio
singolare domanda l’acqua e bagnatavi appena la punta
delle dita, se le terge nei capelli d’un fanciullo,... allora
appunto quando gli altri solevano correre a tuffarsi nel
bagno e, dopo essersi bene lavati, asciugarsi nelle ampie
lenzuola.
Cosi si viene delineando, attraverso alle singolarità e
alle contraddizioni, la figura del principale e più curioso
personaggio di quel Satiricon, nel quale noi vediamo
rappresentata la società dei tempi dell’Impero, corrotta,
decrepita e avviata spensieratamente alla catastrofe ine-
vitabile. Non mancano neppure in questo tempo spiriti
grandi e severi, compresi dell’antica grandezza, dolenti
della presente decadenza, i quali rinnovavano le virtù
repubblicane, foggiandosi sugli esempi antichi una vita
saggia e felice. Ma questi erano cittadini solitari e per-
seguitati nell’universale corruttela ; la presenza dei quali
spiega come accanto all’osceno Satiricon di Petronio
potessero nascere le opere gravi di Seneca e Plinio e
come, letterariamente parlando, la figura grottesca e li-
cenziosa di Trimalcione sia potuta esser contemporanea
a quella di Spurinna, quale ci appare severa e veneranda
nella lettera di Plinio Cecilio il minore. Nescio an ullum
iitcundius tempus exegerim guani quo nuper apiul
- 56 -
Spurinnam fui: (ideo quidem vi neminem... magisin
senectute denudare velini ; nihi! est enim ilio ri/ a e
genere distinctius. E la descrive. Tra le varie occupazioni,
una più geniale dell’altra, alcune c’interessano assai da
vicino: fin bora balnei nunciata est (est aulem hieme
nona, destale octavaj in sole, si care/ vento, nudus am-
bulai. Deinde mondar pila- vehementer et dia. Nani hoc
quoque pugna I cani senectute Lotus deruba/ et pani-
lisper cibar» differì... Apponi tur coena non mintts nitida
quam frugi in argento puro et antiquo... (1). Ecco un
quadro vivo e ammirando dei buoni costumi antichi.
Che differenza da Trimalcione, che con tante stranezze si
prepara alla sua cena, proverbiale per smoderatezza e
sontuosa profusione !
L’esempio di Spurinna ci ricorda Orazio, il quale,
contento di poco, scevro d’ogni ambizione, franco d’ogni
velleità gentilizia, s'era saputo comporre una vita saggia,
libera e lieta, divisa tra gli esercizi del corpo e gli
studi della mente. Che importa a me d’esser nato di
padre povero e plebeo? esclama. Non ho le noie dei
ricchi, e di più son libero padrone di ino. Vado a pas-
seggio dove voglio; mangio quando voglio; vo a dormire
senza premura e al mattino me ne sto a letto fino alla
quarta ora del giorno; dopo questo passeggio o leggo
o scrivo qualche cosa; poi vado ad esercitarmi, poi...
ubi me fessura so/ acrior ire lavatura Admonuit fugio
carnpurn lusumque frigonem (2). Ma quest'ultimo verso
non è da tutti letto a questo modo: molti vorrebbero
al fugio carnpum lusumque trigone ni sostituire fugio
rabiosi tempora signi. Anche omettendo le conclusioni
della critica oraziana ormai favorevoli alla prima ver-
sione (3) e giudicando solo dal lato dell'arte, non vi può
(1) Punii Secundi, Ep., III. 1.
(2) Orazio, Satire, I, (I, vv. 125-126.
(3) Per una notizia sommaria, Cfr. i Prolegomeni che Luciano
- 57 —
esser dubbio intorno alla scelta: accettando il rabiosi
tempora signi tutto il concetto viene a mancare di quella
precisionedi contorni, di quella finitezza di tocchi, di quella
stringatezza d’eloquio, che sono pregi cospicui della musa
d'Orazio. A che scopo infatti il poeta s’unge d’olio? (1).
Ed è stanco di che? (2) (onde la stiracchiatura fes-
simi = spossato per il caldo di alcune traduzioni). E
quando l’ora meridiana l’ammonisce di ire taratura, dove
fugge rabiosi tempora sigili? Nel bagno, come inter-
pretano i fautori di questa versione? Ah sì? passerà nel
bagno tutte le ore della canicola?
Invece, col campimi lusumque tvigonem, ogni cosa è
a suo posto; s’unge d'olio il poeta per Fesercitazioni al
campo di Marte; è stanco per averle latte; all’ora op-
portuna va nel bagno, come tutti solevano; poi abbandona
campo ed esercizi.
Ma quest’abitudine d’Orazio di giocare così spesso
al trigone parrebbe contraddetta da un’altra informazione
che abbiamo d’un fatto della vita di lui. Tutti conoscono
la deliziosa descrizione ch'egli fa del suo viaggio da
Roma a Brindisi in compagnia di Mecenate, di Virgilio,
di Eliodoro e d’altri amici (3). La comitiva si completa
per viaggio. Partono da Roma Orazio ed Eliodoro, Rhe-
tor Graecorum longe dortissìmus (4). A Terracina sono
raggiunti da Mecenate e Cocceio, olissi magnis de re-
bus uterque legati (5) e da Fonteio, ad ungiiem Faetus
homo (fi). A Sinuessa s’incontrano con Virgilio, Plozio e
Vario: anìrnae quales ncque candidiores Terra tuli/
Moller manda innanzi alla edizione Teubneriana di Orazio,
(Lipsia 1889) pag. VI-IX e più specialmente LIV-LV.
(1) Satira citata, v. 123.
(2) Ib. v. 125.
(3) Satirarum, I, 5.
(4) Ib. vv. 2 e 3.
(5) Ib. vv. 28 e 29.
(6) Ib. vv. 32 e 33.
— 58 -
neqae queis me sii devinctior alter (ì). Così la brigata,
al completo, arriva a Capua dove
Lusuin it Maecenas, dormitimi ego Virgiliusque
Xanque pila lippis inimicum et ludere crudis (2).
Infatti, sebbene Orazio al tempo di questo viaggio
avesse solo 28 anni, pure era afflitto da mal d’occhi; e
più non ne guari, onde i maligni lo chiamavano per di-
leggio poelam lippum. Per questa sua malattia, rinunzia
egli dunque a giocare e se ne va con Virgilio a dormire.
Ma le due satire (3), dove è raccontato il viaggio di
Brindisi e dove si legge il lusumque trigonem, sono pre-
cisamente dello stesso anno; 717 di Roma, 37 a. C. e
28 d’età del poeta (4). Come dunque potè Orazio scri-
vere, a così poca distanza di tempo, da una parte che
era solito ogni giorno esercitarsi al trigone e dall’altra
che era conveniente por la sua salute l’astenersene?
Poiché chi volesse tentar di toglier la contraddizione
asserendo che per la pila, dalla quale s’astiene il poeta,
non si deve, contro quanto abbiatn detto più sopra del
significato speciale di quel vocabolo, intendere la trigo-
nale, ma bensì una forma di giuoco più difficile e non
possibile in modo alcuno a un malato d’occhi, si potrebbe
osservare che tutti i giuochi, e il trigone non meno, anzi
forse più degli altri, richiedevano appunto quel che man-
cava a Orazio, cioè una buona vista.
Per uscir da queste strettoie si potrebbero fare due
ipotesi non improbabili: che il mal d'occhi, il quale abi-
tualmente concedeva al poeta di esercitarsi con la palla,
o per i disagi del viaggio o per altra causa, si fosse
in questa occasione aggravato; infatti il povero poeta
(1) Ib. vv. 41 e 42.
(2) Ib. vv. 48 e 49.
(3) Satira I, V e I, VI.
(4) Tabula Clironoloijica Horatiana (ex Caroli Frank» fa-
stis Horatianis) nell’Edizione Teubneriana di Orazio a cura di
Luciano Mììller, Lipsia, 1889, pag. 245.
— 59 —
già s’era dovuto lungo il viaggio medicare una volta,
giunto appena a Terracina (1); oppure che egli abbia
rinunziato per tener compagnia a Virgilio, il quale non
poteva giocare per la malattia di stomaco che Io afflig-
geva (2); anzi, per una delicatezza di sentimento facile
a comprendersi, abbia, nella sua poesia accomunato la
sua infermità con quella dell’amico, per attenuar questa,
quasi su entrambe scherzando. E se queste conclusioni
sembrassero troppo superficiali, altro mezzo non mi pai-
che vi sia di risolvere la questione se non accettando
la versione fngio ràbiosi tempora signi con tutte le sue
imprecisioni e indeterminatezze. Ad ogni modo dal passo
finora discusso risulta che Orazio soleva spesso eserci-
tarsi al campo di Marte o nelle terme e anche consi-
gliava altrui di stancarsi con esercizi faticosi per scacciar
la svogliatezza e l’inappetenza e per apprender qnae
virtus et quanta sii vivere parvo (3). E tra gli altri eser-
cizi suggerisce appunto la pila relax :
... Si Romana l'atigat
Militia adsuetum graecari, seu pila velox
Moli iter austerum studio fallente laborem
Seu te discus agit, pete cedentem aera disco.
E avverte ironicamente allora,.
Cum labor extuderit fastidia, siccus, inanis
Speme cibum vilem; nisi Himettia mella falerno
Ne biberis diluta... (4).
(1) I, V, v. SO, « Ilio oculis ego nigra rneis col/i/ria lippm
Inlinere ».
(2) Neppur Virgilio giuoca; egli era sempre stato di gracile
costituzione: provava a digerire i|uella dilìicoltà che in latino è
detta appunto eruditali. E Galeno (De Tuenda Valetudine, lib. Ili,
12, F.xercendum non esse crudis) avverte: « Si qua cruditas
suOest ommino exercitanduni non est. ».
La malattia del povero grande poeta andò sempre più ag-
gravandosi, finché lo trasse a morte, due o tre anni dopo questo
viaggio.
(3) Satirar., lib. II, 2, v. 1.
(4) Satira cit., vv. 10-16.
— 60 —
Ma altro che vecchio falerno con miele dell’Imetto !
... Cui» sale panis
Latrantem stomachimi bene leniet (1).
La pila velox qui è senza dubbio l'arpasto : per per-
suadersene, basta ricordare la definizione che di questo
dà Marziale e quanto intorno a essa s’è detto, e pensare
quanto opportunamente il poeta abbia qui consigliato
il più faticoso tra i giuochi della palla.
Ed ecco un poeta infelice:
È tornatala primavera, già i fanciulli e le fanciulle
lietamente cercati per le siepi le viole, rustici fiori che
nessuno ha seminato; s’adornan i prati e cantan gli
uccelli. In Roma cominceranno presto le feste e si se-
guiranno in ordine congiunte. E l'infelice Ovidio, dal
lontano luogo del suo esilio, vede cogli occhi del desi-
derio i giuochi che vi si celebreranno:
Otia nune istic, iunctisque ex ordine ludis
Cedunt verbosi garrula bella fori;
Usus equi nunc est : levis nunc luditur armis ;
Nunc pila nunc celeri vertitur orbe trochus;
Nunc, ubi perl'usa est oleo labente, iuventus
Defessos artus Virgine tinguit aqua (2).
E prega il misero poeta:
Di facite ut Caesar non hic penetrale domumque
Hospitium poenao sed velit esse meae (3).
Ma invano supplica l’implacato principe; invano
adopera ora gli accenti della più dolente tristezza, ora
le lusinghe della più esperta adulazione, ora gli argo-
menti delle più umili e futili scuse, come quando in
una lunga elegia si sforza di dimostrare che egli scri-
vendo il suo libro — poiché un libro, il De arte Amatoria
era stato la causa della sua condanna all'esilio — non
aveva fatto altro che imitare chi già aveva scritto trattati
(1) lb., w. 17-18.
(2) Ovmio, Tristium, III, 12. vv. 17-22.
(3) Ovidio, ib., vv. 27-28
— 61 —
delle più umili arti, come quello p. e. del giuoco della
palla :
Ecce canit formas alius iactusque pilarum (1),
egli non sarà più perdonato e morrà nella dolorosa terra
d’esilio, lontano da tutte le cose più caramente dilette,
ucciso più che dalla malattia, dal dolore ineffabile, la cui
eco disperata ancor si sente non senza commozione nelle
sue elegie tristi.
• #
# ♦
Un’altra menzione del giuoco della palla la troviamo
in un poemetto intitolato Ciris e dedicato a M. Va-
lerio Messala. E’ un episodio delle lunghe rivalità tra
Creta e l'Attica. Minosse assediava Megera : era destino
che la città non sarebbe caduta nelle mani dei nemici,
neh è rimanesse sulla testa di Niso, re di Megera, un
lungo capello purpureo. Ma la figlia di lui, Scilla, avendo
rimirato dalle mura della città la bella o maschia figura
di Minosse, se ne invaghì a tal segno che, tagliato al
padre addormentato il capello fatale, lo consegnò al
re nemico e con esso la città.
Questo è l’argomento del poemetto che fu lunga-
mente attribuito a Virgilio; ma esso ha tutta l’aria
d una tarda amplificazione del racconto che del medesimo
episodio fa Ovidio nelle Metamorfosi (2). Pur variando
sensibilmente i particolari dell’azione, il fondo sostanziale
della favola è identico nei due poeti; però entrano nella
narrazione del Ciris alcuni nuovi elementi che in Ovidio
non si leggono: l.° Scilla giuoca alla palla e, trasportata
dall’ardor del giuoco, disturba il sagriflcio di Giunone.
2." Giunone, adirata, se ne vendica spingendo la fanciulla
all’amore e al delitto. 3.° Compare la nutrice fedele a
soccorrere al disperato amore dell’alunna amata.
(1) Tristium, II, Elegia unica, v. 485.
(2) Lib. Vili, vv. 1-151.
— 62 —
Ora non ó difficile rintracciare l’origine di ciascuno
di questi elementi. Scilla, giocando, ricorda Nausicaa;
in entrambi gli episodi, il giuoco è la determinante dei fatti
posteriori, che non si sarebbero potuti svolgere senza di
esso: nell’uno, Ulisse non si sarebbe svegliato, nell’altro,
non si sarebbe disturbato il sagrificio della Dea. Ma mentre
nell ’ Odissea il giuoco è il mezzo materiale dell’azione e
non influisce poi nè sul carattere nè sul valore etico di
esso, in Ciris invece è di un’importanza capitale, come
quello che riduce il delitto di Scilla nei limiti di un’impru-
denza giovanile commessa nell’ardor del sollazzo. Eppure
il giuoco di Nausicaa è parcamente, ma con chiarezza e
compiutezza descritto, tanto che noi potemmo analizzarlo
e colla scorta dei trattatisti antichi forse anche iden-
tificarlo. Invece, per mancanza d’una vivida e netta
visione del fantasma poetico e per deficienza d’arte nel
rappresentarlo, con quanta nebulosità e incertezza è
delineato e colorito in Ciris!
... violaverat inscia sedem
Dum sacris operala deae lascivit, et extra
Procedit longe matrum comituinque catervam,
Suspensam gaudens in corpore Iutiere vestem
Et tumidos agitante sinus aquilone relaxans.
Necdum edam castos agituverat ignis honores,
Necdum solemni lympha periusa sacerdos
Pallentis l'oliis caput exornarat olivae,
Cum la|isa e manibus fugit pila cumque relapsa
Procurrit virgo; quo utinam ne prodita ludo
Aurea tam gracili solvisset corpora palla
Omnia quae retinere gradimi cursumque morari
Possenti o tecum vellem tua semper haberes
Non unqunm violata manu sacrarla Divae :
Turando infelix necquicquam jura piasses
Et si quis nocuisse tibi penuria credat
Caussa pia est ; timuit Irati te ostendere Iuno(l).
Mentre si celebrava il sagrificio in onor di Giunone,
Scilla dunque giocava: ed era appena quello incorni n-
(1) Vv. 141-157.
- 63 —
ciato, quando la fanciulla battè la palla, poi corse per
ribatterla, avanzandosi fino a disturbare la sacra fun-
zione. Almeno, esclama il poeta, tradita dalla forza del
giuoco, non ti fossi sciolta dalla tunica, la quale t'avesse
trattenuta nella corsa !
Cbi non sente l’inopportunità di questo meschino par-
ticolare, non certo atto a scusare l’imprudente fan-
ciulla? Poiché essa non aveva giudizio nè sentimento
di religione, dovevaie esser freno la gonna ! Poi si sog-
giunse: timuii fratri te ostendere Inno! Ma dunque
la perseguitò l’incollerita Dea perchè offesa o perchè
gelosa? Ad ogni modo sappiamo che Scilla s’innamora
per vendetta di Giunone. Ella dunque è più infelice che
colpevole, e merita pietà e non condanna. Situazione
tragica che manca nell’episodio d’Ovidio, ma che è fre-
quente nella poesia greca, da cui il poeta l’ha eviden-
temente derivata. Pero, sebbene di persone che con-
traggono una stolta passiono per vendetta degli Dei ne
sia piena la mitologia (1), la vendetta di Giunone contro
Scilla fu forse suggerita all’autore del ('iris dal racconto
che lo stesso Ovidio fa della vendetta di Venere contro
Mirra, che la madre Ceucri aveva vantato più bella di
Alili li ite. Infatti tutto 1 episodio della nutrice fu preso
dalla triste storia di Ciniro, quale si legge nelle Meta-
morfosi (2). A Mirra la nutrice del ('ìris fa subito un'im-
prudente allusione:
Ilei mihi, ne furor ille tuos invaserà artus,
file, Ara Ime Myrrhae quondam, qui cepit ocellos (3),
perchè, pare soggiungere, me non troveresti compia-
cente come fu quell altra nutrice. Ma intanto entrambe
(1) Bacco spinge Cianippe al più orribile incesto; Diana la
concepire ad Alcinoe un amore disperato per Xanto; Venere
inspira a basite la sua passione mostruosa e spinge ad amarsi
tra loro i due fratelli Uibli e Cauno; e così altri.
(2) Vv. 298-502.
(3) Vv. 237-238.
— 64 —
le nutrici si comportano allo stesso modo : entrambe
sorprendono le fanciulle vicine alle stanze del padre
loro: inorridiscono dapprima e le dissuadono, poi s’ac-
conciano a diventar complici del loro peccato. E altri
raffronti più minuti sarebbero possibili, se non fossero
superflui. Concludendo sarebbero quésti gli elementi
constitutivi del poemetto: il fatto fondamentale tratto
da Ovidio (1); il mezzo determinante tutta l’azione de-
rivato dall 'Odissea (2); l’episodio della nutrice ricavato
di nuovo da Ovidio (3). Anche l’arte di esso è tutt’altro
che perfetta. Le ripetizioni che anticipano e riprendono
la narrazione; certe oscurità e incongruenze di partico-
lari; i lunghi soliloquii imitati da Ovidio, ma che in
Ovidio sono analisi, talvolta profonda, dei sentimenti
del personaggio e qui invece superficiali esclamazioni
o narrazioni di fatti Iacinti o ripetizioni di fatti già
esposti; l’enfasi non giustificata e l’ostentazione esage-
rata dell’erudizione, non permettono che se ne creda
autore il divino cantor di Enea. Esso appartiene a qual-
che poeta posteriore, espertissimo in simili esercitazioni
retoriche. Poiché è innegabile che il ('iris, almeno nella
sua forma esteriore, risente lontanamente dell Eneide
per il giro della frase ampio e sonoro, per l’abbondanza
del l’epitetare, per la particolare struttura e armonia del
verso. Ma più che da queste somiglianze io credo che
altri sia stato indotto ad attribuire a Virgilio la pater-
nità del poemetto dal fatto che gli ultimi quattro versi
di esso sono appunto tolti dalle Georgiche. Udì infatti
i lamentevoli accenti dell’infelice Scilla, legata alla prora
della nave che trasportava Minosse in patria, Cacrnleo
pollens coniunx Nettunia Regno (4) e, avutane com-
(1) Loc. cit. I, 151.
(2) Ib. VI.
(3) Metani., vv. 384-464.
(4) V. 482.
— 65 -
passione, la mutò in Ciri (1), uccello implacabilmente
perseguitato dall'Alieeto, in cui da Giove fu convertito
il padre Niso (2). Questa nimistà ò appunto descritta
nei quattro versi che chiudono il poemetto:
Quacumque illa levein fugiens secat aethera pinnis,
Ecce iniinicus atrox magno stridore per auras,
Insequitur Nisus; qua se fert Nisus ad auras
Illa levem fugiens raptim secat aethera pinnis (8);
i quali non sono altro se non quelli, con cui Virgilio
ammonisce il contadino di metter tra i segni del pros-
simo bel tempo anche l’apparire dell’Alieeto e del Ciri (4).
(1) V. 482.
(2) Vv. 487 e segg., 527 e segg.
(3) Vv. 538-541.
(4) Georrjiche, I, vv. 404-407. L’Alieeto è una specie d’aquila
e Giove in esso converti Niso quippe ai/ttilis sempcr yaudet deus
ille corusci s (Ciris, v. 529). Intorno al Ciri non son d’accordo
gl’interpreti. I più opinano che sia l’allodola. Erasmo di Val-
vason infatti nel suo poema La Caccia afferma che Niso fu
convertito in veloce Smeriglinolo, il quale
Via più che a gli altri augelli ad ora ad ora
Si mostra a l’ Allodetta irato ed empio :
Scellerata membranza, ingiuria antica
Ch’ala figliuola il genitor nemica (Cani. V, atro/. 109).
Ma dopo aver raccontato diffusamente tutto l'episodio di Scilla,
avverte :
Iteri già tra noi si vide uomo prestante
D’anni e di senno, e di credenza molta
Che solea disputar, e star costante,
Che non fu Scilla in Allodetta volta;
Ma divenne un augel d’altro sembiante
Assai maggior, che va per Tacque in volta :
E che non in Smeriglio cambiò Niso,
Ma in un vero Falcon, le membra e il viso.
Ma comunque si sia, la pugna ò tale
Che suol far con la timida Allodetta
L’irato Smerigliuol si presto d’ale,
Che non vola il Falcon con maggior fretta ;
Seguendo lei sovra le nebbie sale
E da le nebbie sovra lei si getta ;
E quinci or può non temerario avviso
Scilla Allodetta. e Smerigliuol far Niso ( Cant . F,
[alvo Le 201-202).
5
- 66 —
Ma quello che per altri potè essere un argomento per
attribuire a Virgilio il Ciris è per noi una prova per
non Tarlo. Virgilio non avrebbe mai cosi ingenuamente
ripetuto versi già comparsi in altra sua opera. All’oc-
correnza non ne aveva penuria di nuovi e originali.
Il Di Valvason deriva la sua prolissa narrazione da Ovidio.
C'è quindi in lui quel che c'è nelle Metamorfosi e non c’è quel
che in esse non c’è; la circostanza del giuoco manca nell’uno
e nell’altro poeta.
CAPITOLO IV.
Ultime vicende della ginnastica nella decadenza greca e romana
— Carattere terapeutico del giuoco della; palla; medici che
lo consigliarono (Antillo presso Oribasio, Galeno, I'aui.o
Egineta, Celio Aureliano, Areteo, Avicenna, ecc.).
La ginnastica, durante i tre periodi in cui abbiam
divisa la sua storia, si vien trasformando, come vedemmo,
nel senso elio essa tende continuamente a sottomettersi
al servizio dell’organismo umano, secondo che le con-
dizioni sociali e, più, fisiologiche richiedevano. Nell’età
eroica infatti la ginnastica, come mezzo di rinforzar il
corpo e, tanto meno, di guarire mali, non aveva ragione
d’esistere. Che bisogno avevan quegli eroi, robusti e
possenti, che mangiavan mezzo vitello, che non cono-
scevan malattie, che vivevano in continuo battagliare
cioè in continui esercizi, di richiedere alla ginnastica
una fibra più forte, una salute migliore?
Essa quindi ha presso di loro carattere essenzial-
mente edonistico: dilettar sè, conseguendo onore; di-
lettar gli Dei e i Defunti, offrendo loro onor di feste
e di giuochi, è il fine che quelli si propongono. Così
si spiega come Esculapio condannasse l’applicazione
della ginnastica alla medicina (1) e anche come Platone
(1) Platone, Politica, III; Galeno, De tuenda sani tate, I, 8.
- 68 -
faccia da Socrate biasimar Erodico, il quale per il primo
insieme congiunse quelle due arti (1).
Ma più tardi si senti che il corpo si indeboliva di-
nanzi allo sviluppo preponderante della vita psichica e
si vide la necessità di rinforzarlo e d’agguerrirlo contro
il progressivo infiacchimento; allora si capì che gli eser-
cizi ginnastici non solo potevan dar diletto, ma anche
offrire un mezzo, salutare e giocondo, di educazione
fisica e morale dei cittadini. E coinè naturalmente av-
viene che più si stimi il rimedio quanto più cresce il
male, nei tempi della decadenza più sentendosi gli uomini
indebolire il corpo, più apprezzarono gli effetti benefìci
della ginnastica, e cominciarono a ricorrervi come a
medicina gradevole ed efTìcace contro le malattie che
li tormentavano. Così la ginnastica venne a congiungersi
con la medicina e a costituire un ramo importante di essa.
» *
Il giuoco della palla, restato, per quella sua mirabile
forza che si disse di variarsi e di adattarsi, uno degli
esercizi preferiti dai degeneri figli di Grecia e di Roma,
poco per volta divenne quasi il rimedio infallibile contro
l’universale infiacchimento: i medici se ne impadroni-
rono, lo consigliarono nelle loro cure, l'onorarono d’una
letteratura non tanto copiosa in verità, e sopratutto
non tanto varia, ma notevole come un segno dei tempi,
come espressione particolare d'una civiltà. Già Ateneo (2),
per incidenza, aveva lasciato scritto che il giuoco della
f Allinda gli era graditissimo e per il diletto che ne traeva
o por il giovamento che ne risentiva tutto il corpo, ma
il capo specialmente. Antillo, secondo i pochi frammenti
che ci ha conservato Oribasio, aveva enumerato i be-
nefici effetti delle varie specie di palla. La terza specie
(1) Platone, Polìtica, TU.
(2) Loc. cit., pag. 12.
— 69 —
di piccola palla giova, secondo lui, alle braccia, agli
occhi e alle gambe; e la grande palla rinforza tutto
il corpo, ma specialmente scarica la testa, tirando in
giù gli umori. La palla più grande del mediocre e quella
vuota sono da lui sconsigliate, quantunque abbiano ali-
ch’esse i loro vantaggi: ma la prima infligge due piaghe
e la seconda non è nè facile nè adatta (1).
Ma il primo che fece del giuoco della palla argo-
mento d’una apposita trattazione fu Galeno in un opu-
scoletto in l’orma d’epistola secondo l’uso dei tempi,
indirizzato a un corto Epigene e intitolato Del (/inoro
della piccola palla (2). È diviso in 5 capitoli: Nel 1." si
dimostra che ottimo è questo giuoco che congiunge in
sè l’esercizio del corpo e il diletto delfanimo; nel 2“
che il giuoco non richiede nè troppi preparativi’, nè
troppo tempo, nè troppa spesa; tutti per conseguenza
vi possono accedere e tutti trovarlo comodo per la fa-
cilità deH’apparecchiarvisi e utile per la grande varietà
dei movimenti; nel 3.° che esso esercita tutte le parti
del corpo e si può paragonare all’arte del buon capitano,
richiedendo occhio, destrezza, forza, costanza; nel 4.°
si dànno consigli intorno alle precauzioni da usarsi,
perchè il giuoco riesca veramente giovevole: tutti vi
possono giocare, anche i deboli e i convalescenti, ma
è da usare con moderazione: e fa d’uopo ungersi d’olio
e prendere dopo un bagno caldo ; il che è utilissimo a
tutte le età e condizioni di salute: non dà regole in-
torno alla durata e alla movimentazione di esso, do-
vendo esse variare secondo la complessione del gio-
catore: lascia il compito di stabilirlo al pedotriba] nel
5.°, finalmente, che tutti gli altri esercizi possono essere
dannosi alla salute: nella palestra si possono vedere e
acciecati e zoppi e contusi e mutilati; la corsa, il salto,
(1) Orihasio, loc. cit., coll. 298-299.
(2) Opere complete di Galeno nella traduzione latina di Cen-
tannio Vincentino, Venezia, Vincenzo Valgrisio, 1562, classe IV,
fogli 46-47.
— 70 —
il disco e il canto stesso sono pericolosi; tace con re-
torica preterizione i delitti dei cavalli; il solo giuoco
della palla è affatto scevro d’ogni pericolo e, per sopra p-
piiì, giovevole alla salute.
Nè in questo solo trattatalo, ma anche qua e là
nelle altre sue opere e specialmente nel De tuenda
militale, il gran medico Alessandrino fa menzione del
nostro giuoco. 1 vecchi se ne devono astenere (1), spe-
cialmente dalle forme più violento e dalle più faticose,
e mette fra questo (2) resercitazione per mezzo del co-
rico e della piccola palla, accordandosi in questo con
Marziale che ai vecchi riserva il folle { 3). In ogni caso
però, e da qualunque persona si faccia, il gioco dev'es-
sere sempre moderato (4).
E poiché Galeno, il medico dei medici, l’autorità in-
discussa, il maestro insuperato, l’aveva così caldamente
raccomandato, il giuoco della palla divenne dopo di lui
un tema obbligato per tutti gli scrittori di cose mediche:
i quali, persuasi dei grandi vantaggi di esso, ma più
indotti dall’esempio del grande Alessandrino, andarono
a gara a scoprire e rilevare e magnificare le sue mi-
rabili virtù contro i più svariati mali, virtù che vera-
mente ai nostri occhi appaiono come ridicoli pregiudizi.
Oribasio, che già vedemmo riportare quanto di bene
Antillo aveva detto della palla, nella sua Sinopsis (5)
consiglia l’esercizio per folletti et parvarn pìlam, quae
exercitatio composita est ex robusta et citata. E lo
segue Paulo Egineta, quando tra le diverse specie di
(1) De tuenda sanìtate, lib. V, cap. 2, pag. 73.
(2) Ih., lib. II, cap. 10, pag. 59.
(3) Kp., XIV, 47.
(4; De tuenda sanìtate, lib. II, cap. 12, pag. 00.
(5) Sinopseos, ad F.ustatium fllittm, libri IX, in Medicae artis
prineipes... citato: Lib. I, cap. III. Oribasio visse sotto l’impe-
rator Giuliano, a cui dedicò la sua Raccolta dei medicinali. Suo
Aglio sarebbe secondo alcuni c]ueU’Eustazio commentator del-
V Odissea, che fu arcivescovo di Tessalonica.
— 71 —
esercitazione veloci senza violenza, annovera timbra-
li lis pugna et summis raanibus decer tati o et per follerà
et parnam et magnani pi/am esercitano e le racco-
manda, coinè quelle che dàn robustezza ed elasticità ai
muscoli e ai nervi (1). Ed ancor soggiunge che il corico
corpora crassa attenuai ideoque apud Noniurn a Lucilio
scriptum inreni tur , rum in gymnasio duplici studio
siccassem pilam (2).
E non è Panilo Egineta solo a consigliare il giuoco
della palla come rimedio contro la pinguedine; anche
Celio Aureliano (3), con l’autorità di Ippocrate, come
dicemmo, lo dice efficace contro la polisarchia, e Areteo,
con quella di Antillo, contro l’elefantiasi (4). Quest’ultimo
però lo proibisce ai vertiginosi, perchè la tensione e i
rapidi volgimenti del capo e degli occhi producono il
capogiro (5).
Avicenna afferma che nel giuoco della palla con-
vengono tutti gli altri esercizi e che quindi si può trar
da esso solo tutti quei vantaggi che dagli altri singo-
larmente si traggono, rendendo esso più agili e pronti
i movimenti e rinforzando le funzioni vitali. Così scri-
vendo, Avicenna s’accosta a quanto ne dice Galeno
nel citato tratterello del giuoco della piccola palla (<>),
ch’egli doveva aver sott, 'occhio, come del resto l’avevano
tutti i medici che abbiamo nominato e che nomineremo.
Galeno però e i medici di poco posteriori a lui, ge-
neralmente si limitavano a considerare il giuoco della
(1) Paulli Aicginetae, De re medica, in Medicae ariis prin-
eipes, ece., citato: col. 350, lib. I, cap. XVII.
(2) Mercuriale, lib. V, cap. IV, col. 670.
(3) De diaela, V. verso la fine, presso Mercuriale. V, IV,
col. 676.
(4) De euratione diuiurnorum morborum in Medicae artis
principia, ecc., citato: lib. II, cap. XIII, col. 06. Tunio Paci. lo
Crassio Patavino interprete : lucani elephanios perae ac sacculi
iactus
(5) Lib. I, cap. 3.
(6) Lib. I, cap. 1.
palla nei suoi effetti sulle condizioni generali di tutto
il corpo, come un altro esercizio qualsiasi della ginna-
stica. Ma poco per volta esso venne ad assumere un
carattere, dirò così, sempre più terapeutico; fino a che
lo si annoverò tra i rimedi specifici di certe malattie.
Già avemmo occasione di veder la sua efficacia con-
tro i mali derivanti dal soverchio sviluppo dei tessuti,
come la pinguedine, la polisarchia e la elefantiasi.
Ma Alessandro Talliano già lo prescrive nella cura del
priapismo (1), e Celio Aureliano e Cornelio Celso nelle
malattie nervose, raccomandandolo l'uno (2) alle nutrici
per guarire l’epilessia nei bambini e l’altro a quelli che
soffrono di tremito nervoso (3). I medesimi poi lo rac-
comandano nelle coliche. L’esercizio però doveva sempre
esser proporzionato all'età e alle forze e alla salute
di chi lo faceva, come ammoniva un commentatore e
illustratore delle teorie di Galeno, scrivendo che biso-
gnava esercitarsi con moti medii, nè troppo coleri nò
troppo lenti; e ai più veementi ricorrere i forti, e ai
meno i deboli ; e l'animo stesso nell’esercizio non doveva
esser o troppo trascurato o eccitato sed moderatis mo-
fibus utrumque [corpus et nnimum) idi oportef; ac ubi
rehernentius altendro laborandurn est, iti alio quie-
scendum ; lantani enim violentiam nostra compositio
sustinere ncqui/. Porro venatio et ludus parrae pilae
videnfur animum et corpus aequaliter exercere (-4).
(1) Alexander Tallianus, De arte medica, interprete Gui x-
tf.rio Audeknaco, in Medicae artis principes, ecc., lib. IX, cap. 10,
col. 28(5, G.
(2; De acutarum passionimi remediis, lib. I, tract. 2, cap. 2
presso Mercuriale.
(3) Lib. I, cap. 6,
(4) Ioiiannis Argenterò, Pedemontani, In artem medicina-
lem tìaleni commentarti tres. In Monteregali : ex officina Tor-
rentiniana, MDLXVI, Comm. Ili, pag. 366.
PARTE SECONDA
IL GIUOCO DELLA PALLA
nella letteratura italiana
CAPITOLO I.
Vicende del giuoco della palla nel Medio Evo e sue relazioni col
sentimento religioso e la disciplina ecclesiastica (San Ago-
stino, S. Carlo, il Petrarca). — Le più antiche notizie del
giuoco e diffusione crescente di esso. — Il giuoco della palla
e l’educazione della gioventù nel Rinascimento (Vittorino da
Fkltre , Leon Battista Alrerti , Baldassar de Casti-
clion , Erasmo di Valvason, Rabelais).
A chi paragoni lo varie specie ili giuoco con la palla
in uso presso i Romani con le specie in uso presso di
noi, non può sfuggire, come già notammo di passaggio,
la grande rassomiglianza di alcune di quello con alcune
di queste: il pallone col bracciale richiama infatti alla
mente il follicolo, la piccola palla di cuoio ci ricorda
la paganica e il fiorentin giuoco del calcio ci la pensare
all' arpaslo. Ond’è logica la conclusione che le nostre
forme di giuoco siano derivate dalle antiche. Ma poiché,
per quante ricerche si sian fatte, mancano i documenti
che provino la non interrotta continuità di quelle antiche
specie di giuoco durante i secoli di mezzo, non si può
con sicurezza stabilire se le nostre specie di giuoco
sian delle antiche una derivazione per non mai cessata
tradizione, oppure siano un rinnovamento compiuto per
imitazione al risorger delle forme e degli spiriti della
vita antica. L’indagine in questo campo deve dunque
procedere per via di quelle ipotesi, le quali, in sè rac-
— 76 —
cogliendo maggiori elementi di probabilità, consentano
la lusinga di avvicinarsi al vero.
Le minoranze, che costituiscono la parte più eletta
della società, sono anche, ognuno lo sa, la parte più
evolabile di essa: le maggioranze sono sempre conser-
vatrici: quindi gli usi, le consuetudini, le credenze re
ligiose, le idee politiche, la lingua, le fogge del vestire,
tutto insamma che è manifestazione di vita interiore o
esteriore d‘un popolo, è più mutevole nelle classi colte
che nelle moltitudini e più nelle moltitudini delle città,
che si trovano a contatto con quelle, che non nelle mol-
titudini delle campagne.
Ora la paganica , che era la specie di giuoco con la
palla più popolare in Roma e più diffusa tra gli abi-
tanti delle campagne, come altrove dicemmo e come
il nome suo stesso significa, è verosimile non solo che
sia di più delle altre durata, ma che non sia cessata
mai e sia a noi arrivata per tradizione costante; mentre
il follicolo , per limitarci a esso (1), preferito dai nobili e
ricchi Romani (sappiamo da Svetonio che vi giocava
Augusto), sospeso durante il Medio Evo, è probabile
che sia rinato sotto la mutata veste del giuoco col
bracciale allo spuntar «Iella Rinascenza (2). E questa
(1) Il trójone scomparve con lo sparir del mondo antico; solo
• lualclie reminiscenza di esso noi vediamo in alcuni giuochi di
fanciulli. Lo stesso si dica deh’ aporrassi, della feninda, dell’ «ca-
nta, ecc. La paganica , come sembra, fu continuata fino a noi da
quel giuoco assai frequente che, o a mano o col tamburello, si
faceva fino ad alcuni anni fa con la piccola palla di cuoio piena
di lana o sabbia o crusca o altro: la quale, fugata dal pallone
elastico, si vede ancora oggidì confinata in alcuni piccoli villaggi
dell’alto Piemonte, verso la montagna.
(2) Il giuoco del calcio, che continua l 'appasto, è cosi par-
ticolare di Firenze, donde poi s’estese al resto d’Italia, che mi
parve ragionevole escluderlo da queste considerazioni di ordine
generale. In verità non saprei dire se sopravisse per continuata
tradizione o rinacque dopo il Medio Evo. É certo però che di esso
— 77 —
congettura s’accorda con lo condizioni sociali e politiche
del Medio Evo. Le classi dirigenti si davano allora al me-
stier delle armi ; e quegli uomini forti e robusti, vestili
di ferro, per lo più randagi per il mondo in cerca di
avventure, non avevano nè gran bisogno di ricorrere nè
gran tempo da concedere agli esercizi della ginnastica;
ad ogni modo di questi avevano a vile i meno violenti
e aspri; e ai colpi di palla negli sferisteri preferivano
i colpi d’asta e di spada nei tornei e nelle giostre. Il
popolino invece amava i piccoli esercizi che lo solle-
vavano dalle fatiche dei campi e dei traffici : e le noie
dei lunghi assedi ingannava con il più vii giuoco della
piccola palla di cuoio nelle vie, nei vicoli, sulle piaz-
zette, ovunque si aprisse uno spazio da poterlo faro.
Poiché è anche da notare che la configurazione stessa
delle città, costruite nella breve cerchia delle mura di
difesa e spesso fabbricate sulla vetta angusta di colli
d'aspro pendio, non concedevano il campo ai larghi sfe-
risteri necessari al giuoco del bracciale; ma il giuoco
con la palla di cuoio, specialmente se battuta con la
mano, o nuda o inguantata come un tempo si usava,
era sempre possibile, anche se strette e storte erano
le vie, obliqui i vicoli, irregolari le piazzette. Quando
poi i rinati studi classici rivelarono i vari modi d’eser-
citarsi che avevano i Greci e i Romani e appresero alle
menti avide dell’antico i fasti gloriosi della palla; e quando
lo città, scossi i secolari terrori, apersero le loro mura
alla vita gioconda delle Signorie festeggianti, allor ve-
ramente il giuoco con la palla divenne il giuoco clas-
sico degli Italiani, come il Burkhardt l’ebbe a chiamare (1),
si hanno notizie più antiche che non degli altri giuochi. Io propen-
derei a credere che Firenze l’abbia conservato senza interruzione
durante tutti i secoli di mezzo, tanto più che militano per esso tutte
le ragioni addotte di sopra in favore del la piccola prilla (ti cuoio.
(1) La Civiltà de! Rinascimento in Italia, Saggio di .Iacopo
Burckhardt, traduzione italiana del prof. I). Vai.uusa, Firenze,
C. S. Sansoni, 1901, v. II, pag. 139.
— 78 —
e per iniziativa di Municipi e di Principi, s’eressero i
vasti sferisteri, campo di sfide famose, le quali, per la
qualità di giocatori e per la straordinaria concorrenza
degli spettatori, meritarono d’esser poi ricordate dalla
storia c cantate da poeti illustri.
Ma un'altra ragione ci permette di supporre continuo
il giuoco della palla, in certe forme almeno, durante
tutto il Medio Evo. 11 Cristianesimo trasformò il mondo
pagano, eliminando quanto la vita aveva di contrario
alle sue credenze, modificando quanto da esse differiva,
accettando quanto con esse s’accordava. 11 giuoco della
palla, che non urtava in nulla con esse, fu accettato
dalla nuova religione, concesso dal nuovo dritto cano-
nico e permesso dai teologi posteriori.
Per scegliere infatti due scrittori cristiani, uno dei
quali vissuto prima del Medio Evo e l’altro in sul finire
di esso, non disapprova il giuoco, come vedemmo, San Cle-
mente Alessandrino, scrittore severissimo (1); lo consiglia
come utile e onesto Maffeo Vegio di Lodi, datario del
pontefice Pio li nel suo De liberoruni educa! ione (2).
Anzi, nemmeno ai chierici, ai (piali pure erano proibiti
tanti passatempi, il giuoco della palla non era vietato,
come si può vedere nel trattato De vita et honestate
clericorum citato dal Posino (3) e in generale in tutti
i libri consimili, come negli atti dei concilii più celebri,
nei quali altri giuochi sono condannati nominalmente e
per loro stessi, quello della palla invece o non condan-
nato o condannato solo condizionatamente, cioè in certe
circostanze di tempo, di luogo e di modo (4). Solo più
(1) Op. cit., Raedaijoi/us, III, cap. 1.
(2) Macubi Vecii Laudensis, De liberorum cducatione, lib. Ili,
^ II nella Maxima bibliotheea cet ;rum patrum et antiquorum ^cri-
pto rum, I.ugd uni, MDCLXXVII, Tom. XXVI, pag. (itì.
(3) Antiq. Rom., lib. V, pag. 432 e segg.
(4) Gir. anche Benkdicti Pacai: XIV, De ninnilo Diocesano,
lib. XI, cap. X, pagg. 4KJ-4I7 e Yetns et nova Ecclesiae di-
tardi, quando si fece sentire l'influenza della contro-ri-
forma cattolica, negli atti di alcuni coneilii, si proibì
categoricamente anche il giuoco della palla; San Carlo
Borromeo, nel suo concilio provinciale milanese, volle
che i chierici s’astenessero dai giuochi di sorte; e
inoltre a ylobis qui malleis ligneis expelluntur; idem
a ludo follìa ìdest pilae maioris (1). Il non essere stato
vietato dalla nuova religione viene a essere una ragione
di più per non escludere, anzi per ammettere che il
nostro giuoco non sia mai cessato dai tempi antichi ai
moderni.
La condanna — parziale veramente perchè limitata
ai chierici — che S. Carlo fa del giuoco della palla, ne
ricorda un altra di un altro Santo, di S. Carlo non meno
venerato e piu geniale, S. Agostino. Le due condanne
fatte a tanta distanza di secoli l’una dall’altra, non solo
s'assomigliano perchè sono entrambe una protesta contro
un ordine generale di principi e di costumi, ma sono in
fondo, oserei dire, la medesima protesta contro i mede-
simi principi e costumi. Il divieto di S. Carlo fa parte
d’un complesso d’altri divieti e ordini intesi a porre
un freno alla corruzione degli ecclesiastici e a ridurli
a una regola di vita più consentanea al loro ministero,
come appunto si può vedere dagli atti del suo con-
cilio: cosi, il santo arcivescovo veniva a farsi inter-
prete di quel nuovo indirizzo delle coscienze, che è co-
nosciuto sotto il nome di contro-riforma cattolica; la
quale, più generalmente considerata, non è altro se non
reazione contro il Rinascimento corrotto e irreligioso.
S. Agostino a sua volta disapprova quel trastullo, caro
sciplina auctore et interprete Lodovico Tiiomassino, Lucae,
MDCCAXt III; donde si ricava che il Concilio di Trento concesse
ai chierici il giuoco della palla minore (l’arte III, lib. Ili, ca-
pitolo XLVI, n. IV, v. Ili, pag. 604).
(1) Actuum Peci. Medio!. I, 2, pag. li).
— So-
nila sua fanciullezza (1), non in so stesso, ma come causa
di disubbidienza ai genitori e ai maestri. Però soggiunge:
Non ero già disubbidiente, perché scegliesti occupa-
zioni migliori, ma per solo amore de! giuoco, amando in
quella gara le superbe editorie ( 2). Egli dunque condanna
se stesso e il suo amor proprio; tutti i sentimenti cioè
dell’animo suo non diretti unicamente al culto di Dio
e alla sua glorificazione. Egli è un mistico e il suo
è il misticismo dei martiri; un’ abnegazione completa,
una rinuncia a quanto la vita ha di bello e di grade-
vole; un annientamento d’ogni propria volontà neH'adem-
pimento della volontà divina, d’ogni desiderio nel desi-
derio del premio ultramondano. Ed è questa un’altra
reazione contro quell’aspirazione assidua a ogni sorta
di godimenti, a quella esagerata coscienza delle indivi-
duali energie che furono i sentimenti caratteristici della
società romana, specialmente di quella dell’Impero. E
come il Rinascimento fu la riproduzione, almeno parziale,
degli spiriti c delle forme della vita antica, così le voci
dei due santi della Chiesa, in tempi diversi, vengono
a levarsi entrambe contro la medesima civiltà classico-
pagana in nome della civiltà medioevale-cristiana, o inci-
piente o risorgente. Eppure l'ima e l’altra di queste due
civiltà, degli elementi constitutivi della coscienza italiana
sono stati, fin quasi ai tempi moderni, i principali e più
importanti: ma contrari tra loro per la stessa loro essenza,
vi rimasero in perenne antagonismo, tentando a vicenda
di soverchiarsi, ora l’uno ora l'altro vittorioso. In certi
periodi le due correnti paiono equilibrarsi, e grandi
uomini in sè quelle raccogliendo, si vedono adoperarsi
per metterle d’accordo; e null’altro però ottenere, se non
mettere in rilievo il loro dissidio inconciliabile.
Il Petrarca infatti, vissuto sullo scorcio del Medio
Evo, durante il quale la corrente medioevale-cristiana pre-
ti) S. Agostino, Confessioni, lib. I, cap. 9, n. 3.
(2) lb., cap. 10.
- 81 -
valse, e sul limitare del Rinascimento, in cui la classica
trionfò, lotta invano anche lui per conciliarle in sè; ma
esse si mostrano ognora in conflitto. Quando, per esempio,
il giuoco della palla si presenta al tribunale della sua
coscienza (1), il Diletto si confessa alla Ragione: « Volen-
tieri gioco alla palla ». Essa ne lo rimprovera: « Se il gioco
si ricerca per esercizio, è desso troppo agitato e scom-
posto e clamoroso: tanto che non vi si può far nulla
di bene: meglio è passeggiare che fare alla palla, meglio
imitare Aristotele che Dionigi di Siracusa. Ma vi gioca-
rono però Q. Muzio Scevola e il divo Augusto e Marco
Aurelio e furono: quello, un insigne giureconsulto e
questi, principi eccellenti ; si tolleri dunque il giuoco,
ma si faccia composto e tranquillo, come a un ingegno
grave conviene ».
t'ol ricordo di quei famosi personaggi di Roma antica
la visiono della grandezza di questa si presenta fulgida
agli occhi ammirati del poeta e l'ammirazione e la ri-
verenza attenuano nell’animo suo ogni altro sentimento.
La Ragione non trova più argomenti sicuri nel suo giu-
dizio o la sua sentenza quindi non è più nò assoluta
nè severa. L’incertezza che serpeggia per tutto il di-
battito è appunto l'efTetto del conflitto dei due opposti
sentimenti che si disputano l’animo suo: In propen-
sione, cioè, che la natura gli aveva dato e che lo studio
(Iella classicità alimentava, a sentire e godere tallo
ciò che è bello, piacevole, amabile (pii sulla terra; e
la fervida aspirazione all’idealità ultraterrena, che,
radicata nella sua anima dalla lunga e ancor vivace
tradizione medioevale, rinfocolavano le lei! are di libri
sacri, specie delle « Confessioni di S. Agostino'» (2). Così
(1) Francesco Petrarca, De pilae ludo. Dialogo XXV nelle
opere stampate a Basilea. Auerbaek, 14SJ6, v. 2.
(2) V. Rossi, Storici delta Letteratura Italiana, v. I, pag. 19. r >.
Non mi pare inopportuno riprodurre tutto il dialogo del Pe-
trarca, affinchè il lettore legga e giudichi:
6
— 82 —
il Petrarca, oscillando tra S. Agostino e Valerio Mas-
simo, non più reciso nè assoluto come un uomo del
Medio Evo e non ancor sicuro e forte come un uomo
del Rinascimento, colpisce il giuoco con una condanna
parziale, la quale rivela l’incertezza del suo animo di-
viso tra due ideali in perpetuo antagonismo tra loro.
Ma a mano a mano chi* la coscienza antica si rin-
forza col rifiorir degli studi classici, anche il giuoco
della palla sempre più si diffonde senza esitanze nè
opposizioni. Non molti anni dopo il Petrarca, il già
menzionato Maffeo A^egio è già più reciso; IHlae ludus
et honestus e! libera lis videtur; adiuvat eliditi pluvi-
mai» bona/» valetudine m: cui caia multi, /amen e/inm
Augustus e! Mucius Scaevola et Dionisius e! Marcus
Anlonius et Lieo» Philosophus aridissime dediti fuisse
Iraduntur (1). Vi si giuochi dunque senza scrupoli nè ter-
« Gaudi uni: At delectut pilae ludus. Katio : En aliud clumamii
I ud i brium saltandique. Gaudium: Libenter pila lusito. Ratio:
Odiosa vobis, ut videtur, est requies; undique laboresaucupamini,
deeoros utinani. Nani si exercitio ludus liic quaeritur, utrum pre-
cor honestiorem fatigationem furibonda iactatio: in qua, aio, niliil
geri potest; au umbulatio tranquilla praestaret; ubi et membrorum
motus utilis, et ingenii agitatio lionesta est. Quem morem pliilo-
sophoruni quidam sic lecerunt suum, ut bine secta famosissima
nomen sumpserit. An tu vero Dionysium S.vracusarum quam
Stagyritam Aristotelem sequi mavis, quando ut studiosa deambu-
latiorie pliilosoplium, sic tyrannum ludo hoc turbido delectari so-
litum acce]iimus; quamvis et modestos interdum alios voluptas
haec ceperit. Itaque et tj. Mucius Scaevola, ille augur, elegan-
tissime hoc ipsum fecit; et divus Augustus post lìneui civilium
bellorum ab exercitiis campestrilais ad pilam transiit: et Marcus
Aurelius Anlonius, ut de eo scribitur, pila lusit appriine. Nec
tamen ille vel divini atque Immani iuris peritissimus vel hi doc-
tissimi atque optimi principes l'uerant: ideo (ed ecco la transa-
zione) ludus praeceps et clamosus placet, siquidem motus omnis
vehementior, praesertim si clamore permixtus sit, honestum de-
decet ingenium ».
(1) Vkoio, loc. cit.
- 83 —
giversazioni, pare voglia soggiungere. E il giuoco prende
sempre maggior voga.
• •
Le notizie infatti del giuoco, prima rare e indirette,
si fanno, dal principio del secolo XIV in poi, sempre più
frequenti e determinato. Le più antiche veramente ci
vengono di Francia. 11 Concilio provinciale Biterrense,
celebrato sotto Egidio Arcivescovo di Narbona nel 1310,
proibisce ai monaci ludos globorum (1); il che lascia
supporre che anche prima di queiranno il giuoco fosse
frequente.
Luigi X nel 1316, nei boschi di Vincennes,
...avait
Jouò un jeu qu’il savait
À la paume...;
ma bevve in fresco e, presa una flussione di petto,
Là perdit-il plumes et pennes (2).
Il Petrarca scrisse il suo trattato De remeiliis litri-
usque fortunae tra il 1360 e il 1366; e, parlando del
giuoco della palla, aveva egli in monte la visione diletle-
vule di qualche partita fatta sotto il bel ciel del Delfi-
nato o d’Italia, oppure solo l’ascetico ricordo del passo
delle Confessioni, in cui San Agostino condannava il
giuoco gradito ?
l’n’ordinanza del Prevosto di Parigi del 22. gennaio
1397 nota che molti artigiani abbandonavano il lavoro nei
(1) Articolo XI.IV degli atti di quel concilio nel Thesaurus
nocits Anecrloelorum, Lutetiae Parisiorum, 1717, v. IV, pag. 219.
( 2 ) Chronigue rinicc, attribuite a Gkofkkoy de Paris, come
si legge nel notevole studio che il Susserand la su Les shorts
dans l’ ancienne Frutice nella /{ente de Paris , v. JII, pag. 129.
La morte di Luigi X ricorda, per l’identità dei particolari, quella
del fratello di Leone V, imperatore d'Oriente (813-820), il quale,
dopo aver giocato, subito sai) a cavallo: gli si ruppe una vena
e mori. (Magnani Theatrum humanae vilac , auctore Laurentio
Beyerling, Lugduni, 172X. Tomo V, M, 093 g).
— 84 —
giorni feriali per giocare alla palla ; ordina quindi che
si giuochi solo la domenica, pena una multa (1). Nel
1386 una compagnia di gentiluomini francesi, recatasi
da Giovanni I di Castiglia, lo avverte d’una guerra
macchinata contro di lui da Giovanni di Gand c dagli
Inglesi. Il Re rimase alquanto pensieroso; ma poi rivoltosi
a Roberto de Bracquemont e a suo fratello Giovanni:
L’anno scorso vi incaricai , disse, di portarmi delle
pelofes di Parigi per fare alla palla tra di noi-, mai '
meglio c’abbiate por/a/o armi. Le anc e le altre, rispose
il sire di Bracquemont; perchè non si può mica sempre
giocare nè sempre combattere (2).
Ma a questo punto si trovano tracce del giuoco anche
in Italia. Se si potesse dare come certa la data del-
l’anno 1300 alla deliberazione degli Anziani di Pisa, con
la quale si proibiva sotto diverse pene pecuniarie di
giocare alle piastrelle e alla palla in Duomo e nel Cam-
posanto, sarebbe questa la notizia più antica che s’a-
vrebbe del giuoco in Italia e fuoii. Ma F. B. Supino nel
riportare quella deliberazione nella sua bell’opera II Cam-
posanto di Pisa (3), pure assegnandola al 1300, coscien-
ziosamente avverte che nelle Deliberazioni e Partiti
del Comune di Pisa riguardanti l’Opera, Panno non è
precisato (4). Ma è certo però che il divieto, avendo
ottenuto la prima volta poco effetto, fu rinnovato . nel
13S0 (5), e poi ancora un’altra volta nel 1478 (6), sempre
con maggior rigore, ma sempre, a quanto pare, col me-
desimo risultato. S’hanno però altre notizie del giuoco
molto anteriori a quest’ultimo anno.
(1) Susserand, loc. cit., pag. 125.
(2) Susserand, loc. cit. , pag. 127.
(3) I. B. Supino, Il Camposanto di Pisa, Firenze, Fratelli
Alinari, 1896.
(4) Ib., pag. 37.
(5) Ib., pag. 37.
r 6) Ib., pag. 38.
Negli Statuti «li Mondovi v'è un articolo intorno ai
giuochi che parla due volte della pillotta : Rem statu-
to m est quoti aliquis non Inda/ in civitate Montis Re-
galia rei districi us ad laxillos rei ad bitrinos rei ad
aliata ladani re litui a praeterquarn ad scacos et Pillo-
taxi. E poco sotto: Rem statutum est quod nulla per -
sona audeat rei praesumat In de re intra domos con-
rcn/us frale ut a Minorimi et fratrum Praedicatorum
ed Ecclesiae Sancii Donati ad aiiquem ludtim taxillo-
rutn, biglarum, pilotar eie. (1). Ora se si considera che
questi Statuti, pubblicati nel 1570, erano stati compi-
lati nel 1415, come risulta dalla prima pagina; e che
l’articolo citato di essi, specialmente la seconda parte, si
riferisce evidentemente a una consuetudine inveterata che
doveva durare da anni e anni, si dovrà ammettere che
nella città di Mondovi il giuoco della palla era già usato
almeno nello scorcio del secolo XIV.
Un’altra notizia del giuoco cade su per giù nello
stesso tempo. S. Antonino, arcivescovo di Firenze, che
visse dal 1.489 al 1459, dum luderet ludo pilae, quae
(licitar « palla grossa» (probabilmente quella del calcio)
fregerat sibi brachium (2). Ora se si osserva che alla
palla si giuoca più in giovine età che in età avanzata,
e che il santo arcivescovo entrò a Iti anni nell’ordine
dei Predicatori, si deve convenire che egli giocò almeno
nei primi anni del sec. XV.
Ma subito dopo, da un processo del 10 luglio 1432,
apprendiamo che il giuoco della palla (liidus paline coreae
ad spondam muri) soleva farsi in Bologna presso la casa
degli eredi Da Serpe speziale, nella parrocchia di S. Da-
miano, dalla croce di via Castiglione alle case dei Gui-
doni (3). Nella stessa Bologna, cinquantanni circa dopo,
(D Stallila eie itati s Montisrei/alis. In Monteregali MDLXX,
cap. XIV, De non l udendo , pag. 178.
(2) Duciiange, Glossario citato, sotto palla.
(3) Lodovico Frati, La cita privata di Ilologna dal sec. XIII
al XVI, Bologna, Zanichelli, 1900, pag. 138.
— 86 —
cioè noi 1480, molti giovani giocarono alla presenza di
Giovanni 11 Bentivoglio; e nel 148(5, nello nozze di Lu-
crezia d’Este con Annibaie Bentivoglio, narra il cronista
Bolognese Gaspare Nadi, che feno al balon Z aeravi
ordinarli... e di po’ sugò al dito balon ciarli signiari de
qui , li quali sono al marchese de Manina e quelo da Ca-
merino e quelo da Piombino e quelo da Pessaro e altri
signiuri (1).
Ometto la ricerca d’altre tracce del giuoco. Oramai
egli s’ora avviato pel suo cammino glorioso e trionfava
in tutte le città specialmente dell'Italia centrale, non
solo nelle suo specie minori, della palla di cuoio e del
calcio, ma nella forma più nobile del pallone col bracciale.
A favorire la diffusione di questa forma venne in luce
un libro, che levò insolito rumore e contribuì a diffonderla
tra gli Italiani insieme con tutte le forme della ginna-
stica antica. Fu questo il trattato De g ginnastica di Mer-
curiale. In quel fervore di studi classici, in quella smania
di conoscere e ricostituire la vita antica, il libro del
celebre medico padovano, glorificatore di quell’arte che
favorisce lo sviluppo della forza fisica e la coscienza
della propria personalità — due sentimenti cosi diffusi
nel Rinascimento — ebbe un immenso successo. La gin-
nastica cominciò allora a essere considerata come cosa
a sè, separata dagli esercizi guerreschi c dai giuochi (2)
e ad entrar nell’educazione ; e, per la prima volta, forse,
nella scuola di Vittorino da Feltre, si videro associati
all’istruzione scientifica e letteraria i più lodati fra gli
(1) Diario Bolognese di Gaspare Nadi, edito ila C. Ricci e
A. BACCm della Lega, Bologna, Romagnoli dall’Acqua 1887,
pag. 123.
(2) Burckhardt, Ed. cit., v. II, pag. 138.
— 87 —
esercizi ginnastici ; esempio imitato poi «la Federico
d’Urbino, il quale assisteva in persona ai giuochi dei
iriovani a lui affidati.
\ T ò ebbe opinione discorde da «jnella del buon Maestro
della Casa Giocosa uno dei primi uomini «lei Rinasci-
mento, come per tempo così anche per grandezza d’in ‘
gegno : Leon Battista Alberti. Il quale nella sua famosa
opera Della famiglia ebbe a scrivere : Ma a fanciulli
giu forterussi ed agli altri tutti, traggo nuoce l'ozio:
cm gionsi ger l’ozio le rene di flemma ; stanno acqui-
dosi e scialbi e lo stomaco sdegnoso : i aerei gigri e
il cargo tardo e addormentato ; e giu , l'ingegno ger
traggo ozio s'appanna ed offuscasi, ed ogni virtù del-
l’animo diventa incide e stradi iccia. E ger contrario
molto giova l'esercizio: fa natura si vivifica; i nervi
s’ausano alle fatiche, fortificasi ogni membro, assot-
tigliasi il sangue, impongono le carni sode, l’ingegno
sla pronto e lieto (1).
Io non saprei trovare un’altra diagnosi più sicura e
fedele del male e una dimostrazione più convinta e più
chiara dell’efflcacia del rimedio. È questa una dipintura
limpida e suggestiva dei tristi effetti dell'inerzia e di
«juelli molto benefici dell’esercizio ; la quale dimostra
quanto radicata fosse nell’animo dell'Alberti l’idea della
necessità, assoluta d’una buona educazione fisica. Quando
infatti gli avviene di dover parlare nel suo trattato delle
applicazioni intellettuali dei giovani, subito s'affretta ad
avvertire: E non credete, Arorardo, che io voglia che
i padri tengano i figliuoli incarcerali al continuo tra
i libri; ansi lodo che i giovani, sgesso e assai, quanto
recrearsi basta, piglino dei sollazzi. Ma siano tutti i
loro giuochi civili, onesti, senza sentire vizio o biasimo;
usino quei lodati esercizi, ai quali i buoni antichi si
(1) Liìon Battista Ai.nr.RTi, Della Famiglia, Ed. Bonucci,
Tom. II, lil). I, pag. 73-7-t.
— 88 —
tiara no. Giuoco , ove bisogni sedere, quasi ninno mi intra
degno d'uomo civile. Lascino gli uomini non dessidiosi
sedersi le femmine, e impigrirsi; loro in sè piglino eser-
cizi che muovono la persona in ciascun membro ;sae/f ino,
cavalchino, e segnino gli aliai civili e nobili giuochi.
Gli antichi usavano lo arco E usino i nostri gio-
vani la palla, giuoco antichissimo e proprio alla de-
strezza, quale si loda in persona gentile \t> mi di-
spiacerla che i fanciulli avessino per esercizio il ca-
valcare E cosi amerei io nei nostri da piccoli si
< lessino , e insieme con le lettere imparassino questi
esercizi e destrezze nobili, e in /ulta la vita non meno
alili che lodate : cavalcare, schermire, nuotare e tulle
simili cose quali in maggiori età spesso nuocono notte
sapere. E se tu vi poni mente, troverai tulle queste
essere necessarie all’uso e vivere civile (1).
In queste ultime lince il concetto dell’utilità degli
esercizi accenna ad allargarsi : eh i cogli esercizi ha cura
di rendere più forte e destro il corpo provvederà anche
alla sua educazione di cittadino, ammonisce l’Alberti. E
come, secondo gl'ideali d’allora, la forma più alta e nobile
del vivere civile era quella delle corti e il tipo ideale*
dell uomo, pubblico e privato, era quello del perfetto'
cortigiano, ecco Baldesar Castiglione (2) a consigliare a
chi cortigiano intendesse divenire, insieme cogli eser-
cizi delle armi, anche quelli che tengono assai della sire-
na Uà virile (3) e tra questi, oltre la caccia, il nuoto, la
corsa, il gittar pietre e il volteggiare a cavallo, il giuoco
della palla. Ancor nobile esercizio e convenientissimo
ad uom di corte, afferma il Castiglione, t> il giuoco di
palla, nel quale molto si vede la disposizione del corpo
(1) Alberti, ib. pag. 107-108.
(2) Biblioteca Scolastica di Classici Italiani, diretta ila Giosuè
Carducci: Il Cortegiano del conte Baldesar Castiglione, an-
notato ed illustrato da Vittorio Gian, Firenze, Sansoni, 1804.
(3) Ib., lib. I, cap. XXII, lin. 3, pag. 40.
— 89 —
e la prestezza e la discìoltura il’ ogni me, libro, e tallo
lineilo che in ogni altro esercizio si vede ( 1).
Ma se noi vediamo nell'Alberli e nel Castiglione chia-
ramente delineato l' intimo rapporto che corre tra l'in-
dividuo sano c forte e il cittadino buono e capace, non
troviamo ancora in essi per nulla congiunta l'idea del
cittadino perfetto con quella della patria.
La patria nell’animo degli uomini del Rinascimento,
se non forse nel Machiavelli, non esiste; e in quelli in
cui compare, essa rimane sentimento teorico, astratto,
derivato dal tempo antico: e tale rimarrà ancora per
secoli parecchi, fino al Leopardi compreso, e quasi vorrei
dir pili oltre. E sotto questo aspetto retorico — nè in-
tendo dire che la retorica debba escludere ogni sincerità
e profondità di sentimento — si presenta a noi in un
poeta, il quale tenta di mettere, nel pieno fior del Ri-
nascimento, l'uso dei ginnici esercizi in relazione colla
prosperità della patria. È questi Erasmo di Valvason, che
nel suo poema La caccia (2), volendo enumerare gli eser-
cizi coi quali si deve temprare chi vuol riuscir buon cac-
ciatore, par c’abbia sott’occhio i passi citati dell’Alberti
e del Castiglione (3). Deve il buon cacciatore signoreggiare
il sonno (4), contendere al salto e alla corsa (5), lot-
ti) lb., lib. 1, cap. XXII, liti . 11-14, pag. 50.
(2) Erasmo di Valvason, La Caccia, Milano, dalla Società
Tipografica de’ Classici Italiani, 1808, canto IV, strofe 27-34.
(3) Del resto finché rimangon lissi i principi etici, politici,
religiosi, estetici, ecc., dai quali sono emanati certi mezzi, gene-
rali o parziali, di educazione, non c’è ragione che questi abbiano
a variare : ecco perchè noi troviamo ripetuti in tutti gli scrittori,
che n’ebbero a trattare nel Rinascimento, i medesimi esercizi di
ginnastica utili all’educazione della gioventù, dall’Alberti al Ca-
stiglione e al Valvason, dal Tolomei citato dal Cian nel Commento
al Cortegìano (lib. 1, cap. XXII. nota 15, pag. 50) a Celio Cal-
eagnini nel passo dell’Orazione funebre di A. Costabili riportato
dal Hurckhardt. (Ed. cit., v. II, pag. 138, nota 2).
(4) Ib., strofa 27, vv. 1-4 e strofa 30, vv. 1-4.
(5) Ib., strofa 38, vv. 1-2.
— 90 —
lare (1), cavalcare (2), sopportar lame e sete (3) e giocare
alla palla (4). Quando però il poeta, passata in rassegna
la serie delle più utili esercitazioni, viene a dimostrarne
i vantaggi, non solo non si limita ad asserire che buon
cacciatore riuscirà chi le avrà praticate, ma spingendo lo
sguardo oltre il suo stesso argomento, vede che da quelle
maggiori vantaggi scaturiscono, poiché non solo ro-
busto e resistente esse faranno il cacciatore, non solo
anzi faranno forte e anche eroico e glorioso il cittadino;
ma saranno le basi della grandezza della patria :
Tra rigorosi ed aspri studi
Crebbero quei che i fondamenti alteri
Gettar ili Roma, di delizie ignudi,
Di fama e di valor ricchi guerrieri :
Questi son de {'Eroiche virtudi
I Iodati principi, i semi veri ;
Questi i sentieri son, <|ueste le scale
Onde di grado in grado al ciel si sale (5).
Ma noi sentiamo che la presenza di Roma in questa
strofa è, più che altro, una reminiscenza classica: dov'è
il pensiero della patria italiana? Pur tuttavia, per udire
un’altra volta che gli esercizi fisici son iodati principi
e semi veri d’eroiche virtudi e scale per ascendere alla
gloria; e più ancora ch’essi sono i fondamenti atteri
dei grandi Stati, dopo il Valvason, o, dirò meglio, dopo
lo scadere degli studi classici, bisognerà che passi qualche
secolo. Bisognerà che sorga il Classicismo cioè che rina-
scano un’altra volta gli studi e l’amore dell'antichità.
Poiché è inutile negarlo; in ogni tempo e in ogni
luogo l'amor della ginnastica per sé, come fonte di pia-
cere diretto, come mezzo appositamente usato per rinfor-
zarsi non solo, ma anche per educarsi e rendersi atti a
(1) Ib. , strofa 33, vv. 3-4.
(2) Ib., strofa 33, vv. 3-8.
(3) Ib., strofe 34, vv. 1-2.
(4) Ib., strofe 31 32.
(3) Ib., strofa 36.
— 91 —
viver bene e pienamente, sempre si vede spuntare ogni
qual volta risórge il culto delle cose antiche. Quando il
soffio del Rinascimento penetrerà anche in Francia a sve-
gliare le assopite energie neo-latine di quel popolo, il ri-
dicolo e pur serio Rabelais farà suoi i razionali criteri
pedagogici di Vittorino da Feltre; e vorrà che il suo
Gargantua, per riuscir un buon cittadino, sia educato
come il perfetto Cortigiano del Cinquecento. Così nella
sua educazione alternerà le occupazioni della mente con
gli esercizi del corpo, moderati e liberi, diretti appunto
a sollevare lo spirito stanco... Allorché egli ( Gargantua )
era completamente vestito..., per tre linone ore gii era
fatta lezione. Uopo uscivano sempre conferendo sugli
argomenti della lezione, e si diportavano a! Bracco (1)
o ai prati e giocavano alla palla, al pallori grosso, alla
pallacorda, galantemente esercitando il corpo, come
avevano esercitato lo spirito. Giocavano con piena li-
bertà e. lasciavano la partila (piando loro piaceva : ordi-
nariamente smettevano (piando cominciavano a sudare
o s* erano stancati. Asciugati e stropicciati cambiavano
camicia e camminando dolcemente andavano a vedere
se il pranzo era pronto. E là, mentre aspettavano, re
citavano chiaramente ed eloquentemente alcune tra le
sentenze ritenute dalla lezione (2).
Mi par dunque lecito conchiudere che gli uomini del
Rinascimento facevano della ginnastica una stima quasi
eguale a quella che n'avevano gli antichi. Ma una volta
cominciati a decadere gli studi classici, scadde pure la
stima e la pratica degli esercizi, tanto che il Seicento,
teoricamente almeno e secondo il concetto antico, non
ebbe più nò l’una nò l’altra.
(1) Così chiamavasi un luogo (love si giocava al pallone, per-
chè aveva per insegna un bracco.
(2) Rabelais, Garqantna, cap. XXIII della traduzione ita-
liana di Janunculus, Napoli, E. Schena, 1887, pag. 70-71.
CAPITOLO II.
Divisione in gruppi dei componimenti che lian per soggetto il
giuoco «Iella palla. — Gruppo I [La letteratura dei trattati].
Antonio Scaino, Francesco Saverio Quadrio, Tommaso
Rinuccini.
La letteratura del giuoco della palla non è presso
di noi copiosissima; ma per .l’importanza di alcuni scrit-
tori che ne trattarono e per l’eccellenza dell'arte con cui
ne trattarono e ancora per la varietà o natura delle con-
siderazioni a cui può dar luogo, merita una speciale
trattazione. E affinchè questa proceda con ordine e chia-
rezza, mi è parso conveniente raggruppare i componi-
menti, che da quel giuoco traggono argomento, secondo
l’affinità del genere o la comunanza dell’origine. li ne
risultò la seguente divisione:
1. " Trattati che meritano speciale considerazione per
i ineriti letterari.
2. " Poesie ch’ebbero origine da traduzioni italiane
d’un episodio delle Metamorfosi d'Ovidio.
3. " Liriche d’imitazione Pindarica e in generale scrit-
ture encomiastiche del giuoco.
4. ° Poesie e prose satiriche o burlesche che fanno del
giuoco argomento della propria trattazione o traggono
da esso elementi intrinseci d'arte o solo elementi estrin-
seci rappresentativi.
— 93 —
Cominciamo dunque dai trattati, anche perchè essi
ci potranno fornire intorno alle diverse specie di giuoco
schiarimenti necessari per l’intelligenza degli scrittori.
Il trattato classico del giuoco della palla è quello di An-
tonio Scaino da Salò, filosofo non spregevole ai suoi
tempi, commentatore di Aristotele, di cui pubblicò tra-
dotta e annotata V Etica a Nicomaco (157-1) (1). Il trat-
tato, stampato a Venezia dal Giolito nel 1555 (2), ebbe
origine da un puntìglio avvenuto giocando all’ Ulano
et eccell.ma Signore il Signor Alfonso (l'Est e prette ipe di
Ferrara, a cui appunto è dedicato con la più smaccata
cortigianeria.
/>t cagione, dice Scaino nella prefazione, che mi ha
mosso a scrivere la presente opra, nacque da desiderio
di sodisfare in un ingeniosissimo quesito ad uno dei
più magnanimi et valorosi prencìpi che hoggkl) habbia
il secolo nostro, che olirà all'essere da Illustrissimo e
regni sangue disceso e in que ’ virtuosi modi contino-
r amen te nodrito, che a pianta s'appartengono, da cui
frutti oltre all'usato eccellenti s’hanno ad aspettare,
ù di natura affabile tanto, di maniere cosi alte e tanto
cortesi, che come potentissima calamita traggono infi-
niti ad amarlo e servirlo e celebrarlo (3).
E continua su questo tono con insoffribile adulazione.
Ma era quello — e non solo quello — il secolo della
letteratura cortigiana, nè è da meravigliarsi se lo Scaino
non fa eccezione. Io ho voluto farne rilevar l' esagera-
zione, per dimostrar quanto impegno e quanto ingegno
l’autore vi avrà messo per far opera degna del suo si-
gnore e adeguata alla sua devozione per lui. C’abbia
(1) Tiraboschi, Storia della Letteratura Italiana, Milano, So-
cietà Italiana dei Classici Italiani, 1824, v. VII, pag. CIO.
(2) Trattato del giuoco della galla, di Messer Antonio Scaino
da Salò. In Vinezia appresso Gabriel Giolito de’ Ferrari et fra-
telli, MDLV.
(3) Prefazione ai lettori.
— 94 —
intanto fatto opera seria e compiuta lo dimostra una
breve analisi del contenuto di essa.
Il trattato si divide in tre parti.
La 1." si compone di 54 capitoli e tratta del modo
generale del giuoco, della sua ingegnosa disposizione e
delle leggi elio lo devono regolare.
La 2." contiene 72 capitoli e, dopo aver diviso il giuoco
nelle sue diverse specie e stabilito il punto in cui esse
convergono e quello in cui differiscono, dà precetti ai
giocatori intorno al modo di fare il giuoco e norme e
consigli per acquistare in esso valentia e faina.
La 3." finalmente, più breve delle altre perchè com-
posta di soli 9 capitoli, studia i salutari effetti dell’e-
sercizio, dà regole intorno alla scelta ili una forma o
dell'altra di esso secondo la natura, l'età e le compli-
cazioni della persona e secondo il tempo e il luogo e
l'uso del giuoco, terminando col dimostrare il grande
giovamento che esso arreca.
Insomma, non v’è forma, non maniera, non regola
del giuoco che l'autore non abbia esaminata e stabilita;
non v’è uso, non questione, non astuzia ch’egli non abbia
considerato, o risolta, o suggerita ; nulla gli sfugge ;
tratta la materia con rara conoscenza , quindi con pa-
dronanza, con acume, con metodo rigoroso. Al metodo,
anzi, egli ci tiene sopratutto; non per nulla egli è am-
miratore di Aristotele e seguace delle sue dottrine. Per
conseguenza non solo qua e là fa appello all'autorità
del grande Stagirita, ch’è per lui veramente il maestro
di color che sanno (1), e chiede venia colà dove si vede
costretto ad allontanarsi dai suoi insegnamenti (2); ma i
0) .Vè noi incero così facile trooeremmo la da al Jilosofarc,
quando dei sodi et di ci ni liti ri di Aristotele mancassimo i pag. 187).
(2) Et se (per dire di' un particolare, di cui i dotti potrebbero
far gran capitate) io paressi ad alcuni non ossercator del me-
todo d' A ri dolete, eh' insegnò molto tiene che ad ogni trattato si
procelti del maestro applica in pratica, nella sapienti' di-
visione e distribuzione della materia, nelle fini sottigliezze
del ragionamento, in quelle astrazioni e generalizzazioni
di concetto, in cui ancor si sente l’influenza della non
spenta dialettica scolastica. E un po' per compiacere al
principe, come sopra bo detto, un po’ per amore del suo
soggetto; ma sopratutto per questa tendenza al filoso-
fare e per una certa qual pretenziosità peripatetica, fau-
tore cerca, quanto più può, di inalzare la dignità del
proprio argomento. Per esaltare infatti i reali benefici del
giuoco egli lo proclama ordinalo ad ottimo e pregevo-
lissimo fine, si come han da essere latte le arti degne
e pregiale ad imitazione della natura (1) e ne là da
cima a fondo, si può dire, la glorificazione.
I.a monotonia poi della trattazione qua e là varia con
considerazioni generali, con avvicinamenti inaspettati,
con conclusioni impensate. Ora vede nel giuoco l’imma-
gine della nostra vita travagliosa. Et non solamente a
■me pare che questo di lui (del giuoco) si possa dire:
ma che ancora chiunque teologicamente volesse con-
templare, da questo giunco possa prendere norma et
esempio sopra la vita nostra, potendoci pia altamente
speculando, considerare, che lo steccalo, dove si giunca,
chiuso d’ogni intorno da mura, et da sbarre, non è
altro che questo travagliato mondo, nel quale siamo
posti noi, che tutti giuncatovi siamo, con, una corda
posta in mezzo, cioè col freno, et con il termine detta
temperanza o mediocrità, o per dir meglio della giu-
stìzia fonte d’ogni bene, nella quale mirando sempre
con gli occhi fissi, dobbiamo molto ben considerare di
debba mandar incanti la de/ìnitione della materia, che si tratta,
Ime indo io, non nella te /mete, ma nella ih", data la dell nàtone
del giuoco della palla, questo tale si proponga innanzi l’arte della
musica, con la (piale, s'io non m'inganno, conviene molto la pre-
sente opera (Prelazione ai lettori).
(1) Parte I, cap. 1, pag. 11.
- 06 —
non mandar In palla troppo alta-, che si soverchierei-
hono le mura ; non fare i disegni troppo alti e sopra Ir
forse nostre; nè anco sotto la corda troppo bassi, ter-
restri e riti; nè trapassare i termini , che a tutti questi
modi saria fallo et perderebbesi it giuoco ere. (1).
Dove, oltre la proprietà dell’applicazione, è anche da
ammirare il felice intreccio del linguaggio proprio col
figurato. E cosi ancora parla della fortuna, i cui colpi
devonsi ribattere, e dell’eccellenza del giuoco, che è come
la pietra rii paragone' por conoscere dal rotto, dai gesti
e dalle parole rie/ giocatore (come se la e/Jige di se me-
desimo iti un lucidissimo specchio riguardasse) tulli
gli effetti intrinsechi, e delle repubbliche, da cui si deve
tener lontano l’ozio (2).
E la sua tendenza alle astrazioni e alle imagini si
rivela anche nella soluzione dell' ingegnosissimo pun-
tiglio da cui trae origine il suo libro. Nel giuoco della
palla son tre vittorie: la semplice, la doppia e la tri-
plice o rabbiosa (3); e, secondo il linguaggio dell'autore,
il giuoco semplice è disposizione a guadagnar il doppio
e il doppio è disposizione a guadagnar il rabbioso (4);
il che è quanto dire nel nostro caso, che per aver la
vittoria triplice è necessario che l’avversario sia per
vincere la doppia. E poiché lo spagnuolo (la questione
è tra un napoletano e uno spagnuolo) non fu mai in
disposi sione di doppio, il napoletano non può aver gua-
dagnato il rabbioso.
Pub ben il napoletano girsene glorioso.... non perciò
conseguire maggio)' premio di un grado di vittoriu che
l’ordine del giuoco non comporta. Nè per questo o do-
lere o meravigliar si deve; chè il sole ornamento di
(1) Parte I, Proemio.
(2) Parte I, Proemio.
(3) Parte I, cap. 2, pag. 18-19.
(4) Parte I, cap. 15, pag. 50.
— 97 —
tutto it mondo, così beilo c così potente pianeta, non
può coi suoi potentissimi raggi fare che la cera s’in-
duri, nè il fuoco consumar l’oro, essendo quasi d’ogni
cosa decoratore; il che proviene non dai sole, non dal
fuoco, ma da inhabili soggetti, ne' quali operazioni
loro repugnanti non si possono produrre (1).
Anzi talvolta la smania del filosofare lo porta a di-
gressioni inutili. Per dimostrare come stia ben rinchiusa
la rittoria del giunco delta palla in tre gradi soli, cosi
ragiona: Fu... terminato il grado della vittoria in tre
gradi solamente , non per altra cagione, se non perchè
il numero ternario è numero nobilissimo da Aristotele
nel I. libro del Cielo som marnante commentato, come
quello eh 'è il tutto, et è perfetto, traendo in sè il prin-
cipio, il mezzo et il fine. Per questo si divide et si
comprende tutta la macchina del mondo in tre termini,
ne/li duoi Poli, ciò è l’artico, et l'antartico , parti in-
sieme molto differenti, come altissimi, et profondissimi
estremi, et nel mesa di esso mondo, detto il centro del-
l'Universo (2). E così per circa due altre pagine!
Anche lo stile ha tutte le sue cure. Fin dalle prime
linee della sua opera egli manifesta il timore di non
saper lui, non Toscano, trattar bene la lingua toscana.
Dello stile, havendo noi lettori riguardo alla corretta
lingua I /toscana, et dell uso proprio et isquisito di
scelte parole, potrete facilmente non restar sodisfatti ;
ma considerando poi come io, et non naturale di tale
lingua, e trattando di materia nuova, non ho potuto
nè forse dovuto ristringermi tra termini, i quali, la
difficoltà grande della cosa, molto maggiore anchora
mi rendessero, sarete contenti, con pati enti orecchi (? ?),
il tenor della materia, et non delle parole, leggendo,
giudicare (3).
(1) Parte I, cap. 16, pag. 54.
(2) l'arte I, cap. 9, pag. 37.
(3) Nella dedica ad Alfonso verso la fine.
— 98 -
E promette di far del suo meglio, per riuscire, anche
nello stile e nella forma, il meno biasimevole con
quei radili, et nini colori che del mio (qualunque si sia)
artificio panno venire, mi sforzarti questa invenzione
ornando colorire, dandole quella piti perfetta forma
che per me si potrà (1).
Colorisce quindi il suo stile, 1* adorna con immagini
scelte, l’ abbellisce con peregrine eleganze, lo varia,
come s’è visto, con digressioni più o meno opportune.
Ma in questo suo studio continuo, in questa preoccu-
pazione che non gli dà pace un sol momento, sta appunto
uno dei suoi difetti principali. Quelle soverchie fioriture,
quelle preziosità volute, quelle immagini messe li a ogni
costo, quelle studiate costruzioni inverse a breve andare
finiscono per tediare; troppo spesso vien voglia di gri-
dargli di discendere dai trampoli, su cui è salito per
inalzare il suo soggetto oltre ogni ragione.
Tuttavia, non ostante questo difetto, non ostante la
frequente prolissità prodotta dal dividere, suddividere e
distinguere secondo il metodo aristotelico-scolastico, non
ostanti certe iperboli di forma e di concetto che pre-
ludono al non lontano Secentismo, il libro dello Scaino
per la conoscenza profonda della materia, per la serietà
e diligenza della trattazione esauriente, por l’ingegnosità
del porre e risolvere ogni minima questione e ogni
minimo dubbio, e anche per i pregi non trascurabili della
forma e della lingua, che risente il benefico influsso
del seco! d'oro della nostra letteratura, rimane sempre
il trattato più completo ed eccellente del giuoco della
palla e si leggerà sempre con piacere discreto e con
profitto grande. Chi non lo volesse credere a me, lo creda
al De-Amicis, il quale, nessuno me lo vorrà negare, di
bello scrivere alcun poco se ne intende (2).
(1) Parte II, Proemio.
(2) Gli Azzurri e i /{ossi, Torino, I’. Casanova, Editore, 1807,
pag. 2G-27.
L’opuscolo (1) dell’abate F. S. Quadrio intorno alla
sferistica degli antichi sarebbe appena accennabile, se
non Cosse del famoso autore della Storia e ragion (Vogai
poesia. Esso è in forma di lettera indiritta al marchese
D. Teodoro Alessandro Trivulzio, ed è pieno della solila
erudizione, che già si trova nei trattatisti anteriori. V’è
per conseguenza ben poca originalità; solo vi sono qua
e là ipotesi nuove, alcune delle quali furon da noi accet-
tatee altre confutate. Notevole è però in lui il grande amore
che dimostra d’avere al giuoco di cui tratta e la grande
afflizione nel vederne la decadenza. Decadenza che l’af-
fligge» non tanto per il giuoco in sè, quanto per gli ei-
f etti tristi che ne derivano. Il mondo peggiora, le
malattie si moltiplicano, i corpi in afflizione e per
dolor si consumano. Ma quando si fatti morbi hanno
preso potere, e fatta si gran Montala nel mondo, se
non dopo la dissipatrice de' cattivi umori, la sciogli-
le ice di tulle le viscosità, la corroborai idee delle membra,
l’antica, egregia e bell’arte della « sferistica » è stata
per accidiosa freddezza abbandonata e negletta ? (2). E
se ne duole oltre modo il buon aitale e se ne lamenta:
Questa à (la sferistica) che l’oziosità, la pigrizia e le
piume avendo sbandita, io però con rincresci mento, e
dolore non tralascio di desiderare e piangere. E solo
si conforta pensando che a tanti mali che affliggono la
povera umanità c'è però un rimedio infallibile. Se gli
uomini ritornassero a praticare la sferistica, se gl’in-
considerati tra sè riconducessero quel talismano che con
.( 1 ) Lettera intorno alla sferistica ossia Giuoco della /mila
degli antichi., al Marchese D. Teodoro Alessandro Trivulzio iu-
diritta dall aliate Francesco Sa vento Quadrio. Milano, Stamperia
di A. Agnelli 1751. fc dunque opera senile del Quadrio, il quale
nel 1751 aveva 83 anni essendo nato nel 1668.
(2) Pag. 3 e 4.
— 100 —
il loro danno han da sò rimosso, anche se al manda
fasse perduto agni bene, crede l’autore che senza fallo
si ritroverebbe in quell’arte di g inorare alla palla, che
sferistica fu dai Greci nomata (1).
E allora egli con calde parole esorta il marchese
Trivulzio non solo a introdurre c favorire il dilettevole
e utilissimo gioco (2); ma a praticarlo lui stesso e farlo
praticare dalla marchesa sua moglie (3), che egli para-
gona alla bolla figlia d'Alcinoo. E conchiude: Ed io cosi
per tutti i riguardi venendo poi nella ■ vostra casa a
ri scontrar compiutamente la casa rii Alcinoo, potrò
con tal nuovo esempio altri molti destare a sì nobile
dilettevole e sano esercizio: onde ritorni il giuoco della
palla in quell' antica estimazione, della quale fu già
negli ottimi secoli pacifico possessore : e la quale gli
sarà in tutti i tempi a ragione dovuta.
Come si vede il Quadrio è un caldo apologista del giuoco
della palla: tanto caldo che esagera cosi nel calcolare e
deplorare i danni della decadenza come neH'esaltaro le
sue meravigliose virtù. Quindi il suo ci fa Tuffetto d’un
entusiasmo a freddo; tanto più che da segni certi pos-
siamo sapere che il giuoco, così diffuso nell’Italia cen-
trale, non era poi tanto raro nell’Italia settentrionale.
E questo calore forzato influisce anche sullo stile, un
(1) Pag. 5.
(2) Pag. 93.
(3) Pag. 94. Perchù l'autore vorrebbe veder praticato il giuoco
della palla anche dalle donne: /*.' volesse r pur elleno, in incrimino
rii altri giuochi arrischiati, et oziosi, gli antichi giuochi della
palla riprendere e praticare : che non sarehbono tante in oggi
obbligate a giacer nei tetti dai superflui e viscosi umori trava-
gliate e convulse: amaro gratto delta sedentaria e leziosa vita,
che menano : et per avventura altresì in gualche famiglia non si
vedrebbono signoreggiar l'indigenza e le brighe, infelicissimi parti
degli zarosi e vietati giuochi, che la vanagloria di alcuni e l’acidità
di molti più altri hanno ai nostri tempi introdotti (pag. 92). Ed
è noto quanto corrotta e oziosa fòsse la vita delle dame alla
metà del sec. XVIII.
- 101 —
po’ enfatico, retorico e studiato. L’opuscolo però del
Quadrio sarà sempre utile a quanti vorranno apprendere
in breve gli usi e le forme del giuoco presso gli antichi.
Alcune poche notizie, che di vari giuochi con la palla
ci da il cav. Tommaso Rinuccini descrivendo le princi-
pali usanze dei Fiorentini del suo tempo, non occorre-
rebbe neppur rilevare, se i pregi della forma, che me-
ritarono a quest opuscoletto l'onore d' esser registrato
dalla Crusca tra i testi di lingua, non lo rendessero degno
d’essere indicato al buon gusto dei lettori. L’ opusco-
letto ha per titolo Usanze Fiorentine del secolo XVII
e, pubblicato per la prima volta dal signor Aiazzi nel
1840 in poche copie non mai messe in vendita, comparve
veramente al gran pubblico degli studiosi nel giornale
Il Borghini (1) di Pietro Fanfani, il quale, buon intenditoi 1 2 3
di cose filologiche, tra le altre ragioni di pubblicarlo,
confessa d’avere avuto anche quella di far piacere agli
studiosi di lingua , ai raccoglitori di testi citati dalla
( r usca (3). Lo Usanze infatti sono scritte con garbo pia-
cevole e con spontaneità semplice e veramente fiorentina;
inoltre le notizie, che se ne attingono, sono chiare, pre-
cise e alcune singolari e curiose, sicché se ne desi-
dei erebbe quantità maggiore di quella che ce ne fornisco
la mole esigua del trattateli. I giuochi con la palla, che
vi troviamo menzionati, sono quelli della palla lesina,
della pillotta, del maglio, del palloncino, del pallone a
bracciale e del calcio (3).
Della prima discorre più a lungo, perchè, dice, è un
giuoco dismesso e spento (4). A r i si giocava per tutte
(1) Il Borghini, studi di filosofia e di Lettere Italiane com-
pilati da Pietro Fanfani. Firenze, stamperia del Monitore To-
scano, 1863, anno I, marzo, aprile e maggio del 1863.
(2) Ib., Ai lettori, pag. 199.
(3) Cap. 10, Giuochi di trattenimento, pag. 241 e se ,r ir
(41 Ib. pag. 241.
— 102 —
Io strade, perche i ragazzi nòbili del vicinato si met-
tevano insieme doppo al desinare e mandavano al tetto
pia comodo della loro strada : ma tre tanghi erano più
frequentai i et erano nella via del Pepe, nella ria del
Corno e nella ria Benedetta (1) Le palle erano, come
lincile che ancor si vedevano in uso pochi anni or sono,
della grandezza d’una piccola pesca o albicocca, fatte
di pelle di castrone ben seccata e ripiena di borsa (1)
e, battute con un mestolo d’un braccio circa o poco pia,
di legname leggero e incartato di carta pecora (1), fi-
lavano con tanta velocità che narra l’autore d’aver visto,
quando lui era ragazzo, Pietro Berti ammazzare una.
rondine che a caso s'incontrò nella palla, alla quale
lui aveva dato : e segui nella via dei Bardi (1).
Alla ]>illotta si giocava in Pacione, che avremo ancora
a nominare, o lungo il muro del convento di S. Marco
dalla banda delle stalle di S. A. S. (2); ma di questa,
come anche delle rimanenti forme di giuoco, non dice più
gran che di notevole: lamenta anche lui, come il Quadrio,
sebbene con minore insistenza e con minore enfasi re-
torica, la loro decadenza; e osserva a varie riprese che
ormai ... pochi sono i gentiluomini che ri si dònno (3).
L’unica informazione un po' interessante è ancora per
noi quella che riguarda il giuoco del calcio: il quale
come antico nella città si procura di mantenere nel
carnorale (3). Donde appare, che al tempo del Rinuccini
era ancora in vigore quell’usanza, tutta fiorentina, d’uscir
negli ultimi di del Carnovale col pallone per darlo ad-
dosso alle persone per le vie della città e far sospendere
i traffici e chiuder le botteghe: usanza che noi vedremo
accennata in una poesia del Lasca e troveremo lamentata
nella storia del Varchi.
(1) Ib., pag. 241.
(2) Ib., pag. 242.
(3) Ib., pag. 243.
CAPITOLO III.
Gruppo li [La letteratura mitologica del giuoco della palla de-
rivata dall’episodio ovidiano di Giacinto tradotto da Gian
Ano ni', a Dki.l’Anguii.lara]. Il mito di Giacinto in Ovidio
e nell Anguili. ara ; Ovidio e le condizioni letterarie del
sec. XVII; partigiani e avversari della Mitologia (Marino e
Bracciolini) — Il Marino, il Prrti el’Omzzi. — Il F agutoli.
Sebbene il disco antico fosse ordinariamente una
piastra o rotella di metallo o di pietra o di legno, a cui
si giocava lanciandola alla maggiore altezza e distanza,
non mancano tuttavia i dotti che opinano che esso fosse
invece una sfera. Il Suterio, per esempio, nella sua
dissertazione sopra i giuochi degli antichi, riassumendo
le varie conclusioni degli eruditi intorno alla forma del
disco, nelle diverse definizioni che ne dà, una sola volta
dice: Discus crai rotala quaedam lignea apud Romanos
(e si noti anche / apud Romanos) instar scali magni
ponderis (1); tutte le altre volte usa le seguenti espres-
sioni: Discus fari orbis(2): Volami et discou ut plurima m
faisse la p idem rotundam e, finalmente, riportando le pa-
ti) Domiclis Souterii: Palamedes, llb. Ili, De ludis cariis
(Iraecorum nel Thesaurus Graecarum ariti qui tal nm, contextus
et designatus a T. Gronorio, v. VII, col. 1098 e segg.
(2) Ih., col. 1099.
— 104 —
role d’uno scrittoi- più antico: Diseus fi' il instar pila,'
aeneae (1 ).
Furono indotti da questa qualsiasi somiglianza del
disco con la palla i più antichi traduttori di Ovidio a
sostituire nel libro X delle Metamorfosi al giuoco di
quello il giuoco di questa? oppure dal l'atto che il disco
al loro tempo non s’usava più e la palla invece s'usava
più che mai in quel pieno flore del Rinascimento? Forse da
alcuna di queste ragioni e dall’ultima più che dalle prime;
forse da altre che sfuggono alla nostra indagine; ma
latto sta che nei primi traduttori di Ovidio, il giuoco
del disco diventa un giuoco della palla. Ovidio aveva
detto :
Corpora veste levant (Apollo e Giacinto) et succo pinguis olivi
spleiulescunt latique ineunt certamina (lisci (2).
E Niccolò degli Augustini (1537) traduce:
Anche un giorno che sendo in un loco
ambi spogliati per voler giocare
ad un lor a quei tempi (f) usato gioco
che dalla palla si solea chiamare... (3).
Circa mezzo secolo dopo il Degli Augustini, Gian
Andrea dell’Anguillaia, nella sua parafrasi delle Meta-
morfosi, fa la medesima sostituzione della palla a!disco(4);
(1) Alexand. ab. Alex., Ili, 21. Cfr. inoltre Mercuriale, De
Ginnastica ete., in loe., cit., lib. Il, cap. XII, De Disco et Halte-
ribus, col., 572 e segg., e specialmente coll. 573-576, e Jacoiii Uri-
foli Lucinianensis, In Q. Iloratii Poeticeli commentimi. Ba-
sitene per Henricum Retri, Mense septombri, MDLV, pag. 1184.
(2) Metamorfosi , X, vv. 176-177.
(3) Di Ovidio, Le Metamorfosi tradotte dal latino diligente-
mente in \olgar verso, con te sue Allegorie, significati ’oni et
dichiarationi in prosa, ecc., ecc., per Nicolò degli Augustini,
stampato per Bernardino di Bindoni Milanese correnti gli anni
del Signore, MDXXXVIII.
(4) Le Metamorfosi d’OviDio ridotte da Gian Andrea I)al-
l’Anguillara in ottava rima. Al Cristianissimo Ite di Francia
Enrico II. Di nuovo dal proprio autore rivedute e corrette. Con
— 105 —
e. indugiandosi a descriverò con una corta abbondanza
di particolari il giuoco di quella, diede occasione a una
discreta letteratura della sferistica.
L'episodio in cui avvenne la sostanziale modificazione
è quello della morte .li Giacinto. Era questi un bellis-
simo fanciullo di Sparta (1). Apollo l’amava e in sua
compagnia lieti- giorni trascorreva a Sparla, ora pe-
scando nell’Eurota, ora cacciando su per lo balze del
Iaigeto, oblioso di Delfo e poco curante della cetra o
( elle saette. Ma un triste giorno i due innamorati, de-
posta la veste e untisi d’olio, giuocano al disco. Lo lancia
Apollo fino alle nubi; ricade il disco dopo lungo tempo,
prova d invitta forza congiunta con l’arte.
1 rotinus imprudens, actus.pie cupidine ludi,
I oliere I oenarides orbem properabat : .at illuni
l>ura repercusso subiecit ab aere tellus
In vultus, Hyacinte, tuos; expall uit aeque
ac puer, ipse deus collapsosque excipit artus (2).
E ora lo riscalda, or gli terge la ferita sanguinante,
or gli prolunga la vita con la virtù delle ben note erbe.
\ ana ogni cura: la ferita è immedicabile: il bel Giacinto
le Annotati oni di M. Giuseppe Horologii, con Postille et i/li arao-
ment, nel principio di ciascun libro di M. Francesco Zucchi. Ve-
netia appresso .Marc’Antonio Zaltieri, MDXCVIII
(1) Ovidio lo chiama Andclide.Se il patronimico significhi figlio
discendente di Annoia, non son tra loro d’accordo gl’interpreti.
Lo stesso poeta e altri lo chiamano pure Ebalide o Kbalio cioè
figlio o discendente d’Ebalo od oriundo d’Ebalia, fondata da Elmlo
Ma siccome Ebalo fu figlio o pronipote di Amicla, forse si deve
ntendere che Giaciuto fu figlio d’Ebalo e discendente di Amicla
Gfr Pausània Aaeonw, IH, 3, e III, 19 e III, 6, Apollodoro,
"‘Ti’. ’ ll,:! ’ 3 e *’ 3 > 3 > * 1 2 (dove però lo confonde con
Giacinto figlio di Piero e di Clio) ; e Igino fav. 272 e finalmente
V.rgiuo hn. XI, 69 e Eglog. Ili, 63, con il commento di Servio
(.Marci StRvn IIonorati, Commentarti, Genevae, apud Stefa-
num Gamonetum, MDCIIg
(2) Mei., vv. 182-186.
— 106 -
si muore, mentre il Dio sfoga il suo dolore in disperali
accenti. Finalmente, perchè del diletto fanciullo rimanga
degna e soave memoria, lo tramuta in flore :
Kcce cruor, qui l'usus liumi signa verat herbam,
Desinit esse cruor; tyrioque nitentior ostro
Flos oritur; formamque capit, quam lilia, si non
Purpureus color liuic, argenteus esset in illis (1).
Anzi, l’afflitto Iddio vuol di più: il flore porti per sempre
sopra di sè la dolente esclamazione del suo dolore e
Ai! Ai! rimane inscritto sui suoi petali (2).
(1) Ib., w. 210-213.
(2) Come Apollo predice a Giacinto ( Metnm ., X, vv. 207-208):
Tempus et illud erit, quo se fortissimus heros
Addat in hunc florem folioque legatur eodetn,
tostochè Aiace Telamonio ebbe sparso il suo sangue,
... Rùbelactaque sanguine tellus
Purpureum viridi genuit de cespite llorem,
ijui prius Oebalio fuerat de vuluere natus:
Littera communis mediis pueroque viroque
suscripta est foliis : liaec nominis, illa querelae (Mei. XIII,
[vv. 394 398).
Il mito di Giacinto, rimasto famoso anche per le feste che
in Sparta ogni anno si celebravano in suo onore (annum praelata
redeunt Hyacintia pompa, Metnm. X, v. 219), ricorre spesso negli
scrittori classici. Lo ricorda Euripide nella tragedia lìlena dal
verso 1465 al 1475. Virgilio, già lo vedemmo, ne ha due cenni fug-
gevoli al verso 63 dell’Egloga III e al 69 del Canto XI de\V Eneide.
Plinio ricorda la favola di Giacinto e la intreccia con quella di
Aiace (21-11). Marziale la cesella con la solita maestria in due
distici: il CI.XIV del lib. XIV:
Splendida cum volitant Spartani pondera disci,
Este procul, pueri: sit semel ilio nocens,
e il CLXXIII del medesimo libro:
Flectit ab invito inorientia lumina disco
Oebalius, Phoebi culpa dolorque, puer.
Presso Luciano (lib. Vili Dialotjld dei morti, n. 14) Apollo
racconta a Mercurio la disgraziata fine di Giacinto, ch’egli col-
loca ai Campi Elisi con Xarciso, Leda, Elena e altri famosi per
— 107 —
Questa la favola di Giacinto. L’Anguillara, nel para-
frasarla, è sorpreso talvolta da qualche scrupolo : sosti-
tuir del tutto la palla al disco, gli par troppa licenza :
s’appiglia quindi al mezzo termine e, nella sua tradu-
zione, accanto alla palla, nomina più volte il disco:
Poi ver la sera innanzi al tempo alquanto
Che suol col cibo all’uom render conforto
talvolta il piombo e ’l disco alzavan tanto,
Che facevano alle nubi oltraggio e torto:
Talor con la racchetta, ovver col guanto
Calle di cuoio battean per lor diporto,
Finché l’ora venia che con le cene
Brama di ristorar Cavare vene(l).
insigne bellezza. Ma compare qui una circostanza che vedremo
t i pernia in altri scrittori posteriori. /Seffiro ò anche lui innamorato
del bellissimo fanciullo e soffre di vedersi preferito ad Apollo. Quel
giorno che li vede giocar insieme felici, acceso di gelosia, soffia
violento dal l'aigeto e spinge il disco contro il capo di Giacinto,
uccidendolo.
In un volumetto già appartenuto ad Apostolo Zeno e ora
nella Marciana di Venezia, che contiene quattordici opuscoli di
poeti diversi stampati tra il 1612 e il 1615, in un idillio del ca-
valier Marino (TI rapimento d'Europa e il Testamento Amoroso,
idilli del signor cav. G. B. Marino, Venetia, Trivisan Bertolotti,
1612, pag. 9) si legge :
11 vezzoso Giacinto
Libro della natura.
Nei fogli delle foglie,
Già cancellata dagli antichi lai
La pietosa scrittura,
Tutto per man d’amore
Lineata a caratteri di sangue,
Espresse queste note in un sorriso:
Io cedo al tuo bel viso.
Il mito di Giacinto, naturalisticamente interpretato, sonerebbe
cosi: Il disco lanciato da Apollo è il disco solare: il giovane
principe (Giacinto), dal cui sangue nacque il fiore, che sboccia
in primavera e appassisce d’estate, é immagine della fresca
vegetazione primaverile, i cui fiori arsi dal raggio estivo chinano
il capo e muoiono (A. G. Amatucci, ITellas, (il. Laterza, Bari
1907, v. I, pag. 38, nota I).
(1) Canto X, Strofa 77.
r
— 308 —
E subito più sotto:
... Sendo lo Dio nello steccato un giorno
Per far col disco e la racchetta il gioco... (1).
E ancora:
...Ma quel che ha nella caccia alcun vantaggio
Fa con maggior superbia al disco oltraggio... (2).
Finalmente il disco ancora una volta compare nel
ptinto culminante dell'azione, quando appunto si compie
il fatto lagrimevole del povero fanciullo:
Mentre il garzon vi va (alla pallaj gli manca un piede
E nel cader ferir sente la tempia
Dal disco empio e crudel... (3).
Ma son queste solo comparse di parata: poiché, pure
avendo sotto gli occhi la parola disco, noi non pensiamo
al giuoco antico caro ai robusti efebi, ma alla palla
e al giuoco che con essa si fa: infatti l’intera descri-
zione del sito, del modo, delle norme e degli episodi ci
richiama in mente solo il giuoco della palla.
Giacinto infatti ha un giuoco da racchetta cinto da
quattro muri (4); quando si mettono a giocare, maiala
egli la palla (5). Lo Dio
^Con l'accorta racchetta a lui la rende (6).
cosa che non avrebbe potuto fare col disco; poscia
or l’uno or l’altro il cuoio offende
E fa ch’ognor sopra la corda vada ;
Fin ch’un la il tallo o in modo il tondo scaccia,
Ch’u forza in terra fa segnar la caccia (7);
(1) I b-. Strofa 79. vv. 1-2.
(2) Strofa 82.
(3) Strofa 85.
(4) Strofa 78.
(5) Strofa 79
(6) Strofa 80.
(7) Strofa 80.
— 109 —
che son tutte regole e usi di un giuoco con la palla;
o più volte ritornano l’espressioni di colpire, battere,
ilai e, che indicano atti, che col disco non so come si
poti ebbero lare, lutto insomma concorre a rappreseli -
tacci una bella partita di palla e il disco non viene in
scena, se non per dimostrare la sua vanità senza soggetto.
Non v'è dubbio quindi che l’autore aveva in animo di
descrivere il giuoco della palla; e se talora gli ritorna
alla mente l'immagine del disco, un po’ è per riguardo
al testo, un po' forse anche perchè una pallonata che
uccida gli par realmente troppo formidabile. Ma la tras-
formazione d'un gioco nell'altro realmente c’è ed è una
Prova della troppa libertà usata dall’Anguillara nel tras-
portar nel nostro idioma le bellezze del capolavoro ovi-
diano: della qual libertà fu con ragione biasimato. Ep-
pure la sua, o traduzione o parafrasi, considerata in sè
indipendentemente dalla fedeltà all’originale, è ricca di
grandi pregi formali. Uno .lei più notevoli è l’evidenza
delle descrizioni, che dànno la visione esatta e imme-
diata anche de! più minuti particolari. Reco come descrive
l'impegno che i due giocatori ci metton nell’acquistar la
vittoria :
Con gran giudizio l’uno e l’altro mira,
Qual colpo il segno, il caso e’1 loco chiede:
K l’occhio esperto che al vantaggio aspira,
Ubbidiente là la mano e il piede :
Or fa che cresce innanzi, or si ritira
Con leggiadria, dove il bisogno vede :
E l’uno e l’altro v’è si bene istrutto,
Che par che non si mova ed 6 per tutto (1).
Chi ha un po' di pratica del giuoco può vedere quanto
vera e precisa sia questa descrizione, che vi mette sot-
r occhio i minimi atti e gesti e movimenti e sentimenti
dei giocatori. Si vede che l’autore descrive una cosa
(1) Strofa 81.
- 110 -
che ha egli stesso bene osservala e tutta accolta nel
pensiero, tanto più che nel testo essa non c'era ed egli
1’aggiunge del suo. Del resto in tutta la descrizione,
dalla strofa 78.“ alla 85.“, egli sa segnalare del giuoco e
norme e usi e regole come persona che n’è buon co-
noscitore e ama che lo si veda. Se poi a questo pregio
di buon descrittore, tanto più apprezzabile in quanto
serve efficacemente a rompere la monotonia di tanti
episodi tra loro somiglianti, s’aggiungono l’arte finissima
di intendere le grandi bellezze del poeta latino e svi-
scerarle e svilupparle e metterle in rilievo con begli
artifici di ombra e di luce, e l'abilità di addentrarsi nel
significato di quei prolissi soliloquiie riprodurre la com-
mozione psichica in essi contenuta, e inoltre ancora
il ritmo armonioso delle ottave, che riproducono assai
bene l’onda sonora fluente per i distici ovidiani, si sarai)
radunati bastanti argomenti per persuadersi che l’An-
guillara è un vero poeta e cln* le sue Metamorfosi, cosi
come sono, costituiscono una bella opera d’arte e in-
sieme anche una piacevolissima lettura. Infatti la sua
traduzione ebbe al suo tempo un vero successo, in parte
per i suoi pregi intrinseci, in parte per il grande amore
che gli uomini del Cinquecento portavano a Ovidio.
Ognuno ricorda le due correnti che abbiamo detto
contendersi tutta la vita italiana nelle sue vario mani-
festazioni dalla decadenza romana ai giorni nostri. Ovidio
fu il più genuino rappresentante della corrente classico-
pagana, quale essa si manifesta nei sentimenti, nei gusti
estetici e letterari, nei principi etico-morali verso l'ul-
timo periodo del Rinascimento e nel primo Secentismo.
Il Rinascimento nella 2." metà del secolo XVI comincia
a mostrare i segni dello svigorimento e della decadenza.
Alla rigogliosa e feconda vitalità succede l’arida e stanca
vecchiaia. Ai sani principi artistici e letterari, che avevan
creato i grandi capolavori della fine del secolo XV e del
principio del XVI, si sostituirono i principi d’un este-
tismo formale e accademico, che alla inspirazione viva
- Ili -
e spontanea del sentimento faceva preferire la ricerca
faticosa di peregrine raffinatezze e le concezioni strane
e forzate della fantasia sovreccitata; alle bellezze sem-
plici e naturali, gli ornamenti sfarzosi e raffinati. E anche
in fatto di morale le coscienze subirono una trasforma-
zione; non migliorarono, masi modificarono. La reazione
cattolica, concretatasi e rafforzatasi nel concilio di Trento,
fece ben presto sentire i suoi effetti. Il vizio, prima li-
bero, petulante e ostentato, si fece più timido, più guar-
dingo, piu velato: cessò d’esser sfacciato e grossolano
ma si diffuse e raffinò. Allora l’Ariosto non avrebbe più
potuto scrivere il canto XXVIII del suo poema, ma il
l'asso potè scrivere ancora il canto d’Armida; potevano
non piu garbare le sguaiate e ridandone oscenità del
Da Bibbiena e dell’Aretino, ma la voluttà fina e vene-
fica potè costituire la maggior attrattiva dei generi let-
terari allora piu in voga, da quelli del Marino a quelli
del Preti.
Date queste condizioni d’animo e d’intelletto, nessun
poeta antico poteva piacere di più di Ovidio, arbitro di
ogni eleganza, signor sovrano d’ogni miglior bellezza di
forma, mago meraviglioso che profuse a piene mani nei
suoi scritti tesori di immagini, di eleganza e di orna-
menti. (ili spiriti attratti dallo splendore delle mirabili
bellezze accumulate nelle sue opere, cullati dalla musica
continua del verso armoniosissimo, s’indugiavan volen-
tieri a respirare quell’atmosfera viziata, piena d’erotismo
sensuale e romantico, la quale era a un tempo incentivo
e soddisfacimento delle nuove tendenze alla mollezza e
alla corruzione. S’aggiunga a questo che le opere d’Ovidio
erano la miniera inesauribile, donde si potevan trarre,
ornati di bellissima veste, quei miti clic fornirono ma-
teriale abbondantissimo alla letteratura della seconda
metà del 1500.
Così si può spiegare perchè Ovidio sia stato il poeta
antico più Ietto, studiato, tradotto nel tardo Rinasci-
mento e poi in tutto il Seicento. Le sole Metamorfosi
— 112 -
ebbero nel secolo XVI l'onore di tre traduzioni, oltre a
quella doll’Anguillara; e dalle Metaformosi trassero ori-
gine quei poemetti mitologici che deliziarono i lettori
italiani giù giù tino aH'ultimo Secentismo. Nè il Cavalier
G. B. Marino, il capo riconosciuto di questa scuola let-
teraria, il glorioso principe delle Thoscane muse e vi-
cereggente d’ Apollo ni mondo..., come l’ebbe a chiamare
un contemporaneo (1), si sottrae all’imitazione d’Ovidio:
anzi la favorisce col suo autorevole esempio. Poiché il
Marino attinge anche altronde, da tutti i poeti antichi
e specialmente dai decadenti di Grecia e di Roma: ma
più trae da Ovidio con cui aveva affinità d’indole, d’in-
gegno e di sentimenti. Di Ovidio infatti, e in particolar
modo delle Metamorfosi, sono in gran parte quei miti
ed episodi e leggende antiche, che entrano a formare
il suo poema dell’.lrfone; tra gli altri ampiamente svolto
quello di Giacinto.
Ma la corrente medio-evale, che già ci è occorso di
nominare, rinvigoritasi sotto l’influsso della reazione
cattolica, non tardò a levarsi, non solo contro la corru-
zione dei costumi diffusasi nel tempo del Rinascimento
e forse per opera di esso, ma ancora contro i principi
estetici e morali che informarono tutta l’arte che da
quello era nata; e con maggior furore diresse i suoi strali
contro il contenuto classico della letteratura e special-
mente contro la mitologia, sia perchè era del pagane-
simo antico la parte più genuina e vitale, e nell'arte e
nella letteratura la più copiosa e appariscente, sia anche
perchè veniva a offendere più direttamente la nuova
coscienza religiosa fattasi più timorata e sensibile. Le
polemiche contro la mitologia si fecero accanite in prin-
cipio del Seicento, scendendo in campo gli avversari di
essa, sebbene con tanta minor convinzione e tanta minore
risolutezza, in nome di quegli stessi ideali e su per giù
(1) Enea uegli Ohizzi, Poesie liriche, Ferrara, Maresti, 1670,
pag. 120.
- 113 —
con quegli stessi argomenti, per i quali e con i quali due
secoli dopo i Romantici battaglieranno contro i Classicisti.
Ma troppa bellezza di poesia avevano in sè le finzioni
antiche, troppa affascinante seduzione esercitavano su
quegli spiriti imbevuti dei principi e degli ideali classici,
troppo comodi erano anche tutti quei soggetti e quei
mezzi d’arte — argomenti, concetti, immagini, elocu-
zioni, ecc., ecc. — che i miti potevano offrire, perchè vi si
potesse e volesse rinunziare. Successe allora che, mentre
in teoria i miti antichi erano universalmente condannati
in nome della religione e della morale, ben pochi in
pratica si sottraevano al fascino di essi e quasi tutti,
chi più chi meno, vi ricorrevano come a elementi d’arte
di cui non sapevan fare a meno, giustificandosi poi ai
propri occhi e Scolpandosi presso gli altri col mezzo
termine e coll'ipocrisia (1).
(1) Storia letteraria d' Italia scritta da una società di profes-
sori- Antonio Bulloni, Il Seicento, cap. I, La lirica di gusto
classico nella prima metà del seicento, pag. 21 e segg.
Da queste incoerenze pochi poeti sono immuni e quelli che
lo sono, più che poeti, sono moralisti e sermoneggiatoci. Ma il
Marino tutti li trapassa nella ipocrisia e vorrà che un buon prete
ricerchi l’allegoria morale religiosa nelle sue concezioni pagane
e lascive. Già altri prima del Marino aveva interpretato allego-
ricamente le favole antiche. Le Metamorfosi dell’Augustini erano
state da lui stesso spiegate con le sue allegorie, signifìcationi et
dichiaralioni... in prosa (vedi titolo dell’edizione sopra citata).
Ma queste si riducevano più che altro a semplici parafrasi pro-
sastiche. M. Giuseppe llorologii annota le Metamorfosi dell’An-
guillara. Cosi è da lui commentato il mito di Giacinto:
Giacinto trasformato nel fiore del suo nome da Apollo ci fa
cedere che la virtù del sole che si rà compartendo nei semplici
la mattina quando si rallegrano cedendolo comparire, come quello
che con benignità sua rà purgando dalla soverchia umidità della
notte, dece esser colta in tempo della s’ia giovinezza, che è che
non la sia nè troppo morbida per la soverchia umidità nè
troppo asciutta per il soverchio ardore dai raggi de! sole : colta
dunque a tempo, si trasforma in fiore che non è altro che quella
*
— 114 -
Quell’osci Ilare tra le due correnti che si contendevano
il campo letterario, è appunto uno dei fatti, in cui si
manifesta la coscienza secentistica, ibrida, superficiale,
fiacca, irresoluta: non è rumor delle belle favole antiche
che induce gli uomini del Seicento a fare uno strappo
ai biro principi etico religiosi, come non è l’amor di
questi principi che gli fan condannare le favole antiche:
li spinge a queste incoerenze il non aver ben saldo nel-
l’animo nè l'uno nè l'altro sentimento. A dimostrare in-
fatti che non si avesse in quel tempo per la mitologia
nessuna riverenza e che essa era tenuta in considerazione
solo in quanto offriva un contenuto e un mezzo d'arte
comodo e difficilmente sostituibile, stanno i poemi eroi-
comici e giocosi e le rime burlesche; i quali viceversa
nè in morale sono così austeri e pudibondi nè in religione
così fervidi e convinti, come si sarebbe potuto pretendere
da chi veniva a opporsi tanto decisamente alla corrente
classica.
Ad ogni modo è certo che gli avversari più coerenti,
accaniti e terribili contro i bellissimi e bizzarri numi
della mitologia furono gli autori eroicomici giocosi e
burleschi. I quali gli Dei e le Dee in ogni peggior foggia
travestendo e camuffando e i loro piacevoli e poetici
parte più purgata, più nobile e più atta a operare e tare effetti mi-
racoloni intorno la sanità, ette è come un tiare (Edizione cit. An-
notazioni ni libro X, pag. 190).
L’interpretazione è come si vede, naturale e leggermente
morale. Ma ecco come interpreta don Lorenzo Scoto i miti che
formano il contenuto del canto XIX deir.4tfone. Le /arate <h
Giacinto, di Pampino , d’ Acide, di Carpo, di Leandro, d'Achille,
et d' Adone stesso, morti nella più fresca età per fortunosi ac-
cidenti et trasformali per lo più infiori e in altre sostarne fra-
pili, son poste o per significare naturalmente V (‘(Tetto et le qualità
di quelle cose, che son raffigurate in essi o per esprimere mo-
ralmente la vanità della gioventù et la brevità della bellezza
(Marino, Adone, ed. cit., pag. 478). Morale assai tempestiva in
mezzo alle lascivie ond’é zeppo il poema ! !
— 115 —
miti parodiando e burlando, li ricopersero di ridicolo e
concorsero a spogliarli di tutta quella riverenza e poesia,
onde Fanior di Grecia e di Roma li aveva circondati.
E primo fra tutti Francesco Bracciolini. Il quale, pensato
esser dovere che si deridano i favolosi , e falsi Dei, e
mostrimi gli errori loro, e del volgo, o che gli crede
o che di /or fa conto, o che pur gli nomina , affinchè,
mas/ rondo al viro rii ratte, le lascivie, le stolli zie,
te rapacità, le buffonerie, e l’empietà loro, imparino
le stolte genti a non fasciarsi piò nè sedurre nè in-
gannare, ed a schernir più tosto Venere, Marte,
Giove, che cosi si conviene, e non tenerli più in nessun
conto, nè pur nominarli (1), muove contro di loro flora
battaglia, assaltandoli con l'arma formidabile del ridicolo,
la loro figura, i loro atti, le loro gesta, i loro fasti gio-
cosamente parodiando in quel suo poema che s’intitola
Lo scherno degli Dei (2).
Il suo materiale, il Bracciolini lo trae dagli scrittori
antichi e specialmente dalle Metamorfosi di Ovidio. E
poiché il mito di Giacinto era, come vedemmo, assai
diffuso ai suoi tempi (3) ed è realmente uno dei più im-
morali, e assai si prestava allo scherno il fatto di un
Dio che discende a giocare alla palla con un fanciullo
per certi suoi fini innominabili, egli lo sottopone alla
sferza del suo ridicolo e riesce a farne una satira ame-
nissima. Così due poeti, assai diversi tra loro per tem-
peramento poetico, per il gemere letterario trattato, per
(1) Lo scherno degli Dei, Prefazione, a pag. XXVIII dell’edi-
zione sottocitata.
(2) Francesco Bracciolini, Lo scherno degli Dei, Mdano,
Società tipografica dei classici italiani, 1804.
(8) li come diffuso nella letteratura, cosi anche nell’arte. Il
Uomenichino (Domenico Zampieri) dipinse un quadro in cui si
vede Giacinto morente. Una pietra incisa del Museo d’Orleans
rappresenta la metamorfosi di Giacinto nel fiore che porta il suo
nome.
— 116 -
l’essenza e il modo stesso dell’arte loro e, più forse, per
lo scopo di essa, il Marino e il Bracciolini, derivano
entrambi il medesimo episodio mitologico dalle Meta-
morfosi passate attraverso alla riduzione delPAnguillara;
anzi tutti e due traggono da questo motivi e forme d’arte:
e l’uno anche ne trae dall’altro. Non sarà fuor di pro-
posito esaminare il modo diverso con cui i due poeti
trattano il comune argomento. Accogliendo l’episodio
nel loro poema, essi lo adattano naturalmente allo svol-
gimento di esso. Il poema del Marino ormai volge al
suo fine: Adone è morto; Venere piange e s’aggira di-
sperata per il vedovo palazzo (1);
Et ecco a consolar le doglie amare
Che le fan dei begl’occhi umidi i lampi
Vengon Febo dal ciel, 'Peti dal mare
Bacco dai colli, Cerere dai campi.
E Apollo per confortarla (solatili in miseris...), narra
la disgraziata (ine del suo amatissimo Giacinto. E questo
tenue filo lega l’episodio al poema del Marino: più solido
e consistente é invece il legame che lo concatena con
quello del Braeciolini. L’argomento principale di questo
son gli amori di Venere e di Marte: ma essi non tolgono
che la volubile Dea, atteggiata a vera sgualdrinella, s’in-
capricci anche di altri. Ella infatti
... al pastorello Anchise
Volge lo sguardo e se ne infiamma il core 12):
ma quando gli si vuole avvicinare, la fugge egli, timido
e disdegnoso; e poiché la Dea n’è disperata, la madre
di lui, Drusilla, l’informa ch’essa potrà adescare col canto
il giovanetto, il quale per gl’insegnamenti del suo pre-
cettore Tamiri, autor di certo poema che parla di Giganti
e di Dei, contrasse per la poesia una vera passione, la
quale potrà servire d’irresistibile richiamo (3).
(1) Adone , XIX, strofe I, XII.
(2) Canto XII, argomento.
(3) Cnnto XII.
— m -
Per trarre Anchise all’amorose voglie
Venere il canto a dolce suono accorda (1)
e canta, tra i vari disgraziati amori di Apollo, quello
per Giacinto, nei lacci del quale lo gettò Cupido, perchè
il biondo Dio, inesperto arciere, volle con lui gareggiare
nel trar d’arco; onde Amore — cosi entra l’episodio nello
svolgimento organico del poema — grato alle lodi della
madre, saetta Anchise... e la cosa è fatta (2).
Il fondo e lo svolgimento dell’episodio di Giacinto,
conte anche le circostanze principali di esso, rimangono
dunque identici nei poemi del Marino e del Bracciolini;
ma un’analisi minuta e comparata dei due poeti e delle
fonti, ond’ hanno attinto, dimostrerà che quest’ultimo,
ingegno più originale, fa più sua la materia e muta di
piu i particolari dell’azione: l’autor àe\Y Adone invece
non ci mette nulla di suo, ma prende un po’ da tutti,
dal Bracciolini, daH’Anguillara, da Ovidio, — quel poco
che il traduttore ha omesso — e anche da altri. Nel-
V Adone Apollo comincia ad accusar se stesso (3), preci-
samente come in Ovidio: ego su>n (ibi funeris auctor (4),
benché in entrambi subito soggiunga che il suo fu errore
involontario; poi continua con la descrizione della bel-
lezza di Giacinto. In Ovidio la descrizione non c’è: ma
c'è nell’AnguilIara, appena accennata con due versi:
Nè piè vago il pennel l’avria dipinto
Nè fatto lo scalpel più bello in marmi (5),
che il Marino subito ripete:
Scultor in marmo ovver pittor in carta
Di formar non si vanti un si bel viso (6).
(1) Canto XIII, argomento.
(2) Indico con l’iniziale maiuscola il nome dell’autore ; con
il numero romano il Canto; con l’arabico la Strofa. XIII, 10-51.
(3) M., 25.
(4) 0., v. 199.
(5) A., 69.
(6) M., 26.
— 118 —
Ma come posso» bastare due tocchi così parchi alla
sua smania di amplificare? Ed egli allora si rivolge al
Bracciolini e prende in imprestilo da lui nuovi tratti e
colori, che poi allarga e stempera a sua voglia. In <j ue-
st’ultimo, si sa, la descrizione prende carattere scher-
zevole da cima a fonilo. Ridicolo è subito il modo con
cui Natura forma il bel fanciullo con il concorso delle
Grazie, che le portano i due colori (li ligustri e di rose
negli alberelli e poi runa fila oro fino e legger per far
capelli; C altra /arnia ararlo indiano per far diti can-
didi e belli; la terza pesca nel mar coralli eletti a
colorir i due ì libretti (1). Da tutto questo tramestìo
delle Grazie e di Natura per formare il fanciullo, sgorga
certamente spontaneo il riso: ma quando vediamo il
Marino non solo prender le mosse di qui per compir
la descrizione del suo Giacinto, ma togliere ancor di peso
una frase intiera, e la più strana, per incastonarla nel
suo ritratto (l’oro dei crespi crini dalle Grazie filato
[Marino]; e arena filato oro fino e legger per far capelli
[Bracciolini]); ci vie» fatto di domandare s’ egli aveva
il gusto cosi pervertito da non capire che quei versi erano
una satira dello stile letterario dei tempi, oppure se il
Bracciolini, per insufficienza d’arte, non seppe dare alla
parodia un risalto bastante a far sì che il senso reale
si distaccasse netto dal figurato.
Ma tornando alla nostra analisi, così bello com’è e
anche così forte e destro nell’armi (2), Giacinto innamora
Apollo, il quale abbandona per lui non solo Delfo in
Ovidio (3), e Delfo e il suo carro in cielo nell’Anguil-
lara (4); ma anche il Lauro e il Cipresso e Leueothoe
e Clitia e gli adorati altari di Delfo e le vittime di Deio
(D B„ 26.
(2) A., 70; M., 28.
(3) 0., vv. 67-68.
(4) A., 73-74.
— 119 —
e 7 fren dei suoi destrier fulgidi e chiari, nel Marino (1).
E a Sparta e nei suoi dintorni ameni, l’ innamorato
Apollo passa con il bel Giacinto giorni beati. Il giovane
ora sale in groppa ai cigni del Dio, ora al cavallo alato
di lui e visita non solo tutta la Laconia, ma gli ò con-
cesso :
talhora arrivar lieve e sublime
Del bel Parnaso a le spedite cime (2).
E sul Parnaso, nella sua spelonca raccolti, Apollo in-
segna al giovane a cantar sulla cetra (3) e talvolta a
tender l’arco, quantunque già vi fosse esperto (4) ; ma
Ira tutti i diletti il più continuo e principale era quello
di giocare alla palla (5). In Ovidio, Apollo e Giacinto
cacciano (6) solo, pescano (7) e giuocano(8): nell’Anguil-
lara già viaggiano a cercar d'Europa il lito e Giacinto
tratta, ma inadeguatamente, il plettro e l’arco (9): nel
Marino fanno tutto questo che s’è detto; nel Bracciolini
non fanno nulla di tutto questo, se non il giuoco. Comicis-
simo ò in lui il modo con cui Apollo avvicina Giacinto e lo
lusinga a venir con lui; tanto più comico, in quanto che
fu evidentemente suggerito all’autore dal giuoco stesso
della palla, che è trastullo assai comune trai fanciulli, e
accenna a una certa monelleria non rara tra di essi.
Sta dunque in vedetta l’innamorato Iddio, e, visto il gio-
vane avviarsi alla scuola, se gli accosta e, come un mo-
nello qualsiasi d’oggidì, Io invita a marinar la scuola( 10).
Alla scuola, gli dice, manca ancor sicuramente più di
(1) M., 30-31.
(2) M., 34.
(3) M., 35.
(4) M., 36.
(6) M„ 36.
(6) 0., v. 173.
17 ) 0., v. 172.
(8) 0., vv. 175 e segg.
(9) A., 75.
(10) B., 28.
— 120 —
un’ora (1); avrem tempo a divertirci ancora un po': del
resto
avete una catasta
Di libri voi nella sacchetta accolta:
K che studiar bisogna autor cotanti ?
Muoiono i dotti e muoion gli ignoranti:
E con questo studiar, debole e frale
Divieti la forza e la complessione.
Bisogna esercitarsi, che fa male
Questo non dimenar delle persone.
Vedete l'acqua ove si ferma eguale
Subito tende alla corruzione :
lo m’esercito sempre quando posso
A palla, a palla maglio, a pallon grosso.
Se per questa vietta entrar vogliamo,
Non molti passi, al gioco della corda
Merrovvi (2).
A tali lusinghe e a tali consigli, dati con tanta gra-
vità, coinè resistere? Giacinto cedo e vanno al giuoco
e cominciano a palleggiare. Cosi finisce la giocosa cir-
costanza dell’invito di quello sbarazzino d’Apollo e la
narrazione si riaccosta a quelle delTAnguillara e del
Marino. In tutti e tre dunque Apollo e Giacinto son nello
sferisterio pronti a giocare.
Lo sferisterio rieU’Anguillara è di Giacinto (3); nel Ma-
rino non è determinato di chi sia; nel Bracciolini è di
un pallonaio di sua conoscenza.
Ed ecco incontro a lor mastro Beltramo
Che ricuce le palle e le rincuoia :
Porta a ciascuno una racchetta e presto
Leva il mantel da dosso a quello e a questo (4);
dove Tesser introdotte cose reali in finzioni della fan-
tasia o mescolati personaggi mitologici con persone note
(1) B., 29.
(2) B., 30-32
(3) A., 78.
(4) B., 31.
— 121 —
e magari con tipi strani e originali, come forse era
mastro Beltramo, è d'una comicità irresistibile.
E continua il Bracciolini :
Ma poiché palleggiato ebber alquanto,
Giochiam qualche mercé, dinianila Apollo;
Giochiam, dategli, e tl Sfibbiando il manto
In un momento aperselo e spogliollo;
K rimaso in camicia è bianco tanto,
Le braccia e il petto e ’l delicato collo,
Che non sai se la carne che rivela
Dentro il candido liti, sia carne o tela (1).
Abbiamo (pii due particolari che non si trovano nè
in Ovidio nè nel suo traduttore, ma che non mancano
nel Marino; e soli da lui espressi in guisa da non lasciar
dubbio ch’egli innanzi a sè aveva i versi del Bracciolini,
quando componeva i suoi. La scommessa è indicata dal
Bracciolini con soli due versi; dal Marino con quattro;
eppure in si breve giro di parole abbiamo un processo
di svolgimento identico: in entrambi i due giocatori
prima fanno alquante battute per celia : Ma poiché pai
leggiato ebbero alquanto (Bracciolini) (2), Trattienisi in
prima a palleggiar un poco (Marino) (3); e poi s’ accor-
dano alla partita: Giochiam qualche mercè (Bracciolini) (4),
Preposto un premio (Marino) (5).
Lo svestirsi di Giacinto è poi descritto dal Marino
in questo modo:
Onde deposto un suo legger farsetto
Indosso si lasciò semplice e schietto
Sol dell’ultima spoglia il bianco lino
E mi scopri del delicato petto
Il polito candor alabastrino;
Ma dal mio cor assai più forte e greve
Crescea la fiamma in risguardar la neve (6).
(1) B., 34.
(2) IL, 34.
(3) M., 39.
(4) B., 34.
(5) M„ 39.
(6) M., 40.
— 122 —
Oltre le somiglianze esteriori evidentissime tra questa
descrizione e quella del Bracciolini (delicato petto M. —
il petto e il delicato collo B. (1); farsetto semplice e
schietto M. — Buricco del color tinto (2); il color bianco
che campeggia nell'ano e nell’altra pittura, in caria
guisa stemperato) (3), spira ancora nelle due strofe quel
soffio di impurità lasciva, che è caratteristico di tutta
la letteratura mitologica e idillica di quel tempo. E se
la presenza di quell’erotismo malsano non fa specie nel
Marino, che è il capo riconosciuto di quella letteratura,
meraviglia invece nel Bracciolini che con tanta intrepi-
dezza e furore discendeva in campo contro le lascivie
dei falsi Dei. E ci viene in capo di domandarci se non
seppe, pure avendone intenzione, con un'opportuna pa-
rodia della forma o giocando destramente sul sentimento,
castigare ridendo il condannevole costume; oppure se,
troppo ligio al gusto letterario dei tempi, non potè o
non volle sottrarsi a quel sensualismo impuro, che pur
si propone di combattere. Ad ogni modo anche in questo
le due strofe si rassomigliano si da non lasciar dubbio
che l’una derivi dall’altra.
La partita intanto si è impegnata tra i due gioca-
tori. Essa si svolge da principio in modo eguale nei tre
poeti. Lasciato da parte il comico paragone che il Brac-
ciolini fa dei due snelli giocatori, qua e là trascorrenti
per le necessità del giuoco, con le rane saltellanti sulle
rive dei fiumicelli e le lucertole sguiscianti per le forre (4),
in tutti e tre (5) noi troviamo i medesimi atti e moti e
salti distinti e tratteggiati dalla medesima congiunzione
disgiuntiva (or o talor), che ricorda certi sonetti di cui
avremo a parlare del Preti e dell’Obizi, i quali fermano
(1) B., 34.
(2) B., 33.
(3) B., 34.
(4) B., 35.
(5) A., 81-82; M., 43-44: B., 36.
— 123 —
appunto in tocchi tuggevoli gli stessi atti e movimenti.
Bisogna però dire che l’uniforme monotonia di <|iieste
descrizioni è prodotta dalla natura stessa dell’argomento
che non consento grande varietà. Ci sono inoltre in tutti
e tre e le cacce (1) e la corda (2) e la racchetta (3) e
il tetto (-1) (appena indicato con una perifrasi dall’ An-
guillara nella descrizione dello sferisterio di Giacinto;
onorato di una bella descrizione e diventato accessorio
utile nel Marino; finito ingrediente necessario nel Brac-
ciolini); ci sono, insieme con gli sforzi, le astuzie e le
finzioni (5) per vincere, implicite nell’ Anguillara, più
svolte nel Bracciolini, diluitissime, con aggiunte di scambi
di sito e di battute, nel Marino, secondo il suo costume.
Ma quando, infervoratosi il giuoco e accresciuto nei
due avversari l’accanimento, si prepara la dolorosa ca-
tastrofe, il Marino s’accosta aH’Anguillara, e il Braccio-
lini s allontana da entrambi, per non avvicinarglisi più
se non in tratti fuggevoli.
In quel punto, in cui vedemmo rAnguillara, forse
Iter scrupolo di traduttore forse per qualche altro mo-
tivo, insieme mescolare e disco e palla, il Marino, o per
amor di amplificare o per desiderio di sollevare il sog-
getto a dignità di poema o per imprecisione di disegno
derivata da un imperfetta conoscenza del giuoco, fa la
stessa cosa, contraddicendosi però più apertamente con
il soverchio caricar le tinte. Agli inizi del giuoco già
aveva detto :
Il più continuo e principal diletto
Era giocar con la racchetta e il disco (6) ,
(1) A., 82; M., 46; B., 48-49.
(2) A., 86; AI., 44; B., 38.
(3) A., 82; M., 44 ; B., 32.
(4) A., 78 ; M., 44 ; B., 38.
(5) A., 81; AI.. 45-46-47; B., 37.
(6) M., 36.
— 124 -
dove ancor disco si poteva intendere per sfera in ge-
nere e quindi 'palla. Ma avviata la partita, presto com-
pare in giuoco un disco vero e proprio, di pesante metallo,
com'erano per lo più i dischi antichi:
Quand’ecco il crudo disco (oimà) s'appresta
a far che sia la pugna alfin decisa,
ch’è di metallo ben massiccio e tondo
quasi un paleo di smisurato pondo (1).
Dunque non v’è più dubbio: ora che la catastrofe si
avvicina è necessario che la sfera, che prima si colpiva
con fragile racchetta,
ch’entro il curvo legno
Tesse in spessi cancelli attorte sete
E da le tese o ben tirate fila
Fa percossa lontan balzar la pila (2),
e che è
La rete, che di corde ha la treccierà (3),
e
Latte la pelle, che di vento è pregna (4) ;
quella sfera che prima è l'enfiato cuoio (5), il quale
anche
Per lo tetto talhor vola lontano (6),
è necessario che diventi un disco, anzi un volubil
ferro (7) e un un bronzo grave (8), affinchè il colpo,
ond’è il fanciul percosso, sia veramente mortale.
Naturalmente da questa confusione derivano contrad-
dizioni e incongruenze gravi in tutta la narrazione. Ecco
(1) M., 47.
(2) M., 38.
(3) M., 42.
(4) M., 42.
(5) M., 44.
(6) M., 44.
(7> M., 51.
(8) M., 55.
— 125 —
le ottave caratteristiche in cui il Marino descrive il giuoco
l'atto da principio con palla e racchetta:
La rete che ili corde ha la treccierà,
Batte la pelle, che di vento è pregna,
E con la gamba e con la man leggiera
Di seguirla e raccorla ognun s’ingegna,
Qual destra è delle due più destra arciera
Vince e il numero conta e il consegna,
S’avviene che non la investa o che la faccia
Nella lune incontrar, perde la caccia.
Somiglia il gioco, ond'io con lui combatto,
Di duo mastri da scherma accorto assalto,
Hor va per dritto, hor di rovescio il tratto
Hor di porta, hor di balzo, hor basso, hor’alto
Hor il colpo che vien rapido e ratto,
S’incontra in aria et hor s’aspetta il salto.
Mor si trincia la palla, et hor caduta
Tra gli angoli del muro è ribattuta.
Hor quinci, hor quindi et hor veloce, hor piano
L’enfiato cuoio si saetta e scocca.
Per lo tetto talhor vola lontano,
Talhor rade la corda e non la tocca :
K regolato da maestra mano
Nè serpe per lo suol, nè si rimbocca
Tosto ch’urtato vien da quella banda
Si rimette da questa e si rimanda (1).
Dunque noi abbiamo innanzi un vero giuoco con la
palla, descritto con tale lusso di particolari, che allontana
dalla nostra niente ogni idea del disco e del modo con
cui si giocava. E se ancor aggiungessimo le astutie
finte inaspettate e noce (2) e la flagellata e travagliata
palla (3) e le carde segnate (d) e il cambiar di sito (5)
e il pugno (6), ogni minimo dubbio sarebbe rimosso.
(1) M., 12-4-1.
(2) M., 45.
(3) M., 45.
(4) M., 46.
(5) M., 46.
(6) M., 46.
- 126 —
Ma tutto a un tratto, (lue strofe più giù, ecco die
Toglie il figlio d’Amicla il vasto peso
L'alza a fatica, altin. poiché l’ha preso.
Le braccia allenta e il turbine veloce
Segue con la persona e con la voce (1).
E siamo nel disco e ci rimaniamo. Quando questo
giunge ad Apollo, egli prende mille precauzioni: non lo
solleva e rota, prima di averlo ben esaminato (2) ; poi
guarda bene intorno l’arena e frega la mano sulla sabbia
e si atteggia comodamente (3) e, quando alfin s’accinge
a scagliarlo,
Infra la base e ’l cuspite l’afferro
E fortemente ad ambe man lo stringo;
Con gran prestezza il pugno indi disserro,
E <[uel colpo funesto avvento e spingo,
Che finché sian del Ciel salde le tempre
Eia memorando e lagrimabil sempre (4).
È un discobolo insomma che noi abbiamo sottocchio*
e se nulla qui vi è clic ci conduca in mente l’atteggia-
mento della famosa statua greca, gli è forse perchè
l’autore, per un’inesatta e oscura conoscenza del giuoco,
non ha la visione plastica e scultoria del giocatore: ma
i preparativi e gli atti son quelli di chi lancia il disco.
Qui però entra in scena un nuovo personaggio die manca
in Ovidio c nell’Anguillara e nel Bracciolini : e con lui
c’entra una nuova contraddizione. Questo nuovo perso-
naggio, il Marino lo derivò da Luciano (5) ed è Zeffiro,
il (piale, innamorato di Cdacinto e geloso di Apollo, si
(1) M., 48.
(2) M., 49.
(8) M., 50.
(4) M., 51.
(5) Luciano, toc. cit.
— 127 —
intromette nel giuoco, spinge il disco contro la tempia
del fanciullo e l’uccide. Ma come abbia fatto il carez-
zevole vento primaverile a deviare c dirigere il disco di
incidilo massiccio e fondo , il volubil ferro, il bronzo
{/rare, non si capisce. Personifichiamolo pure, diamogli
tutta l'ira che viene dalla cieca gelosia e la forza che
viene dall’ira ; sostituiamogli anche Borea violento, come
altri con più naturalezza vorrebbe, ma non toglieremo
la contraddizione.
La quale deriva da un errore di tinte e di colorito
nella dipintura del quadro. Per la preoccupazione di ren-
der realmente mortale il colpo sulla testa del povero
fanciullo, il poeta non solo accumula sul disco gli epiteti
che servono a renderlo più grave e più immaneggiabile
come massiccio, poi tondo , poi di grave bronzo, ecc. ecc.,
ma ancora fa sì che Zofiiro, un pondo simile, se lo ma-
neggi e palleggi a sua posta. Quindi
Torce a forza e distorna il bronzo grave
E più leggici-, che fulmine o saetta,
Ch’alcun riposo alfimpeto non bave,
Con tanta furia per traverso il lancia
Che và dritto a ferirlo in su la guancia (I):
dove le esagerazioni dei concetti accrescono ognor più
la sproporzione tra il peso del disco e la forza di
Zeflìro, anche così infuriato, come ce lo rappresenta. E
in simili contraddizioni cadrà sempre lo scrittore, il quale,
curando troppo i particolari a danno dell’effetto com-
plessivo dell’insieme e la forma a danno del contenuto
perda il senso della misura, dell’equilibrio, delle pro-
porzioni.
Con quanta maggior naturalezza descrive il Braccio-
lini la. catastrofe! Si vede in lui uno scrittore che ha
precisa la visione della realtà che descrive e sa conte-
nere i tratti del suo disegno nei termini della più ri-
di M., 55.
— 128 —
porosa verosimiglianza. Giacinto ha vinto la 1.* caccia, o,
dopo aver mutato sito e chiamato gioco, ha mandata
la palla sul tetto (1). Questa, cadendo, tocca la spalla
di Apollo, che perde quindici:
E senza dimostrarla una sua fina
Babbiuzza in mezzo al cor sentesi impressa (2).
Ribattendo quindi la palla,
O per desio ili vincerla o per ira
Quanto più può di soprammano tira ;
Tira, e giunge al fanciul il colpo orrendo
Nel manco polso, e la percossa è tale
Che d’un’artiglieria la palla ascendo
Seco non porterebbe impeto uguale.
Cade e muore Giacinto (3).
Qui tutto è vero, tutto preciso; chi è pratico del
giuoco della palla troverà qui anche il linguaggio tecnico
di esso, senza che per questo la forma sia meno poetica. E
tutto v’è anche verosimile. Che bisogno di ricorrere al
disco e voler che sia di bronzo o di ferro e che l'avventi
Zefflro, per fare il colpo? La palla che, lanciata da Apollo^
con più forza del solito, colpisce il fanciullo nella tempia,
non ò sufficiente ? Così il poeta, colla sola esatta dipintura
del vero e la giusta misura delle proporzioni, ha otte-
nuto assai maggiore effetto che il Marino con le sue
gonfiature ed esagerazioni. Il Bracciolini poi non rispar-
mia neppur col suo ridicolo il tragico evento della morte
di Giacinto: ma egli ha saputo cosi ben condurre la
narrazione e disporre ogni cosa a tale effetto che ci stia
sempre innanzi il pensiero che tutto è una finzione, e
di quelle più condannabili, che non ce ne sentiamo of-
fesi; anzi sorridiamo quando la palla più ratta che se
uscisse dalf artiglieria fa mate al parerò Giacinto, che
(1) B., 38.
(2) B., 39.
(3) B., 39-40.
- 129 —
in giù codi ’ come tordo coito nella lesto dolio balestrai)
e quando il povero fanciullo, colpito, due o tre volle io
piana terra sgambetta dolcemente e poi si muore (2).
In Ovidio il lamento di Apollo c la metamorfosi ili Gia-
cinto costituiscon la parte, forse pi ù lunga certo più prolissa,
dell’episodio. Prolisso per riflesso è il medesimo lamento
neH’Auguillara: e nella metamorfosi non solo Giacinto di-
venta un flore (3), ma lo sferisterio un gran giardino e
Lu rete, cli’a traverso era sospesa,
Sopra la qual passar dovea la palla.
Simile a quella vien che il ragno ha tesa
l’er prendervi la mosca e la farfalla (4).
Nel Marino avvengono le stesse metamorfosi e si
cangiano del gioco lo steccato in borio, in arogno lo
reticella (5) e Giacinto diviene non solo un flore, ma anche
una gemma che ha diverse mirabili virtù, tra cui quella di
prescrivere II fulmine, e di scacciai' lo peste e 7 mal
del core (6). Ma, mentre ne\Y Adone è più diffusa la descri-
zione dell'aspetto di Giacinto morto, è più parca l’espres-
sione del dolore di Apollo. Il qual dolore, non ò, dirò così,
di persona umana comi' in Ovidio e ncll’Anguillara, ma del
Sole, il quale, dopo quella disgrazia, rotò gelato e anginoso
il roggio e, passando di là sempre dolo di nubi otre e ma-
ligne, sovra i campi versò piogge sanguigne (7). E in questo
s’accosta al Bracciolini, il quale però, anche nel dolor del
Sole, non tralascia di metterci una punta di ridicolo :
dolente
Con le nuvole attorno esce dal Gange
E carreggiando singhiozzar si sente (8).
(1) B., 40.
(2) B., 41.
(3) A., 94.
(4) A., 95.
(5) M., 61.
(6) M., 62.
(7) M., 55.
(8) M., 55.
t
— 130 -
Ma il riso che corre per tutto il racconto del Braccio-
Uni qua velato e sommesso, là scoppiettando arguto e
piamente, altrove risonando aperto e largo, s espande
sonoro e irrefrenato nella chiusa per quella originale e
inaspettata e lepidissima trovata di Apollo, il quale,
poiché Giacinto è morto e morto da doterò ( ), gu
aveva preso partito di lasciarlo stare (2); ma poi, per
ZI avere a che far con la giuria, stabrhsce d. »•
tarlo in fiore:
E se n’andava già, quando temendo
Che non costi de corpore delieti
Ed ei costituir non si volendo,
Nè processi firmar, difese o scritti,
Torna, e di trasformar l’arte sapendo,
Come sanno gli Dei mancini o ritti,
Tramutò quel bel corpo in un bel flore
Che spira come prima grazia e amore (3).
Dove l’accenno alla responsabilità legale del latto
e alle noie che al Dio potevano derivare, e 1 uso del
linguaggio tecnico forense, sono di assai comico effe o.
Conchiudendo insomma, risulta che il Marino in tutto
l’episodio ha pochissime cose di sua invenzione e prende
quasi tutto dagli altri: da Ovidio, dall’ Anguillaia, da
Bracciolini, da Luciano e vedremo tra poco anche dal
Preti le cose da altrui derivate fondendo insieme con la
sua grande facilità di verseggiare e colla padronanza
assoluta della forma poetica. _
Ma gli manca però la padronanza della materia,
quindi in tutta la narrazione si avverte una non so qua
sconnessione, un’incertezza di condotta, che dimostra ì
poeta affannato a compor come m mosaico gli elemen ì
accattati dagli altri, procedendo, direi quasi a tastoni,
senz’ordine, senza sicura percezione della scelta e del
collocazione.
(1) B., 43.
(2) B., 43.
(3) B., 44.
- 131
['ii:) strofa àeWAdone ci concede ancora altri rav-
vicinamenti. La tendenza del Secentismo, che sopra av-
vertimmo, a dar maggiore importanza ai caratteri formali
che ai sostanziali, portava gli scrittori ad accumunar
le idee più disparate ed eterogenee, le quali avessero
tra loro anche solo tenui note di somiglianza esteriore.
Così, p. e., il giuoco del pallone e la caccia, anche col
fucile, potevan diventar materia d’una poesia amorosa
o almeno suggerire o anche solo rivestire concetti amo-
rosi, perchè giocatore e cacciatore colpiscono, come ap-
punto fa Cupido arderò. Ecco infatti come l'idea comune
del colpire viene a riunire gradatamente le altre due di
Giocatore e Amore nella sola persona di Giacinto:
Le botte del suo braccio erano tali
Che quante ei n’avventava o scarse o piene
Tant’erano al mio cor piaghe mortali
Tante al’ animo mio dure catene;
E ben da tender laccio o scoccar strali
Per legare o ferir con doppie pene,
Nelle luci tenea serene e liete
Vi è più che ne la man, l’arco, e la rete (1).
Il concetto fondamentale dei primi quattro versi è
questo : Giacinto, assestando bei colpi alla palla, accre-
sceva l’amore nell’animo di Apollo; ed è questo un concetto
psicologicamente vero : l'affetto tanto più cresce, quanti
più meriti e virtù si scoprono nella persona amata. Ma
il Marino d’una cosa così semplice e umana, non se
n’accontenta. Sforza egli il concetto per ingrandirlo, per
nobilitarlo; e per renderlo più poetico, lo fa mitologico:
la palla è la freccia, le botte son le ferite d’amore di
quell’alato putto sorridente, che, armato e terribile, svo-
lazza tanto volentieri per la folta selva della poesia del
tempo. E il concetto mitologico, non ancor ben deter-
minato fin qui, si delinea meglio nei versi che seguono
quando compaiono gli strali e l’arco. Se non che, sopra
(l) M., 41.
- 132 —
a
questo concetto di Giacinto, che assume le funzioni di
Cupido, un altro no germoglia, che a poco a poco si
sviluppa, finché, da accessorio latto principale e con il
già principale intrecciatosi, corre con questo fino alla
(ine della strofa. 11 nuovo concetto è quello d’amore elio
è schiavitù e i sensi d’amore, lacci che legano l'un
cuore con 1 altro. Quindi le botte alla palla diventano
primapiaghe mortali e poi dure catene ; ma come l’autore
vuole che Apollo sia più arridente che giocatore cioè più
valga su di lui la bellezza del fanciullo che la sua va-
lentia, ecco Giacinto tener nelle luci serene e liete vi è
giu che ne la man l'arco e la rete per legare e ferire,
con tanto di chiasmo. Il qual processo logico nello svolgi-
mento del concetto, coin’ci sia falso, non v’è- chi non
veda.
Ma neppur cosi com’è questo concetto sembra nato
dalla mente del Marino; egli lo deve aver preso da un
sonetto di Gerolamo Preti, intitolato Per una donna,
mentre vede il suo vago che giocava alla palla (1). Ge-
rolamo Preti, poiché siamo nel Secentismo, fu uno dei
più grossi pianeti che s’aggirarono nell’orbita del sole rna-
riniano. Poeta dal verso facile e abbondante, cesella-
tore di raffinate bellezze, egli si segnala in quell'uni-
formità di soggetti, di forme e di motivi poetici, di frasi
e di parole, per il suo gusto fine e aristocratico: gli
nocque però il genio del tempo, cui troppo indulse, e
l’influenza del Marino, clic stilli, quando di lui egli era
caldo ammiratore e seguace fedele in arte: distaccatosi
(1) Idilli c Rime di Girolamo Preti. AIPIII." 1 ® Signor il Signor
I). Ascanio Pio di Savoia - Con Privilegio - In Venetia. Appresso
Trivisan Bortolotti con licenza dei Superiori 1614, pag. 74, son. 8.
L opuscolo del Preti è contenuto in una raccolta di poemetti
mitologici e idillici, editi in anni diversi (dal 1612 al 1615) da
editori diversi, in città diverse. Autori ne sono 12 altri poeti oltre
il Preti, e tra gli altri vi figurano lo stesso Marino con 11 ra-
pimento d’ Europa e II testamento amoroso e G. C. Gigli con
La fallace Magia, illustrato con bellissima incisione.
— 133 -
più tardi da lui per dissensi letterari nati da ragioni
che diremo, s’accostò alla maniera petrarchesca, la quale
perdurava e ancora perdurò con prodigiosa vitalità,
rappresentando il medio-evalismo nella poesia lirica (1).
Il sonetto che parla del gioco della palla è questo:
Ecco ch’amor novello un’arco stringe
Onde scherza, ond’impiaga ogn’alma errante,
Mpntre l’orbe volubile, e volante
Con percosse iterate avventa, e spinge.
Hor s’inoltra, hor s’arresta, hor si ristringe,
Gira di qua, di là la man. le piante,
E la chioma dorata, e ’l bel sembiante
S’imperla di sudor, d’ostro si tinge.
Quell’arco, arcoèd’amor, la palla è il dardo:
Sento ben io la piaga aspra e pungente :
E se scherza la man, fulmina il guardo.
Colà ratto il mio cor vola sovente,
E de’ la mano, ond’io mi struggo, ed ardo
l’atto palla animata, i colpi sente.
Il sonetto s'atteggia subito mitologicamente e non
solo gli strumenti del giuoco diventano immediatamente
(1) Chi si volesse lare un concetto delle due maniere della
poesia del 1 j ri;ti, legga 1 Idillio l.° che narra la favola di Salmace
ed Ermafrodito e l’Idillio 3 " in cui il poeta dichiara il suo amore
e si duole delle pene che gliene derivano. Il 1." ha tutti i carat-
teri di quella poesia derivata, come dicemmo, da Ovidio e di cui
il Marino, con la sua Zampogna, è il più genuino rappresentante:
mitologico il contenuto: abbondanti le reminiscenze mitologiche;
cosi svolto, per manco del freno della fantasia, l’episodio ili Venere
e Mercurio da costituire una vera sproporzione ; prolisso il la-
mento di salmace secondo 1 esempio d’Ovidio; ben rappresentato
il Secentismo con le solite esagerazioni, ripetizioni, antitesi, in-
magmi strampalate (7/ lagop. e. si sente / 'remere (l'amore al!' entrar
(/ krmq/'roclito ed è contento di baciar con te liquide labbra il
bianco piede e alza te sue acque per bagnar, per baciar tutte le
membra ; il fanciullo, deposto il manto che è come un reio di
fose/ie nubi innamora di sua bellesxa il Cielo, ecc. ecc.) Il 2.» ha
invece sapor petrarchesco : l’armonia, la natura dei concetti, il fra-
seggiare, tutto ricorda assai da vicino le canzoni del l’etrarca,
rivestito in qualche parte alla foggia del Seicento.
— 134 -
le armi di Amoro; ma il giocatore stesso — cosa che
nel Marino non avviene — diventa Amore. E Giocatore
e Amore, adunati in una sola persona, ora di conserva
ora ciascuno da sè, rappresentano l'azione. La quale nei
due primi versi non è ben distinta: Amor che stringe
un arco novello (novello davvero ! una racchetta!) e im-
piaga ogn’ alma errante, avventa poi l'orbe rotabile da
vero giocatore: e giocatore rimane per tutti i sei seguenti
versi, quando corre e salta e s’avanza e s’arresta e si
rigira fino a sudare. Ma nel 9.° e nel IO. 0 verso ritorna
Amore: Quell’arco, arco d'amor, la palla è il dardo
che ferisce l’amante: finché, amore e giocatore, confu-
sisi insieme, dileguano, per lasciar la scena libera al
cuore, il quale, in una metafora degna di tutti i secen-
tisti del mondo, si fa palla animata che sente i colpi
de' la mano onde ramante si. strugge ed arde (1). Cosi
termina questo sonetto, il quale, grossolano ed esa-
gerato confò, non è veramente il saggio migliore e più
degno dell’arte delicata che si ammira in altri componi-
menti del Preti.
Con esso e con l’ottava del Marino, trova il suo posto
in egregia compagnia un altro sonetto di Pio Enea degli
Obizi, che porta per titolo Giuoco della palla grossa
ad istanza, della Signora (2). Vissuto in sul tra-
monto del Secentismo, l’Obizi dimostra con le sue rime
quanto più rilevanti siano i difetti di una scuola verso
il decadere di essa e quanto maggiori negli epigoni che
non nei corifei. Tutto ciò che una fantasia sbrigliata,
(!) Il colpire, come base di un’identificazione di concetti etero-
genei, si riscontra ancora nel sonetto 3.° a pag. 73 Per una che
vede il suo vago ch’uccellava coll’ archibugio, il cui processo for-
mativo è precisamente identico a quello che abbiamo or ora ana-
lizzato.
(2) Le poesie liriche del Signor Marchese Pio Elena degli
Obizi, nell’ « Accademia Ricovrata » il «Rigenerato». Quinta
impressione. In Ferrara per Alfonso e Giov. Battista Maresti,
1670, p. 12.
— 135 —
che non abbia mai conosciuto lo fren dell’arte , può
provare di più stravagante e iperbolico, lo si trova nel-
TObizi. Un sonetto Per la sua donna che scende in
fiume ( 1) comincia:
Fiume elio non ti secchi, or che in te scende
Quell’incendio mortai che il cor mi sface
e continua :
Oli che il cieco tiranno in questo loco
Oggi congiunti a’ danni miei confonde,
.Malgrado di Natura, acqua con foco;
Solo perch'io, in le sue verdi sponde
Resti con doppia morte a poco a poco
Sommerso tra le fiamme, arso tra Fonde.
E noi Caso Meriggiano (2) scrive:
ad onta di natura, nacque
Fiamma dal fiume e da l’ardore ardire.
E lilialmente in una canzone ad Angela Veneziana ( 3):
Fece accesa d’amor morir la morte,
che è tutto dire. Però nel sonetto in questione i segni
del Secentismo sono meno visibili. Se ne giudichi :
Arma il braccio di quercia e ardito stringe
Con la morbida man dentato legno
Il mio Tirrenio, indi con dolce sdegno
11 ventoso volume al ciel rispinge.
Corre, incalza, s’arretra, incuora, finge
Fer vincer nell’arringo il doppio segno,
E mentre usa la forza, opra l'ingegno,
Di vivace cinabro il volte tinge.
Felice globo, preziosa palla
Meriti, or che ti indora il mio bel foco
Più che il cuoio di Frisse ir tra le stelle.
E ricca me, se meco in molle loco
l’rodur vedessi quelle guance belle
Rose e rugiade a più soave gioco.
(1) Loc. cit., pag. 8.
(2) lb., pag. 13.
(3) Ib., pag. 172.
— 136 —
C’è bene ancora il ventoso volume e il felice globo,
che merita più che il cuoio di Fri sso ir tra le stelle,
perchè l'indora il mio bel foco , ma sono inezie in con-
fronto di altre strampalaterie dello stesso autore. Evi-
dentissima è nel sonetto l’imitazione di quello del Preti,
quantunque non compaia in esso l’idea mitologica del
solito Amore armato. Il suo posto è, nel sonetto dell’Obizi,
occupato dalla descrizione dei preparativi del giuoco: il 3. u
ed il 4." verso s’assomigliano nei due sonetti, mentre la
2.“ quartina v’è identica, così nel concetto come nello
svolgimento. Le due terzine non contengono più nessuna
reminiscenza del sonetto del Preti : elementi nuovi vi
sono il cuoio di Frisso e più la chiusa assai realistica,
la quale per nulla risente di quella raffinatezza di sen-
sualismo che abbiam notato nel Marino, nei Marinisti e
in generale in tutto il Secentismo.
Finalmente, per compir la serie degli scrittori che,
traendo argomento dal mito di Giacinto, trattarono del
giuoco della palla, occorre che noi parliamo ancora di
Giovati Battista Fagiuoli, autor di poesie giocose, che
lo fanno considerare nell’ ultimo Seicento come un rin-
novatore non indegno della maniera del Berni. Nel ca-
pitolo XXXI della parte IV delle sue Rime piacevoli (1)
si leggono le lodi che il poeta aveva fatto del sole in
una seduta dell’accademia degli Apatisti, dopo che alla
presenza ili illustri cavalieri e dame gentili, tre altri
già avevano intessute quelle di tre altri pianeti. Il Fa-
giuoli tra le molte altre favole antiche intorno ad Apollo
narra anche quella di Giacinto. Le fonti del suo racconto
sono le solite: Ovidio c l’Anguillara, con reminiscenze
(1) Rime piacevoli di Gio. Battista Fagiuoli, Fiorentino.
Lucca, Salvatore e Gian Domenico Marescaldoli, 1733. Parte IV,
cap. XXXI, vv. 421-456, pag. 209 e segg.
— 137 —
del Marino e del Bracciolini : a quest'ultimo poi si riac-
costa il Fagitioli per il carattere giocoso della poesia :
lo supera per la menzione di regole speciali del giuoco
e l'uso dei termini di esso: se ne distingue per minore
acritudine e finezza di ironia contro il mito, e per certe
punte satiriche contro costumi e persone contemporanee.
La menzione dell’episodio è però assai concisa: tutto il
prologo dell’innamoramento e la descrizione della bel-
lezza del fanciullo e le smanie d 'Apollo sono omesse.
Dopo aver parlato di Ciparisso, comincia senza pream-
boli :
L’ altro fanciullo, si che il travagliò :
Era Giacinto nella Pallacorda
E anche il Sole vi si ritrovò (1).
I due giocatori cominciano la lor partita non all'In-
gorda per non rovinarsi (2) (dove sono accennate im-
plicitamente le battute fatte per celia che trovammo
nel Marino e nel Bracciolini e non in Ovidio e nell’An-
gtiillara); ma la scommessa non è più una scommessa:
è un vantaggio che Apollo dà al fanciullo:
Un bel partito il Sol, se mi sovviene,
Fece al ragazzo, e dìcon, che gli diede
Quindici, il tavolato e ’l mandar bene (3).
Quindici ò uno dei quattro punti occorrenti per fare il
giuoco: il tarolato ò quell’arnese che modernamente si
chiama trampolino , il quale costituisce veramente un
vantaggio per il battitore , dandogli maggiore slancio
e forza nell’atto del colpire il pallone : il manda)' bene
era probabilmente la facoltà di rifiutare tra le varie
mandate del mandarino quella che non fosse bene accon-
cia a esser battuta. Dico probabilmente, perché notizie dai
trattati e dai lessici non n’ho potute avere.
(1) Loc. cit. cap. XXXI, vv. 421-433.
(2) XXXI, vv. 424-425.
(3) XXXI, vv. 427-429.
— 138 -
Or, mentre giocano, si vede
Che il sol trincia una palla con tal forza
Che nelle tempia il giovanetto flede (1).
Se il trincia è del Marino (2), il colpo nelle tempia ,
che dicemmo quanto naturale, è del Bracciolini (3), che
però vi spiega un'arto assai più fine di umorista. Al
colpo fatale accorre Apollo ; ma
benché sia medico, a curarlo
Non seppe ritrovar erba nè scorza (4).
L’idea del medico, che nel Bracciolini non c'è, il Fagiuoli
la ricava da alcuni fuggevoli tratti del Marino:
Per dar con erbe a la gran piaga aita (5),
e deH’Anguillara :
E pone in opra invan lo studio e l’erba (6),
o forse da quelli più sviluppati di Ovidio:
Et modo te refovet (Deus) ; modo tristia vulnera siccat,
Nunc animum adductis fugientem sustinet herbis:
Nil prosunt artes (7).
Cosi morì Giacinto, un giovane dato alle armi e allo
lettere, dove le armi ricordano il Marino (8) e le lettere, la
insidiosa monelleria del Bracciolini (9). I versi che se-
guono contengono due allusioni personali. Grossolano e
intempestivo è il paragone del sole che, nel riflettere
al triste caso avvenutogli, diventa com’un ebreo che la
roba rubata abbia a rimettere ( 10); piace invece la men-
ti) XXXI, vv. 430-432.
(2) M., 43.
(3) 40.
(4) XXXI, vv. 434-435.
(5) M., 58.
(6) A., 88.
(7) 0., vv. 187-189.
(8) M., 28.
(9) n., 29 e segg.
(10) XXXI, vv. 440-441.
zione delle macchie scoperte da Galileo nel sole(l), vuoi
perché tale scoperta è una gloria italiana, che più risalta
nel tema faceto; vuoi perchè l’oscurarsi in l'accia e l’impal-
lidire è effetto naturale deH’interno affanno. Umoristiche
finalmente sono la metamorfosi di Giacinto in fiore, af-
finchè Apollo ancor lo potesse vedere e fiutare (2), e la
chiusa, la quale, dicendo che il Dio, dopo quell’accidente
a studiar si messe (3), ricorda di nuovo il Bracciolini,
col quale il Fagiuoli ha grande rassomiglianza per la na-
tura dell’ingegno e per il genere del componimento.
(1) XXXI, vv. 443-444.
(2) XXXI, vv. 452-453.
(3) XXXI, v. 456.
CAPITOLO IV.
Gruppo III [La letteratura d’imitazione Pindarica ed encomiastica
del giuoco della palla]. Gabriello Chiabrera e le sue tre
liriche del giuoco; Pindaro e i Secentisti; l’ imitazione
ili Pindaro e l’arte nelle liriche del Chiabrera. — Jacopo
Taruffi e La Montagnola di lìologna. — Il Leopardi e
la canzone A un vincitor del pallone ; il contenuto di questa
poesia e il pessimismo leopardiano. — Aleardo Aleardi e
la poesia Per un giuoco della palla nella ralle di Fiumane ;
l’arte di essa e le idee politico-sociali che l’informano. —
Edmondo Di;-Amicis e Gli Azzurri e i Rosei: pregi di questo
libro apologetico del giuoco della palla.
Gabriello Chiabrera celebrò con tre liriche ( 1 ) le gare
ni pallone avvenute nello sferisterio che Cosimo II aveva
fatto costruire a Firenze nel 1018 ; e una delle canzoni
è appunto di questo medesimo anno, le altre due sono
appena dell’estate successivo.
11 Rinascimento aveva messo il gioco in gran moda
e i principi Io favorivano, come già si disse, un po'
per questa ragione e un po’ por il gran concorso di
gente che attirava alla città e l’entusiasmo che destava
c la solennità che aggiungeva alle loro feste e il lustro
che da tutto questo derivava al loro nome.
Al Chiabrera, un primo incentivo a cantar le gare
del pallone che si facevano in Firenze, gli venne senza
(1) Rime di G. Chiabrera. Milano, Società Tipografica dei
classici italiani, 1807, v. 1, pagg. 129-13(5.
— 141 —
dubbio dal desiderio di compiacere al granduca suo pro-
tettore, esaltando in esse una delle splendidezze mag-
giori della sua corte : e ciò faceva il poeta non senza
il suo tornaconto; chè Cosimo II, come già il padre Fer-
dinando I, s’era sempre dimostrato assai benevolo verso
di Ini e spesso gli era largo di protezione e di sussidi.
Confessa infatti egli stesso, nei cenni autobiografici che
ci ha lasciato, che sempre per lo spazio di 35 anni
diedero segno quei serenissimi signori di averlo caro,
cliè mai /’ abbandonarono delle loro grazie. Ma affinchè
quelle grazie non venissero nè troppo rare nè troppo tarde,
conveniva di quando in quando rinfrescar la memoria
al protettore : ed ecco il poeta compor poesie in suo onore,
le quali fossero espressione di gratitudine pei passati
benefizi e insieme invito a operarne dei nuovi. Imma-
giniamoci dunque, se poteva lasciarsi sfuggir la buona
occasione di ricordarsi al principe, ora che questi, nella
penuria di altre glorie, si procurava quella di far co-
struire uno sferisterio e di ordinare le famose gare,
mettendosi alla pari, almeno, con le più illustri corti
non solo d’Italia, ma di Francia anche e di Spagna.
Ma oltre questa ragione che conveniva all'uomo, un’al-
tra ve n’era che conveniva al poeta. Il quale da molto
tempo s’era messo sulle orme di Pindaro e s’adoperava
di rifare tra noi la lirica del grande Tcbano. Ora, non
mai argomento che con quello solito delle canzoni ili
Pindaro avesse più numerosi punti di somiglianza e di
affinità, gli era venuto tra le mani. I solenni prepara-
tivi del richiamo, lo sferisterio e tutto l’apparato sce-
nico del campo, il concorso del popolo, gli applausi ai
più valenti giocatori, il trionfo del vincitore, il favore
stesso del principe, facevan rassomigliare un po’ codeste
partite agli antichi giuochi greci, che avevan fornita a
Pindaro la materia delle sue liriche gloriose.
Mancava veramente alle gare di Firenze l’alto signi-
ficato civile e politico dei giuochi antichi, il quale aveva
dato ai carmi del Tebano il carattere della più vera e
— 142 —
sentita poesia nazionale: ma di questo, il Cbiabrera non
se ne dava pensiero, o meglio, non so ne dava ragione:
gli bastava d’avere un tema che, avvicinandosi più degli
all ri a quelli trattati da Pindaro, gli permettesse di
spiegare quella rara abilità di suo imitatore, per la
quale egli andava tanto altero e per la quale i contem-
poranei lo gratificarono col titolo onorifico di Pindaro
toscano.
Questo titolo — poiché mi toccò di nominarlo — non
fu ratificato dai posteri : ma coni' esso sia potuto na-
scere nel tempo del poeta e durare per parecchie gene-
razioni, si può spiegare, oltreché con la tendenza alla
esagerazione e all’adulazione propria di quell’età, anche
con alcune considerazioni intorno allo stato degli animi
e alle condizioni della letteratura del secolo XVII.
Quella, in cui visse il Chiabrera, fu un’epoca di tran-
sizione. La civiltà del Rinascimento, nata dall’ innesto
della tradizione latina sul tronco rigoglioso della me-
dioevalc, dati i suoi mirabili frutti e compiuto il suo ciclo
storico, illanguidiva, in parte esaurendosi per progres-
sivo deperimento, in parte trasformandosi sotto l'azione
di nuovi agenti storici. Cosi tutto quel complesso di
idee, di principi, di sentimenti, di aspirazioni, di bisogni,
d’interessi, che quella civiltà avevano costituita, an-
dava ogni giorno più perdendo vigore e importanza. E
quel tanto del passato che o per inerzia o per abitu-
dine ancor rimaneva nelle coscienze, più non valeva ad
appagarle ; sicché esse si volgevano ansiose in traccia
d’un cammino verso il loro avvenire. Ma intanto la sa-
zietà insoddisfatta del passato, l’incertezza penosa del
presente, la vaghezza inquieta dell’avvenire lo turbava
e tormentava: e non solo il suo, ma un po’ i sentimenti
di tutti interpretava il Chiabrera quando faceva canone
dell'arte sua il motto : voler egli fare come il suo con-
cittadino : scopri)- nuovo mondo od affogare. Quindi una
universal disposizione ad applaudire qualsiasi tentativo
di novità: quello del Marino che la ricercava nelle esa-
— 143 —
gerazioni e negli insoliti lenocinli della forma, come
lineilo del Chiabrera che la rintracciava nell’imitazione
dei poeti greci e specialmente di Pindaro. Cosi si spie-
gano le lodi veramente soverchie, con le quali i con-
temporanei esaltarono il poeta savonese: da quelle che
egli stesso ci riferisce o ci lascia capire — senza men-
dacia e senza prosunzione — nei cenni autobiografici (1),
a quelle di cui gli è prodigo lo stesso Muratori, scrit-
tore gravissimo, in più luoghi del suo trattato Della per-
fetta poesia italiana (2). Nel coro delle quali lodi la
meno esagerata ancor ci pare quella di Pindaro Toscano,
se pensiamo che i contemporanei, quando videro ripro-
dotta dal Chiabrera quella vita esteriore dell' andamento
e del numero e la poesia dei passaggi (3), credettero, in
vera buona fede, che quella fosse la poesia di Pindaro,
rinnovata, per l’opera d’un ingegno grandemente lirico,
(1) Di colti (da Firenze) fagli scritto, che alcuno lodavano
fortemente le sue poesie. (Vita di G. Ciuabukka scritta da lui
medesimo. Ed. cit.,pag. 22). K leggansi pure le accoglienze che
con tanta compiacenza il poeta riferisce aver ricevuto dalle corti,
più da quella di Firenze (pagg. 24-25) che da quella di Torino
(pag. 20); e ancora il Greve scrittogli con grandi lodi da Ur-
bano Vili, ch’egli riporta (pag. 28), e le straordinarie dimostra-
zioni avute da quel papa (pag. 30) : e ancora il distico l'atto scrivere
sopra la porta della camera ch’egli abitava nel palazzo di Giu-
stiniani in Fossolo a Genova, ospite del signor Pier Giuseppe
Giustiniani :
Intus agit Gabriel, sacram ne rampe quietem
Pum strepis, ah periit, nil minus Iliade.
che il Chiabrera stesso ci trascrive (pag. 33), ecc. ecc.
(2) Muratori, Dalla perfetta poesia italiana, Milano, Società
Tipografica dei classici italiani, 1821, v. 1, pag. 218: G. C., il
cui merito non è abbastanza conosciuto da alcuni. E a pag. 343
del medesimo volume : E, fra tanti poeti italiani, dei (piali si am-
mirano i componimenti poetici, non v'ha forse chi meglio di.
G. Chiabrera si sia ingegnato di seguir le orme e i voti di Pindaro.
(3) Il J{. Liceo Chiabrera in Savona nell'anno scolastico
1877-78. La lirica e l'epopea di G. Chiabrera di T. T. Castelli,
Savona Tipolitografia di Andrea llicci, 187'.), pag. 9.
I
— 144 —
nella sostanza o nella forma, nello spirilo e nell'arte.
Il vero è che nè il poeta nè i suoi lettori d’allora seppero
addentrarsi nella grande poesia del lirico tetano e com-
prenderla nella sua intima essenza.
E per giustificare questa mia asserzione, non paia
superfluo che, a spiegarla, io mi rifaccia un po’ da lon-
tano. Ogni qual volta mi son fatto a considerare 1 in-
fluenza delle due letterature classiche sopra la lettera-
tura italiana, sempre m’è parso di poter paragonare il
Latino a un parente prossimo, vissuto a lungo lontano
da noi ma con noi in continua affettuosa corrispondenza,
il quale ritorni in casa nostra e vi si istalli a tutto suo
comodo c s’informi subito di tutti i nostri affari e ci
informi dei suoi e dia e accetti consigli e suggerisca
mutamenti nelle abitudini e nelle usanze. È insomma
un nuovo membro ritornato ad accrescere la famiglia.
Il Greco invece è il ricco parente lontano, disceso nella
modesta casa borghese: entra tutto bello, elegante,
riservato, dignitoso : subito si sente che le sue maniere
son distinte, perfette, degne veramente d’essere imitate :
e ci si prova, ma lo sforzo di farlo, devia l’attenzione
dalle regole della più ovvia educazione, isterilisce il
sentimento, soffoca la spontaneità dei tratti e li rende
impacciati e sgraziati. Per molto tempo ospite e ospi-
tato rimangono estranei l’uno all’altro e solo una lunga
consuetudine riesce a far si che il primo si assimili un
po’ della gran distinzione di modi, dell’eletta aristocrazia
di spirito ilei secondo.
E fu cosi infatti. Lasciando da parte il Petrarca e il
Boccaccio, i quali il Greco ricercavano per un’istintiva
e, quasi direi, inconscia aspirazione alla bellezza antica,
lo studio di questa lingua cominciò veramente in Italia,
come sa ognuno, allorché, dopo la caduta di Costanti-
nopoli, numerosi dotti greci vennero tra di noi e inse-
gnarono la loro lingua, fondarono centri di studi e crea-
rono discepoli illustri. È dunque innegabile che il Greco
potè esercitare una benefica influenza sulla cultura clas-
— 145 —
sica, completandola e insegnando quei principi di pura,
serena, plastica bellezza, di cui troviamo tracce in molti
scrittori del ’500. Eppure lo studio del Greco nel '500
e nel ’ 600, a chi ben guarda, parrà più che altro un
lavorio d’approccio. Anzitutto il popolo, vale adire l’anima
italiana, nel ’ 500 e per alcuni secoli posteriori, rimase
quasi del tutto estranea alla civiltà greca. I dotti, dal
canto loro, si fecero padroni della lingua, lessero i ca-
polavori di quella letteratura, discussero le regole d’A-
ristotele, le ricercarono negli scrittori e le applicarono
nelle loro opere ; ma essi s’avanzarono poco oltre la
forma; non seppero nè poterono discendere giù nell’in-
timo dell’essenza fino alla sicura ed esatta percezione
e conoscenza dei grandi principi constitutivi e infor-
mativi della vita e della letteratura greca. Perchè questo
potesse avvenire, bisognò che, diluitosi l’elemento epico
cavalleresco negli innumerabili e interminabili poemi
posteriori, e inariditosi l'elemento erotico nella fiacca
e stracca imitazione petrarchesca, le menti degli Italiani si
vuotassero, quasi direi, della maggior parte del contenuto
medioevale, e il rimanente trasformassero quasi sostan-
zialmente: bisognò che alla vaga aspirazione a cose nuove
subentrasse negli animi dei più la volontà conscia e ra-
gionata di determinati e sicuri ideali che venissero a
riempirli e guidarli: bisognò che per questo le menti
acquistassero, per mezzo di studi più larghi e profondi,
una maggior dimestichezza con la civiltà greca e, af-
francatesi dal giogo della reazione cattolica, si facessero
più capaci di comprendere e assimilarsi i grandi prin-
cipi di giustizia, di libertà e di patria, che quella civiltà
avevano informato e a questi principi si volgessero,
come a faro nuovo di luce, come alla voce del nuovo
verbo di progresso civile c morale. Solo allora l’Ellenismo
potè avere reale e utile efficacia sulla coscienza ita-
liana, determinando nella vita i conati alla libertà del
secolo XVI II e del successivo e trionfando nella lettera-
tura con i capolavori del Classicismo. Solo allora alla
io
— 146 —
frigida tragedia cinquecentistica di tipo sofocleo potè suc-
cedere la calda e violenta tragedia dell’Alfìeri ; agli uni-
formi poemetti mitologici, in cui vorrebbe spirare un’aura
di grecità e in cui non si sente che il soffio dell'arte
ovidiana, I Sepolcri del Foscolo, nei quali si riaccen-
dono i forti sensi deH’Ellade antica, e Le Grazie, che
armonie pecche suonano; alla lirica del Cbiabrera, greca
solo nella esteriore impronta imitata da Pindaro, la lirica
delle canzoni civili del Leopardi, che riproducono e ri-
vestono di bella forma italiana concetti e spiriti della più
schietta grecità.
Ma da quando lo studio del Greco comparve in Italia
(ino ai giorni nostri, non vi fu tempo in cui esso si sia
trovato in condizioni peggiori clic quello in cui fiori il
Chiabrera. L’anno normale dello studio del Greco, dice
il Burckardt, si può ritenere il 1500 (1); dopo di questo
decadde, tanto clic ai tempi del Chiabrera la lingua
greca era da pochi e male conosciuta e lo stesso poeta
non ne ebbe una sufficiente conoscenza. Ce lo dimostra
Girolamo Bertolotto, il quale, in una limpida disserta-
zioncolla (2) persuasiva per l’ordine chiaro del ragiona-
mento c l'uso discreto degli argomenti, pur riconoscendo
che il Chiabrera aveva una vasta coltura classica, ma
non attinta diretta mente dai prandi modelli preci, hens)
da traduzioni, da un’assidua lettura e da erudite con-
versazioni (3), dichiara apertamente d’esser d'avviso che
il Chiabrera non fosse capace di interpretare da sè uno
dei tanti autori greci, da cui s’era fatto, con tanta fortuna,
imitatore (-1). Se così è — e la dimostrazione del Ber-
tolotto non può lasciar dubbio — noi possiamo domandare
come poteva il Cbiabrera, senza il sussidio della cono-
(1) Ed. cit., v. 1, parte III, cap. Ili, pag. 230.
(2) Il Chiabrera damati all’ Ellenismo nel diurnale Ligustico di
Archeologia, storia e letteratura. Nuova Serie, v. I, pagg. 271-280.
(3) Eoe. cit., pag. 272.
(4) Loc. cit., pag. 280.
- 147
scenza della lingua, penetrare nel segreto della poesia
di Pindaro, capirne tutta l’intima natura singolarissima,
e afferrarne le recondite bellezze nobilissime e farle sue
e trasportarle nella sua lirica.
Chè l’esempio del Monti, messo innanzi dal Bertolotto
per provare che l’ignoranza del greco non offusca la gloria
del Cbiabrera, anzi la fa rifulgere di luce più viva, perchè
colla sola potenza del suo ingegno seppe egli elevarsi a
tanta altezza lirica , ove non giunsero gli altri Pia-
da ri sii suoi coetanei, che disponevano di più validi sus-
sidi esteriori e di una profonda cognizione del greco (1),
non serve.
Poiché, anche lasciando da parte che il Monti era
un ingegno ben più altamente inspirato dalle Muse (2),
Omero è poeta facile, ingenuo ed era già ai tempi del
Monti popolare in Italia per le numerose versioni let-
terali e libere; difficilissimo invece Pindaro, dallo studio
del quale la singolare originalità della sua arte e la
profondità dei concetti e le asperità dialettali della
forma allontanavano anche gli intelletti più colti delle
cose greche : tanto che osserva lo stesso Bertolotti,
ostico riusciva pure a queir eletta schiera di ellenisti
usciti dalla scuola del Crisòlora , quali il Guar ini da
Verona, Leonardo Bruni ed altri, dui quali il poeta
Telano non figura tradotto (3). Onde lo stesso Muratori,
molti anni dopo ancora osservava: Vero è che per ben gu-
star quel poeta (Pindaro) converrebbe possedere piena-
mente V erudizione e la lingua greca, non giungendo
le traduzioni che finora se ne sou fatte a rappresentare
la forza e la leggiadria e vivezza di quel vasto ingegno,
nè la magnificenza, il numero e la disposizione delle
sue parole (4). È vero che soggiungeva subito: Con tutto
(4) Bertolotto, loc. cit., pag. 280.
(5) Loc. cit., pag. 274.
(1) Muratori, Della perfetta poesia. Ed. cit., v. 2, 41-42.
(2) Loc. cit., v. 2, pag. 42.
- 148 —
però il difetto delle traslazioni già fattene, potran
gl’ingegni migliori in qualche parte gustar il genio di
Pindaro, ponendo ben mente ai legami ch’egli nei savi
poetici roti sempre fra lontanissime cose, e fa servire
alP ornamento dei soggetti che tratta; ma la conse-
guenza di questa proposizione è ovvia: poteva bensì il
Chiabrera, ingegno tra i migliori, per mezzo delle tradu-
zioni, sentire e fare suoi alcuni degli elementi esteriori
dell’arte di Pindaro, come a dire: i trapassi e i voli fa-
mosi che son di quella la caratteristica più evidente; ma
non poteva addentrarsi nell’essenza della poesia di lui e
impadronirsene, sempre per il motivo, che ancora una volta
ripete il Muratori, che senza una grande sperienza del-
l'idioma greco e dell'erudizione di quei tempi non si
possono abbastan za comprendere le bellezze di questo
poeta (1).
Come insufficiente fu nel Chiabrera la conoscenza
del greco per ben comprendere i principi e il processo
formativo dell’arte di Pindaro, cosi troppo superficiale
e imperfetta fu la nozione della civiltà greca, perchè egli
potesse giungere a formarsi un concetto, anche appi <>s-
simativo, dell’alta importanza civile dei giuochi pubblici
in Grecia, e per conseguenza dell’efficacia educativa della
poesia che li esaltava. La nozione del carattere religioso
originario dei giuochi, i contemporanei di Pindaro fave-
vano già forse perduta; ma era vivissimo in loro il senso
della benefica influenza di essi sopra tutta la vita pubblica
(1) Loc. cit., v. 2, pag. 47. Altrove (v. 1, pag. 44-45), sempre
parlando della difficoltà di Pindaro, scrive: E tra tanti poeti ita-
liani, dei liliali, s’ammirano i componimenti fioetici non v’ha forse
chi meglio del Chiabrera si sia ingegnato di seguir le orme e i
voli del mentovato Pindaro. Ma perchè solamente dai sublimi
ingegni tal maniera di comporre è gustata, anzi non molti son
coloro che conoscono la beltà dello sili pindarico : non ha il Chia-
brera .finora, almen di qua dall' Appennino, ottenuto quel seggio
ch'egli meritò e che dai più saggi gli vien conceduto.
— 149 -
e privata della nazione greca. Secondo il concetto greco,
gli esercizi ginnastici, assidui e lunghi, rendevano, già
l’ accennammo, i giovani belli, sani e forti, cioè vera-
mente atti alla vita e capaci delle migliori virtù: tali
insomma da corrispondere, sotto l'aspetto estetico, morale
e civile, al tipo ideale di cittadino perfetto, quale i Greci
s’erano formato. Di qui la solennità straordinaria dei pub-
blici giuochi e il concorso stragrande di spettatori d ogni
parte della Grecia e l’entusiasmo onde si salutava la
vittoria: di qui per conseguenza rimportanza della poesia
che con la magnificenza e lo splendore dell’arte glori-
ficava il vincitore. Il quale, nel delirio dell’apoteosi, era
messo alla pari con gli eroi antichi, la cui memoria si
conservava venerata nei miti nazionali, parte viva e sen-
sibile della coscienza greca, come nella coscienza di tutti
i popoli son sempre parte viva e sensibile il ricordo
delle glorie degli avi e l'onore dei fasti della patria. Così
quando il poeta, coi trapassi fulminei della fantasia ecci-
tata, volava, nell’inno trionfale, dalla esaltazione del vinci-
tore a quella delle leggende gloriose che si riferivano
o alla gente, onde quegli era sorto, o ad un altro eroe
della medesima stirpe, o alla città dov’era nato o alla città
dov’erano avvenuti i giuochi, sempre l’anima greca aveva
fremiti di legittimo orgoglio nell’udir celebrare, in una
poesia senza pari per impeto di persuasa e cosciente
inspirazione, le glorie avite: e con slancio più ardente
concedeva ogni onore all’olimpionice, il (piale, nel canto
del suo poeta, queste veniva a ricordare, come con la
sua vittoria aveva attestato ch'esse potevano essere
rinnovate. I famosi voli, che Pindaro usava, non erano
dunque un vano artificio retorico, come pur troppo sa-
ranno nelle poesie dei Pindaristi, Italiani o Francesi,
del Cinquecento e del Seicento; ma erano il mezzo efficace
d’ interessare l’anima di tutti gli Elioni, di quelli dell’Asia
minore, come di quelli di Grecia, di Italia o di Sicilia,
allargando la poesia dal cittadino a cui si doveva onore,
alla patria a cui si doveva gloria, e parlando al senti-
— 150 -
mento nazionale fattosi più profondo e pronto dopo la
minaccia del pericolo persiano (1).
Ora tutto questo mondo grandioso di ideali, di af-
fetti, di sentimenti, di emozioni che costituivano l'es-
senza della poesia di Pindaro per noi moderni è in gran
parte spento (1); ma non sì, che non ne sentiamo almeno il
ridosso; chè la conoscenza più profonda ed esatta della
grecità, la memoria gloriosa di alcune epopee del no-
stro Risorgimento, le libere insti i azioni pubbliche sotto
molti aspetti analoghe a quelle della Grecia antica, con-
cedono a noi certe affinità di spirito e certe disposizioni
d'animo consentanee con quelle del popolo che la lirica
di Pindaro applaudiva, udendola scendere, qual fiume
sonoro, dalle labbra di lui. E sotto questo rispetto nes-
sun’altra età fu in condizioni migliori della nostra per
comprendere la poesia del grande Tebano.
Ma prescindendo da tutto ciò, noi moderni abbiamo
riacquistato, quasi in tutta la sua interezza, il concetto
antico della grande e singolare utilità degli esercizi
ginnastici. Nell’assidua e acuta aspirazione a una vita
pubblica e privata più sana, più virtuosa e più felice, noi
sentiamo con dolore che, per conseguirla, le forze in-
debolite del nostro corpo sono troppo sposso impari alla
somma del lavoro che c'incombe e alla volontà di com-
pierlo: sentiamo con dolore che troppo spesso ci manca
la serenità gioconda dello spirito, la padronanza asso-
luta e la sicurezza conscia di noi, la prudenza necessaria
del consiglio, la costanza dei propositi e tante tante
altre virtù, senza le quali, nò come cittadini nè come
privati, si può essere, come esser si dovrebbe, buoni e
felici. E come ben sentiamo c’ogni virtù dipende dalla
salute e dalla forza del corpo, salute e forza domandiamo
ansiosi agli esercizi fisici, con un risveglio salutare di
(1) Cfr. Le odi di Pindaro, dichiarate e tradotte da G. Fraccà-
roli, Verona, Franchini, 1904, pagg. 29-32.
— 151 —
volontà ferma e decisa, che si manifesta negli sporta
più svariati e in mille altri aspetti della vita moderna.
Essendo dunque noi in queste condizioni di mente
e di cuore, (piando mai si fu, dai tempi antichi in poi,
così in grado di apprezzare l’efficacia civile e morale
della poesia pindarica, che è appunto la glorificazione
delle virtù che dalla forza originano e degli esercizi che
diinno la forza?
Ma il carattere educativo e patriottico di questa poesia,
il Seicento, secolo fluttuante tra un passato che più non
l’appagava e un avvenire che già sospirava senza ancor
bene intuire, nel quale l’assenza d’ogni idealità deter-
minava l’assenza di salde coscienze, di nobili e caldi
sentimenti, di forti e risoluti caratteri, non lo poteva
capire. L’ideale della patria, solo concreto e prpfondo
in qualche pensatore e poeta solitario, è in quel tempo
vana retorica nei più, e da pochissimi veramente sen-
tito, sebbene se ne faccia un gran parlare. Gli esercizi
ginnastici, già in tanta stima presso i pedagogisti
del Cinquecento, sono solo più apprezzati in quanto
avviano e dispongono alle arti guerresche; ma questo
concetto stesso rimane lì a mezzo, senza giungere a
una qualsiasi determinatezza significativa. Sotto questo
aspetto, astratto e teorico, esso ci si presenta appunto
ogni qual volta compare nelle poesie del Chiabrera (1);
il quale non lo sa spingere un po’ più in là per metterlo
in relazione col cittadino o colla patria, e solo l’ha caro
come contenuto pomposo della sua poesia. Se la patria
e se la virtù dei ginnici esercizi così sommessamente
parlavano al suo pensiero e al suo sentimento, che
meraviglia dunque s’egli non potè, neppur nella misura
che lo possiam far noi, comprendere il valore della poesia
di Pindaro? Lo lascia capire egli stesso in una lettera
scritta ad Ambrogio Salineri, per dedicargli le sue cun-
ei) Liriche Eroiche, loc. cit., LXI, vv. 5-13-2Ò-29 ; LXII,
vv. 3-8; LXUI, vv. 21-3(1; vv. 41-50.
— 152 —
zoili (1): La prima rolla che io lessi Pindaro, posso
dire con verità che io sospirai sopra la ventura di
motti uomini nostri; perciocché io pensava che se i
principi delta Grecia per la velocità nel corso o per
la destrezza loro nella lotta meritarono divine lodi da
quello eccellentissimo ingegno , i Cavalieri d'Italia pel-
le maggiori prove nei pericoli della guerra maggior-
mente le avevano meritate: ma gli scrittori dei nostri
secoli hanno solamente di loro detta nelle istorie la
verità ; e non hanno adoperala la virtù della poesia
a fare meravigliose le loro azioni. Dal quale passo si
vede chiaramente cbe il poeta aveva solo dinanzi al suo
pensiero la vittoria materiale in esercizi ch’egli, come
s’arguisce dalle frasi crude e quasi sdegnose con cui li
nomina, doveva stimare poco più d'un trastullo: ma nulla
gli trapelava dell’alto significato civile c morale di essa
vittoria e per riflesso della poesia di Pindaro. E non molto
diversamente da lui dimostrò di giudicare, ancor molti
anni dopo, un Ellenista famoso, cbe nello studio della
grecità passò tutta la sua vita e la grecità adorò con
tanto fervore da giudicarla unico modello degno d’essere
imitato e da non permettere cbe il suo alunno, nato a
voli liberi e personali, lui vivo, mai se ne allontanasse;
voglio dire Vincenzo Gravina. 11 quale, parlando di Pin-
daro, scrive : Per dar quest'aspetto grande alle cose senza
alterarle, fu egli costretto a tirar materia di fuori,
perchè l'opera stessa, quaVera la vittoria in un gioco,
non glie la porgeva. Onde è costretto ad appigliarsi alle
lodi o della patria o dei maggiori; o col pretesto di
qualche gi-ave sentenza, da lui francamente frammi-
schiata, trascorrere alle pruove di essa con gli esempi
per poi vestirne il suo soggetto, ed in tal maniera tirar
più a lungo l'ode, la quale (piando il poeta si fosse
(1) T. T. Casteli.i, La lirica e l'epopea del C/dabrera, loco
citato, pag. IX.
— 153 —
ristretto a quel fatto solo, sarebbe stata mollo asciutta
e meschina : ovvero bisognava che il poeta si fosse,
all' usanza della maggior parte dei nostri, trattenuto
in lodi generali della virtù che si potessero applicare
a tutti e che non con venissero ad alcuno. L’«sempio del
Gravina dimostra quanta poca affinità vi fosse tra Fanima
di Pindaro e quella degli uomini del Seicento: e quanto
questi fossero lontani dal poter capire la poesia del Tebano
e dal potersene assimilare lo spirito e le forme. Tutto
ciò considerato, nessuna meraviglia se i posteri giudi-
carono che le liriche, con le quali il Chiabrera pensava
e i coetanei credevano che le corde della cetra dorica
si fossero venute ad aggiungere a quelle della cetra
ausonia, non sono che un’imitazione esteriore e super-
ficiale della lirica di Pindaro, come l’esame delle tre
canzoni, in cui il poeta savonese tratta del giuoco della
palla, e in generale di tutta la sua lirica, varrà a dimo-
strare.
Le famose digressioni, con le quali Pindaro passa
dalle lodi del vincitore a quella di fatti o persone già
note e lodate, estendendo normalmente la sua poesia
oltre i confini dell’argomento personale, ci sono in quasi
tutte le liriche del Chiabrera, e tutte sono di natura mi-
tologica: ma appunto per questa loro natura esse troppo
s’allontanano e, quasi direi, s'estraniano dall’argomento,
perchè possano trarre con sò tutto quel movimento di
sentimenti, di idee, di ricordi che destavano le digres-
sioni di Pindaro negli animi dei Greci: rimangono in lui
come vane reminiscenze, come mera erudizione, lettera
morta per noi e aspetti visibili d’un’arte ricercata o
artificiosa.
Nella prima poesia infatti dell’anno 1018, dopo aver
con una serie di più strofe dimostrato che bene operava
la gioventù toscana, la quale cogli r esercizi i del corpo
s'apprestava ad acquistar ('arti guerriere (1); e dopo
(1) Indicherò le tre Liriche del pallone coi numeri che esse
— 154 —
fermata con pochi ma abili tocchi la descrizione del
giuoco (1), e accennato al diletto degli spettatori (2), tra-
passa a ricercar l’origine del giuoco, che immagina sia
nato allora quando Ulisse, per calmare lo stani seguace,
che, arrestato in porto dalle tempeste avverse d’ Aquilone,
mal soffriva l’indugio e già dimostrava d’adirarsi, gli
dittò dall’ aure avverse atri gonfiati (fi) e lo invitò a
vendicarsene e poi... a vincere le miserie e i mali con
la sofferenza (4). Alle parole di Ulisse
La sciocca plebe
E con piedi, e con mano
llattea le pelli e tea balzarne i venti :
l’oscia le snggie menti
Spesero intorno a ciò l'ingegno e l'arte:
E quinci in ogni loco
E per ogni stagion fu visto il gioco
Che a ragion si può dir gioco di Marte (5).
Questa, secondo il poeta, sarebbe l’origine del giuoco
della palla.
Non mancano in Pindaro esempi di invenzioni di fatti
e di particolari di fatti a illustrazione del suo soggetto
e a glorificazione del suo eroe. Lasciando da parte
l’Olimpica V,che la critica ormai ha giudicata spuria (fi),
nella quale la città di Camarilla, personificata in una bella
ninfa, si fa incontro al vincitor Psaumida per riceverlo
con festevole accoglienza, nella famosa Olimpica VII, che
celebra il pugile Diagora di Rodi, immagina il poeta che
Apollo, scontento della spartizione del mondo fatta da
Giove, chieda per sè fimpero di Ródi che sta sorgendo
hanno nell’edizione citata delle opere del Chiabrera, cioè I.X1 ~ 1 ;
LXII = 2: LXIII = 3; LXI, strofa 1-2, v. 27.
(1) LXI. strofa 5.
(2) LXI, strofa 6.
(3) LXI, v. 65.
(4) LXI, strofa 7-9.
(5) LXI, strofa 10, vv. 83-90.
(6) Fraccaroli, nell'edizione citata di Pindaro, pagg. 226-230.
dalle acque ; e, avutolo per suo regno terrestre, s’inva-
ghisca della vaghissima ninfa Rodi, figlia di Nettuno e
di Venere, che gli procrea numerosa prole e dà il nome
alla città principale dell'isola : invenzione fatta per lu-
singar quei di Rodi che si credevano figli del Sole e a
questo avevan consacrato il meraviglioso colosso. Altrove
si riscontrano pure libere interpretazioni di miti e leg-
gende che la tradizione già aveva composto in una forma
fissa: nell’Olimpica I modifica a suo talento la colpa di
Tantalo; nella citata Olimpica VII, dissentendo da Omero
che ricorda Astioche(l) per madre di Tlepolemo, gli
assegna Astidamia, figlia d'Amintore, discendente da
Giove; nella Pizia VI ora concorda con Omero ora da
lui discorda nella narrazione del sagrifizio che ili sò fece
Antiloco per salvar la vita del genitore (2).
Era quindi lecito al Chiabrera, sull’esempio di Pin-
daro stesso, inventare fatti nuovi e modificare le leg-
gende antiche nello circostanze e anche nella sostanza.
Però le sue invenzioni avrebbero dovuto essere con-
sentanee al carattere del mito e del personaggio antico,
degne di essi e convenienti al suo argomento. Ma l’in-
venzione degli otri, ond’egli amplia la sua poesia e la
atteggia sullo schema pindarico, natagli forse nella
mente dal ricordo dell’episodio dell’Odissea nel quale la
voracità dei compagni apre gli otri in cui Ulisse tien
chiusi i venti contrari avuti in dono da Eolo (3), ò barocca e
(1) Iliade, II, vv. 657-658.
(2) Intatti nell’episodio in cui il cavallo ili Nestore è ferito
da Paride, come si legge nell 'Iliade (Vili, vv. SO e segg.), non
è il figlio Antiloco clic salva Nestore; esso è soccorso da Diomede
e accolto sul cocchio di lui. Nè da questo passo dell7//<?rfe nè
da altri passi di essa o dell’CWmea risulta che Antiloco abbia
sagrificato sè per salvare il padre. Pindaro modifica liberamente
le circostanze, per meglio dimostrare il suo assunto.
(3) Odissea, X, vv. 1-55. Un giuoco, veramente, che si faceva
con otri pieni di vino, v’era nei tempi antichi ed è cosi descritto
ila Mercuriale: Erant qui super utres ateo unctns et fino plenos
— 156 -
irriverente. Il molto accorto e paziente eroe che ricorre
al grossolano stratagemma per ingannare i suoi com-
pagni; e questi, i gloriosi domator di Troia, che, diven-
tati qui plebe credula e sciocca, sfogano la loro ira
inutile e impotente sopra otri gonfiati, son semplice-
mente l’uno e gli altri ridicoli.
L’invenzione quindi, die di certo non fa onore al-
l'immaginativa del poeta, onora nemmeno quel suo gusto
e quella sua proprietà elegante e discreta, che son pregi
della maggior parte delle sue poesie : abbassati infatti
e quasi vilipesi i personaggi del mito e il mito stesso,
dei quali la canzone vorrebbe onorarsi, ne rimane ab-
bassato e vilipeso l'argomento stesso, che il poeta si
propone di esaltare. Ma il peggio è che la mancanza di
discernimento nella scelta del fatto illustrativo e la te-
pidezza della fantasia nell'immaginazione di essa derivano
in fondo dall’avere il poeta concepito il tema inadegua-
pedibus saltarcnt : inter guos rictores ii censebantur , qui ita fte.se
dextere t/erebant, ut prae lubricitate /turni non cadereni; atque
hi prò rictoriae proemio utrem cum oino ferebanl; </ui vero terroni
manibus percutiebant, non sine magna voluptate speetatoribus ri-
sani rnocebant. Id miteni obseroatum in Bacc/to ladis dieatis, guos
ascolias vocabant , proditur; in quibus utres caprinis pellibus
conflati saltiòus calcabantur in caprarum contemplimi, quae adeo
riti bus in/'estae rider entur. De bis Virgili tts :
... atque inter pocula laeti
Mollibus in pratis unetos saliere per utres.
(Georg. II, vv. 382-383).
Questo dice Mercuriale (De Arte Ggmnastiea, lib. II, cap. XI,
coll. 572-573) immaginandoli pieni di vino. Ma gli otri in questo
passatempo volgare potevano anch’esser pieni di sola aria. Pol-
luce infatti definisce il giuoco in questo modo: Ascoliàzein si
dice anche il saltar sopra un otre vuoto, ma gonfiato d'aria ed
unto in modo che per la lubricità si poteva scivolare (loc. cit.,
lib. IX, cap. VII, segni. 121, pag. 1107). Che sia dai versi citati
di Virgilio o da un trattato qualsiasi di ginnastica che parlasse
della ascolia che il Chiabrera trasse l’idea della sua peregrina
invenzione?
— 157 —
tamente; egli, dopo aver lodato il giuoco come fonte di
valor guerresco (1) e averlo paragonato alle prore di
possanza fatte dalla gioventute Argiva sul campo Eleo (2),
ed essersi domandato:
Quali armati furori
Virtù d’uomini si destri e sì possenti
Unqua terranno a segno t (3),
quasi stanco e pentito di aver spinto il suo tema a pro-
porzioni immeritate, esce fuori con quei due versi:
Trastullo militar, scherzo ben degno
Del saggio Re, che n’arricliì le genti (4),
coi quali par che ci voglia ammonire che le lodi fatte
del giuoco sono eccessive e che in fondo non van presi
sul serio nò il giuoco nè le lodi di esso. Così raffred-
datasi ancor più la non giù accesa inspirazione e ab-
bassatosi il tono della concezione, il poeta cade senza
neppur accorgersene in quella bislaccca e intempestiva
invenzione degli otri gonfiati; la quale tenta poi invano
di rialzare nelle ultime battute con le saggie menti che
spesero poi l’ingegno e l’arte intorno al giuoco e con
il titolo pomposo di Gioco di Marte (5).
La seconda delle tre poesie in questione è intitolata
Per li giocatori del pallone in Firenze restate dell' anno
1019. In essa la digressione, fatta, a imitazione di Pin-
daro, con lo scopo di ampliare e di illustrare il tema,
è assai più propria e opportuna della precedente ; non
spiace questo allargarsi della poesia a ricercar l’origine
della fronda, onde si devono incoronare i vincitori nel
giuoco; anzi l'invenzione ha più dell’altra sapor pinda-
rico, perchè un processo su per giù eguale troviamo
nell’Olimpica III, in cui si legge come Ercole trapiantò
(1) LXI, strofa 3.
(2) LXI, strofa 4.
(3) LXI, strofa 6, vv. 50-52.
(4) LXI, vv. 53-54.
(5) LXI, strofa 10, vv. 86-90.
- 158 —
sulle rive dell’Alfeo gli alberi eletti a incoronar i vincitori
nei giuochi. Nella canzone del Cliiabrera, la musa stessa,
Melpomene, interrogata dal poeta, narra come nacque
l’albero, che dovrà fornir la fronda delle nuove vittorie.
Era Acero un bello e biondo e forte guerreggiai or
di belve per le frigie selve (1), e la ninfa Elvida si strug-
geva d'amore per lui. Ma poiché a nulla valevano i suoi
lamenti nè i pianti nè le preghiere a smuovere il cuore
del crudo garzone, al line la ninfa, disperata, prega Ci-
bele di far le sue vendette. L'ascolta la Dea e la vendica.
Un giorno mentre Acero era a caccia per le selve, sentì
il piede piantarsi e ficcarsi in terra e tutte le sue forme
tramutarsi in quell’albero, che da Acero è chiamato e
dà le fronde al vincitor del pallone.
La favola, come si vede, non ha grande pregio di
originalità: è una variante di quella notissima di Dafne,
cambiata in lauro, mentre fuggiva da Apollo. Anzi non
solo si sente in essa l’influenza della narrazione ovidiana
delle Metamorfosi (2) e specialmente dei versi che ac-
cennano alla instituzione dei giuochi Pitici (3), ma ancora
la descrizione della trasformazione di Elvida ha punti
di contatto e anche frasi comuni con quella della me-
tamorfosi di Dafne, che si legge nella traduzione del-
PAnguillara (4), poiché il piè veloce che piantasi a terra
del Chiabrera (5), ricorda assai da vicino il piè veloce che
s'appiglia al corso (6)dell’Anguillara; e i versi del primo:
E verdi rami gli si ter le braccia
E rozza scorza gli adombrò la faccia (7)
ci chiamano subito alla mente quelli del secondo:
(1) LXll, vv. 22-23.
(2) I, vv. 450-567.
(3) I, vv. 445-452.
(4) I, strofe 119-154.
(5) LXII, vv. 57-58.
(6) I, strofa 151.
(7) LXII, vv. 59-60.
— 159 -
Le cinge intorno una novella scorza
Che dal capo alle piante si distende
Crescon le braccia in rami e in verdi fronde
Si spargon l’agitate chiome bionde (1).
Eppure, dopo questa, se non originale, propria almeno
e opportuna amplificazione, la quale non avvilisce l'ar-
gomento come la trovata meschina degli otri gonfiati
di Ulisse e della sua sciocca plebe, ma l’innalza ade-
guatamente; dopo un altro accenno ai giuochi antichi,
il quale di nuovo dimostra che nel pensiero del poeta
i giuochi del suo tempo con gli antichi potevano egua-
gliarsi (2); dopo l’espressione d’un concetto veramente
pindarico: che basta cioè come premio ai vincitori una
bella fronda (3), e il vanto della poesia (4); è singolare
e doloroso notare come il poeta lasci cader l’alto tono,
in cui aveva accordato la sua cetra, e termini meschi-
namente il suo canto.
Infatti, se già pare fuor di posto la dichiarazione
ch’egli più volentieri coronerà con la fronda dell’acero
il capo dei giovani altieri , perchè dice :
Del tronco istesso anco guernite
Il nudo braccio, ove a contesa uscite (5),
spiace poi assolutamente la chiusa:
Ma Cosmo, la cui luce alma richiama
D’Italia i bei sembianti,
1 cui fulgidi vanti
Anco l’invidia a riverire impara.
Di cui poggiano al ciel pensieri e voglie
Largo dell’oro arricchirà le foglie (6);
dove non so se sia più da lamentare l’esagerata adu-
lazione o l’inopportuno richiamo alla generosità del prin-
(1) I, strofa 150.
(2) LXII, vv. 3-8.
(3) LXII, vv. 68-69.
(4) LXII, vv. 71-74.
(5) LXII, vv. 69-70.
(6) LXII, vv. 75-80.
— 160 —
cipo. È certo però che il nobile concetto, tutto greco e ve-
ramente pindarico, della corona e dell’innó unici premi
al vincitore, è sciupato completamente daH’ultimo verso.
Voleva con esso il poeta dire che Cosimo era, o pre-
gare che Cosimo fosse, generoso coi soli giocatori oppure
anche un po’ con chi lui e loro esaltava in tanti bei
versi?
La terza poesia, Per Cintio Venanzio da (agli vin-
cilo)' ne’ ginoc/ti del pallone celebrati in Vivenze l cala le
dell’anno 1619, non è solo la più bella delle tre che
trattano del giuoco della palla, ma è una tra le più belle
liriche del Chiabrera (1).
Essa non ha, còme le altre due e come tant’altre dello
stesso poeta, digressione mitologica: ma si svolge tutta
con pensieri tratti dalle viscere stesse dell’argomento.
Comincia dal concorso dei giocatori : ne son venuti da
ogni parte d’Italia: dal vago Urbino (2), da Venezia,
allevo albergo Dell’ aurea liberlade (3), da Milano dal-
V ampie strade { 4) e da Osino e da Ancona (5) e da Verona
di Marte e di Permesso (6).
E con sembiante a rimirar sereno
Firenze mia ben gli raccolse in seno (7).
E son tutta
(1) Prova ne è che essa ricorre più frequente delle altre nelle
antologie e nei manuali di letteratura che van per le mani della
gioventù studiosa. Essa fa bella mostra di sò, tra gli altri, nel-
I’Ambrosoli, nel Carducci, nel Torraca, nel Bacci e D’An-
cona: e questi valentuomini non son tali da copiarsi gli uni dagli
altri.
(2) LXI1I, v. 4.
(3) LXIII, vv. 11-12.
(4) LXIII, v. 14.
(5) LXIII, v. 16.
(6) LXIII, vv. 17-18.
(7) LXIII, vv. 19-20.
- 161 —
Gente quadrata e che nervoso il braccio
I pie’ quasi ha di piume (1)
od è tollerante del freddo e del caldo e d’ogni disagio (2).
E pure di valor Cintio la vinse
E dell’Acero illustre il crin si cinse (3).
Tatto quest'esordio, se da una parte è grandioso
perchè ci fa pensare involontariamente alla grande so-
lennità dei giuochi greci, ai quali straordinaria folla di
popolo accorreva da tutta l’Ellade e dalle Colonie, dal-
l’altra è vero e opportunissimo, perchè è innegabile
che, se destavano gli spettacoli di tal natura grande
entusiasmo ai tempi del Chiabrera, se frenetiche accla-
mazioni salutavano i più valenti giocatori e onor stra-
grande si concedeva al vincitore, se lo spirito del poeta
in mezzo a tutta questa eccitazione si poteva riscal-
dare da averne destata l’inspirazione, tutto questo pur si
doveva in gran parte al trovarsi nelle medesime gare
concorrenti di parti diverse d’Italia e al parteggiar che
facevano gli spettatori per i giocatori dell’una e del-
l'altra regione (4).
La menzione di Cintio invita poi il poeta a dipingerne
la robusta e snella persona e a contemplarne la pos-
sanza e valentia; questi due vocaboli veramente egli
non li nomina: ma alla valentia accenna e dà risalto
con una perifrasi mirabile per forza di sintesi e per
energia e lucidezza rappresentativa: dar legge al volo
delle grosse palle (5); la possanza indica efficacemente,
(1) LXIIl, vv. 21-22.
(2) LXIIl, vv. 23-24.
(3) LXIIl, vv. 29-30.
(4) Chi conosce ciò che avviene ancora oggidì, quando nei
piccoli centri di provincia si l'anno le gare col pallone e vi con-
corrono i giocatori dei paesi circonvicini, avrà un’immagine, certo
un po’ sbiadita, di quel che succedeva allora.
(5) V. 36.
u
— 162 —
riproducendo nel verso l’impressione che di essa ha con-
servato l’udito, che forse fu dei suoi sensi quello che
l’ebbe più profonda. Ho detto forse, perchè quando un
poeta, nel descrivere un fatto, ricorre a questo mezzo
efficacissimo e quasi suggestivo di rappresentarlo con
una delle impressioni che ('gli ne ha riportato, noi non
possiamo discutere se egli avrebbe fatto meglio a sce-
gliere piuttosto I’una che l’altra impressione; questo è
affai’ soggettivo di lui; noi abbiam solo il diritto di con-
trollare, prima, se l’impressione fu verace ed è sincera-
mente riprodotta; poi, se essa fu profonda sì da destar
la fantasia e spingerla a comporre e ritrovare un'imma-
gine viva e poetica da deporre nel verso. Ora il Chia-
brera, scegliendo l’impressione acustica avuta dai colpi
di Ci ntio per rappresentar la sua forza e destrezza, foce
invero una buona e opportuna scelta, perchè il rimbombo
del colpo sta in relazione diretta con la violenza di questo
e la violenza di questo con la forza con cui fu dato. Sicché
dalla frase
E tutto rimbombar l’aereo calle
Alle percosse intorno(l)
balza fuori viva e spontanea l’idea della forza del gio-
catore. Il che avviene, perchè il poeta, tra le varie im-
pressioni riportate dallo spettacolo, fu pronto e docile
ad accettar quella che, per essere stata la più profonda,
era anche stata la più durevole e nell’atto del comporre
era ancora in lui la più potente cioè la più atta a de-
stargli e riscaldargli l’inspirazione.
Mi son trattenuto alquanto a ricercar la genesi e la
formazione estetica di questi versi, non solo perchè mi
parvero belli in sè, ma anche perchè diedero argomento
ad alcune critiche che non sarà inopportuno discutere.
L’Ambrosoli, riportando nel suo Manuale questa can-
dì Vv. 37-38.
— 163 —
zone ilei Chiabrera, al verso Dar legge al volo delle grosse
■ galle , appone questa eli iosa :
Grosse palle — L'autore si studia di dare al suo sog-
getto quella nobiltà che nel cero non gli appartiene
uà per questo può sollevarlo alla dignità lirica. Non
ogni cosa à degna di essere celebrata poeticamente : e
la frivolezza ha un difetto intrinseco che non può
essere pienamente ammendato da nessuna bellezza di
stile o di verso (1).
Lasciando da parte che grosse palle è un termine
tecnico, il quale indica, delle varie forme di giuoco, la
più nobile e difficile c faticosa, che era quella appunto
a cui Cintio giocava, l'Ainbrosoli basa la sua critica sopra
i principi di un’estetica ormai tramontala. Se si dovesse
sopprimere tutta la poesia che ha per argomento sog-
getti frivoli e leggeri, si eliminerebbe gran parte, quasi
direi la massima parte, della letteratura antica e mo-
derna. Il che vai quanto dire che non ò la materia che fa
la vera ed eterna poesia, ma l’arte con cui è trattata ;
quell'arte divina che col suo soffio anima di vita im-
mortale qualsiasi argomento e basta da sola a sollevarlo
a qualsiasi dignità e nobilitarlo pei- qualsiasi più ele-
vata forma poetica. E se anche alla mente dell’Ambrosoli,
chiusa nel pregiudizio della sua teoria estetica, non si
affollarono gl’ influiti esempi, antichi e moderni, a farlo
ricredere del suo errore, come potè egli dimenticare che
il medesimo soggetto, trattato dal Leopardi, aveva acqui-
stalo dignità e bellezza lirica pari a quella che si riscontra
in tutte le altre poesie di lui?
II Venturi poi, riferendosi a questa nota dell'Ambro-
soli. nega chi- l'argomento scelto dal Chiabrera sia per se
sfosso frivolo, lo non credo, scrive l’illustre critico, che
i difetti di questa canzone provengano dalla frivolezza
(1) Manuale della Letteratura Italiana, compilato da F. A.vi-
brosoli, Firenze, Barbera, 1372, v. Ili, pag. 35, nota 3.
— 164 —
del tema, perchè la forza e la destrezza possono be-
nissimo inspirar lìoesia (1). E ha ragione. Al Goothe
infatti, l’intelletto forse più pagano dei tempi moderni e
quindi il più atto a sentire tutta la poesia della forza
e della destrezza, la visione dei giocatori ammirati a
Verona si converte subito in un’immagine di bellezza.
K naturalmente, senza sfm'zo, si producono delie mo-
reme e degli atteggiamenti bellissimi Specialmente
bello è V atteggiamento di chi, correndo già dal tram-
polino incontro alla palla, lancia il primo colpo. Si.
avvicina molto al gladiatore della galleria Borghese (2).
11 Goethe dunque, che aveva fine, acuto e pronto il senso
della bellezza plastica, che gli antichi, i Greci specialmente,
prediligevano sovra ogni altra bellezza, subito la scopre
nelle movenze e negli atteggiamenti dei giocatori e,
compiacendosi nel ripresentarsela e nell’ammirarla, ecco
il suo ricordo atteggiarsi in fantasma poetico e richia-
margli al pensiero l’immagine della bella statua antica.
E che è questo, se non una delle bellezze del giuoco,
capaci di diventar poesia in chi le sa rilevare e sentire?
Nel rimpianto con cui il grande poeta fluisce la sua no-
terella Perchè non farlo nell' anfiteatro, ette sarebbe
così bello? (3), noi già sentiamo accenderulisi la fantasia e
quasi vediamo delinearsi e agitarsi nel suo spirito un
complesso di sensazioni, d’impressioni, di visioni este-
tiche e di reminiscenze antiche, le quali, poco più che la
mente vi si fosse fermata sopra, si sarebbero avviate a
divenir vera e propria poesia. Il giuoco dunque, esercizio
di forza e di destrezza, ha in sè la virtù di destare imma-
gini di bellezza in una mente atta a riceverle. Ora, se
a questa sua virtù si aggiunge il concetto della sua
(1) Giornate Storico della Letteratura Italiana, voi. IX, pa-
gina 437.
(2) W. Goethe, Viaggio in Italia, Horaa, Officina poligrafica
italiana, 1905. Traduzione di A. Tomei, pag. 31.
(3) 11)., pag. 32.
— 165 —
benefica efficacia sopra lo sviluppo delle forze fisiche e
morali ; e se il concettò pindarico, rimasto astratto e
teorico nel Chiabrera, delle virtù militari che per mezzo
di quest’esercizio si acquistano, si mette in relazione
con quello d'una patria bisognosa di buoni cittadini e
valorosi soldati, il giuoco non può non diventare argo-
mentò di alta poesia patriottica e civile.
Ma poiché queste fonti, dond’avrebhe potuto derivare
nelle sue tre liriche un materiale poetico intrinseco e
sostanziale, nonché nobile e utile, vennero a mancare
al Chiabrera, egli s’aggira per lo più intorno al suo
argomento senza approfondirlo, spingendo innanzi lo svol-
gimento con concetti esterni e accessori, ricorrendo
spesso alle amplificazioni digressive all'uso di Pindaro
e mutuando non raramente da lui idee e forme. Di qui
quella innegabile superficialità e leggerezza che l’Am-
brosoli rimprovera al soggetto, ma che più giustamente
si dovrebbe addebitare alla qualità dell'ingegno del poeta
e alle condizioni tristi del suo secolo: di qui anche il
falso modo onde questi (il Chiabrera) considera e tratta
il tema per ingrandirlo e gonfiarlo, per imitar Pin-
daro, per inalzare ed esaltare il suo braco giocatore
di pallone, come fosse esso vincitore di pubblici giuochi
nel circo all'oliato dei popoli di Grecia, che spiacque
al Venturi (1).
Ma per tornare all’analisi della poesia, lo stesso Venturi
biasima come esagerata e sforzata la similitudine con
cui si chiude il passo finora discusso:
Qual se Giove talor fulmini avventa
E squarcia i nembi e i peccator sgomenta (2).
Ma salvo l’accenno mitologico, suggeritoevidentemente
al poeta dal desiderio di dare alla poesia un’intonazione
(1; Loc. cit., pag. 43s.
(2) LXIII, vv. 89-40.
— 166 —
sempre più pindarica, io non trovo nell’immagine tutta
quella esagerazione e quello sforzo che ci vuol vedere il
Venturi. Anzitutto bisogna tenere a mente che ilChiabrera
era naturalmente inclinato a colorire con forti tinte
quell’impressione acustica che dovette essere, come si
disse, la più forte ch'egli riportò del giuoco, e che la
similitudine continua benissimo un linguaggio già colorito
qual’è il rimbombar dell'aereo calle per le percosse.
In secondo luogo è ancor dubbio se la similitudine sia
realmente esagerata. Certi colpi, dati da giocatori valenti
e robusti, sembrali veramente scoppi di tuonò; o lo può
sapere chi sia stato, anche una volta sola, in uno ste-
risterio: tant’è vero che anche altri poeti non rifuggi-
rono daH’adoprarla in semplici descrizioni, senza avere
forse quelle buone ragioni di farlo che il Chiabrera
aveva. Taccio del Marino, gonfio anch’esso, il quale spinge
veramente l’immagine fino all’ultimo limite della verosi-
miglianza. È Apollo che parla:
Perchè vo’ che con scoppio e con rimbombo
Stiglia a le nubi e poi trabocchi a piombo (1).
Ma il Forteguerri è poeta semplice e schivo d’ogni gon-
fiezza di forma e di concetto. Eppure non si peritò di
scrivere:
Citi ha veduto giocare al pallon grosso
Può dir d’aver veduto la tempesta (2).
E per aggiungere ancora la testimonianza auricolare
(l’un moderno, il De-Ainieis dice del Bossotto che faceva
delle battute come cannonate (3).
Quindi, da questo lato, la similitudine non ha nulla
di esagerato; ma se il Venturi non avesse fermato troppo
su di essa la sua attenzione, avrebbe sentito il Seicento
(1) Adone, XIX, strofa 50.
(2) Ricciardetto, canto XXI, strofa 60.
(8) De-Amicis, Gli Azzurri e i Rossi, Torino, Casanova, 1897,
pag. 82.
— 107 —
entrar più clamorosamente, con tutto il corteo delle
suo turgidezze e stravaganze, nei versi elio seguono:
K tu se il corpo lasso
Lavar desii, e rinfrescar le vene,
Non ricercar quaggiù acque terrene.
Figlie d’alpestre sasso:
Chè a ristorar delle fatiche oneste
Altrui versi di l'indo acqua celeste (1).
Nei quali, se appai* veramente inesperta l’arto con la
quale il linguaggio proprio si intreccia col figurato, l’im-
magino dell’acqua di l’indo, la quale, versata dal poeta,
deve ristoravi’ il suo campione delle fatiche Oreste non
solo, ma tarargli il corpo tasso e rinfrescar le rene,
è quanto di più secentistico si potrebbe trovare.
A questo punto il poeta, abbandonata la trattazione
oggettiva del tema, piega questa sua canzone, come
già aveva fatto con la precedente, a dir le lodi del Gran-
duca. Il trapasso però ò singolare. Il poeta quasi sgo-
mento della promessa d’essere il glorificatore del suo eroe
tutto si conturba :
Deli che promisi ? In sul formar gli accenti
Quasi cangio sembianti,
Chè darli alla bilancia delle genti
E’ risco ai nuovi canti (2).
A parte quest’ultra esagerazione del cangiar sembianti
che dovrebbe essere l’effetto d’una commozione che noi
non sentiamo nel poeta, che cosa intend’egli con i nuoci
canti? Non certo canti d’imitazione pindarica, poiché
prima di queste liriche del pallone altre e altre di
stampo pindarico n’aveva egli già pubblicate ed erano
state accolte con tale favore da non dover più aver dubbio
alcuno su di esso. Dunque non della nuova arte (‘gli
poteva dubitare: piuttosto dubita del soggetto preso a
(1) LXIII, vv. 55-60.
(2) LXIII, vv. 61-64.
— 168 —
trattare, cioè del giuoco. E infatti il poeta, non essendo
potuto assurgere a considerar questo sotto i tre aspetti
che abbiali detto sopra, i quali lo avrebbero reso degno
di qualunque forma poetica, par quasi che diffidi che
un cosi semplice esercizio potesse essere approvato come
argomento d'una lirica pindarica, o almeno potesse esser
creduto capace di dar tanto onore, quant’egli n’aveva
promesso: si trova quindi qui nelle medesime condi
zioni di sentimento, in cui si era trovato quando aveva
chiamato il giuoco trastullo militar, scherzo ben degno;
e in entrambi i casi quelle condizioni furono determinate
nell’animo suo da un’ insufficiente estimazione del tema.
Il soggetto, quindi, poco valido per sè, si valga dell’alta
protezione di Cosimo:
Ma sia vano il sospetto
In sulla cetra vo’ seguir mio stile ;
Esser cosa non può, salvo gentile
Ove Cosmo ha diletto.
Invidia taci, e le rie labbria serra ;
Il Re dell’Arno in suo piacer non erra(I).
«
Cosi si spiega come tuia poesia cosi bella abbia potuto
avere una chiusa cosi infelice, se pur non si vogliono
ricercare altre ragioni più personali, che certo avrebbero
pur esse il loro valore.
Le digressioni amplificative ed esornative non sono
il solo amminicolo dell’arte pindarica che il Chiabrera
abbia trasportato nella sua poesia : un altro, anche più
frequento, è la comparsa della persona del poeta nel-
l’argomento oggettivo del tema. Ogni momento l'io
compare a interrogare, a rispondere, a ricordare, ad
ammonire, a giudicare, a lodare, a correggere secondo le
esigenze del contesto. Ma in Pindaro, questo suo intro-
mettersi nella poesia aveva una ben alta ragione. Poeta
(1) LXIII, vv. 65-70.
169 —
e profeta a un tempo, egli era ai suoi stessi occhi
e a quelli dell’eroe celebrato e a quelli del popolo plau-
dente il dispensiere di gloria, l’alunno caro alle muse,
il quale doveva immortalare coi suoi canti i grandi fasti
<lella patria e con essi la gloria del vincitore. Santa era
quindi la riverenza verso di lui, indiscussa la sua auto-
rità; la sua parola inspirata aveva quasi il valore del
responso dell’oracolo. Libero quindi egli, scelto il suo
eroe e i modi della sua canzone, non solo di lanciarsi
a volo sulle ali dell’inspirazione ad afferrar lontano quel
mito o quella leggenda o quella tradizione che più va-
lessero a illustrar il suo argomento, ma d’intervenire
a spiegare il senso della digressione scelta, a metterla
in relazione col tema, a sottolinearla nei punti più im-
portanti, a fissarla negli incerti, a correggerla negli errati ;
spesso poi a dar sentenze gravi, che diventavan massime
di sapienza e di giustizia.
Quello quindi che in Pindaro ò il prodotto di condi-
zioni particolari del suo ingegno e dello spirilo dei tempi,
nel Chiabrera è invece un metodo esteriore di compo-
sizione, un vezzo così abituale che, per ripetersi troppo
spesso e senza necessità, diventa alfine monotono e te-
dioso. 1 pretesti per intromettersi sono talvolta addirittura
futili, come quello, per esempio, con cui incomincia la
canzone a Cintio, dove il poeta dice alla Musa: « lo son
vecchio: mal mi reggon le gambe; va tu, Euterpe, a l'r-
bino ad annunziar la vittoria del germe di Cagli »; sicché
la poesia comincia e, come s’è veduto, finisce con pre-
sente la persona del poeta. Nella prima delle tre liriche
del pallone, dopo un breve e ben fedele quadro dello
opere di pace in cui si va esercitando la gioventù to
scana, volendo il Chiabrera ricordare che il medesimo
facevan gli efebi greci, non ci trasporta dilettamente a
quei tempi con un cosi sul campo Eleo, ecc., che avrebbe
data al passo tanta più forza e vivezza, ma ci trascina
sulla scena dei giuochi antichi, facendoci passare attra-
verso a una sua reminiscenza soggettiva :
— 170 —
Io ben già mi rammento
Sul campo Eleo la gioventute Argiva
Far prova di possanza (1),
la quale reminiscenza ritarda in noi la visione di quella
scena e raffredda per conseguenza la rappresentazione.
Nella lirica seconda ancora il poeta interroga la Musa:
Or sull’Arno a Gioventù che spande
Sudore in giuochi egregi.
Melpomene, quai fregi,
Deh dimmi, e quali si daran ghirlande ? (2),
interrogazione che ricorda l’apostrol'e di Pindaro nel
principio della seconda Olimpica; e nella stessa lirica è
ancora lui che promette al vincitore di incoronarlo con le
proprie mani (3): cosa che ripete poi, come vedemmo
nella canzone a Cinlio, togliendola anche (pii da 1 in-
duro (d). Ma a che moltiplicar gli esempi, se, omettendo
quelle in lode del sommo pontefice Urbano Vili, delle
ottanta canzoni eroiche del Chiabrera, solo in otto non
compare direttamente la persona del poeta e ancora in
queste si potrebbe trovar la ragione perchè non com-
pare ? Dato del resto il carattere morale del Chiabrera,
abbastanza amante di sè e non privo di una certa qual
superbietta, d’un’ambizioncella che non lo rendeva punto
schivo ‘dalle distinzioni e dagli onori, non ò a stupire
che tanto volentieri facesse della persona prima quel
cosi largo uso che, mentre soddisfaceva al suo amor
proprio, aveva la sanzione di abbondanti esempi nell’opera
del maestro (5).
Lo invocazioni alla Musa in generale o a qualcuna delle
(1) LXI, vv. 32-34.
(2) LX1I, vv. 11-14.
(3) LXI 1 1 , strofa 7.
(4) 01. 1, strofa 15.
(5) Delle 14 Olimpiche in 11 entra la persona del poeta; nelle
Pitie, nelle Nemee e nelle Istmiche, entra in tutte, tranne nella
seconda Nemea e nella terza Istmica.
— 171 -
Muse in particolare son troppo frequenti presso i poeti,
perchè il ritrovarne spesso e in Pindaro e nel Chiabrera
possa ritenersi come una nuova prova della dipendenza
del secondo dal primo: benché l’abbondanza di esse e il
metodo quasi omogeneo di usarle, indichi lontanamente
una stessa maniera di poetare, come pure la indicano
le frequenti interrogazioni comuni ai due poeti. Però
più notevoli sono le apostrofi alla cetra. Di queste Pin-
daro ne ha due che son note: quella con cui comincia
l’Olimpica prima e l'altra della Pitica seconda. Il Cliia-
brera di apostrofi dirette alla cetra ha un solo esempio
nella sua prima canzone eroica (1); può darsi che, latto
più cauto, si sia astenuto in seguito da un’imitazione
cosi palese; ma gli accenni alla cetra son tuttaltio cln
rari nelle sue liriche (2). Non meno caratteristiche e a
quelle affini sono le apostrofi al cuore, all’anima, all in-
gegno. Pindaro ne ha una al core nell Olimpica seconda:
Ma al segno ornai l’arco dirigasi.
Or su, cor mio, chi colpirem dall’ilare
Mente scagliando ancora i dardi splendidi ? (3).
Un’altra pure al core ha in uno scolio frammentario al
giovinetto Teosseno, sulle cui ginocchia egli sarebbe
spirato secondo la leggenda:
Meglio era duopo cogliere, cor mio,
Con giovinezza a sua stagion l’amor Off.
Nè dissimile da queste, dal lato logico come da quello
della formazione tecnica, è l’apostrofe bellissima alla
bocca
(1) I, strofa 1 e 7.
(2) IV, strofa 9; IX, strofa 1; XXII, Strofa ultima; XXIX,
strofa 2; XXXI, strofa 8; XXXII. strofa 8; XIII, strofa 5 e 10;
LXXII, strofa 2, ecc.
(3) Pindaro, tradotto dal Fraccaroli, ed. cit., 01. H, ami-
strofa 5, pag. 210.
(4) Ib-, pag. 17.
O bocca, gittalo
Lungi questo discorso; chè offendere i Numi
[è inviso studio,
E il vanto inopportun s’accorda al suor;
Del folle. Or non presumere
Cianciar tai cose; lasciale
Le battaglie dei Superi
Starsi e le guerre, e la tua lingua recala
Di l’rotogenia all’auree ... ecc. (1).
Il Chiabrera, secondo l’esempio di Pindaro, parla assai
volentieri al suo core e alla sua anima:
Anima, eccoci intorno un mar che freme,
Mar che nasconde i lidi... (2),
che è una variante del concetto di Pindaro espresso nella
Nemea IV :
Or s’anco in mezzo un’ampia
Marina onda distendasi
Sii tu a resister provvido (3),
dal quale derivati pure le altre due apostrofi al core;
Cor mio, non veniam meno;
Fatti franco per via (4)
e
Cor mio, soverchio ardito
Oggi inalzi le vele (51.
Ma, messosi per questa via. il Chiabrera spinge la
cosa lino all’esagerazione: cosi spesso ama rivolgere il
discorso a sè, seguendo la naturai sua inclinazione a
parlar della propria persona; e per lo più questo fa per
interrompere una simulata inspirazione, dalla quale egli
finge di temere d’esser trasportato troppo lontano:
(1) Ib., Ol. IX, strofa 2, antistrofa 2, pag. 288.
(2) Chiabrera, XLI, strofa 7.
(3) Fraccaroli, loc. cit-, strofa 5, pag. 565.
(4) Chiabrera, LXXIII, strofa 8.
(5) Ib., LXY, strofa 7.
Dove corro io? di si veraci lidi
Per lo ciel cosi puro
Ben potrei sulle piume in vari modi
Per lunga via dedaleggiar securo :
Ma fren severo e duro
Che di bell’inno ai canti
Piccolo spazio trasvolar consente
Fa ch’io non passi avanti (1);
e altrove:
Vaneggio forse che per l’aria a volo
Sembrano i versi miei batter le piume? (2);
e ancora:
Deh dove corro ? oblio
L’uso del mondo? (3).
Tra i quai modi di arte, che invano cercano di masche-
rare una simulata inspirazione, io non esito a mettere il
Ma che promisi ? ecc. (4)
della canzone a Cintio e tutti far derivare dall’uso pin-
darico di dirigere la parola alla cetra o al core o al-
l'ingegno.
Le sentenze, gravi e gravemente espresse, tratte sem-
pre daH'intima essenza dell’argomento, sono una delle'
particolarità più note dell'arte «li Pindaro. Anche in queste
lo imita il Chiabrera. Nelle tre liriche del giuoco della
palla, tre ne ha, una per ciascuna ode: nella LXI, lo-
data la gioventù toscana di prepararsi con gli esercizi
all’arte guerresca, dice:
Non è vii meraviglia
Dal diletto crearsi il giovamento,
Quinci ben si consiglia
Un cor nell’ozio alle bell’opre intento (5).
(1) XLIII, strofa 8.
(2) LI, strofa 8.
(3) LXXIII, strofa 12.
(4) LXXIII, vv. 61-64.
(5) Vv. 30-34.
— 174 —
Leggera sentenza forse, perchè troppo ovvia: inoltre i due
concetti che la compongono, avendo tra loro poco nesso,
non le dànno quelLimpronta saldamente fusa che è ne-
cessaria all'aforisma.
La sentenza della lirica LXI, che la virtù s’avanza
or’ e Ila di merci* prende speranza (1), è poco significante
per l’ambiguith del vocabolo merci», il quale, se da una
parte si può riferire alla corona che si dava al vinci-
tore sul campo Eleo, poco prima menzionata, dall alti a
fa pensare troppo facilmente al concetto prettamente
utilitario con cui si chiude la poesia, perdendo cosi ogni
efficacia gnomica.
Nobile in sè e nobilmente espressa è la sentenza della
lirica a Cintio:
Cintio, sentier di desiata gloria
Ila passi gravi e forti:
Ma pena di virtù, siati in memoria,
Non è senza conforti (2).
È, come ognun vede, il concetto dantesco del In fumo non
si rieri , ecc., degno veramente d’uiia poesia di carattere
pindarico. Esso segna il punto culminante a cui arriva
la bellezza della canzone a Cintio, la quale dopo discende
e degenera nella falsa immagine secentistica dell'acqua
celeste di Pindo che deve ristorar le fatiche oneste di
Cintio , per finire con un dubbio inopportuno e con la
solita adulazione. La presenza delle tre sentenze nelle
tre liriche dimostra ancora chiaramente quanto abbia
influito Limitazione pindarica a render monotona e uni-
forme la tecnica dell’arte chiabreresca.
Nelle due prime liriche la sentenza che precorre o
segue immediatamente il ricordo degli onorati giuochi sul
campo Eleo è una prova che l’occhio del poeta era ancor
tutto intento al modello greco. Nella lirica a Cintio, il
(1) w. n-12.
(2) Vv. 51-54.
— 175 —
Chhtévora si sforza evidentemente di distaccarsi da esso :
non fa più nessuna menzione dei giuochi antichi: non
fa più nessuna citazione mitologica: la scena è tutta
nei tempi suoi, popolata ila gente sua contemporanca.
V’è quindi dentro un soffio di vita; vi s’ammira un quadro
abbastanza fedele o caldo della realtà. Pare in essa che
il poeta, affrancatosi, almeno in parte, dal giogo dell'imi-
tazione pindarica e remota l’ombra fredda d’ogni remi-
niscenza classica e mitologica, si senta più libero di
esplicare le qualità migliori del suo ingegno, cioè il suo
spirito sagace di osservatore e la sua arte di descrit-
tore (1). E ci vien fatto di pensare che se il Gbiabrera,
per ricondurre tra di noi la lirica di Pindaro, non si
fosse cimentato con una l’orma letteraria da cui erano
troppo disformi le forze del suo ingegno e che gli era
contesa dalla tristizia dei tempi, e se le varie attitudini
sue di descrittore e di figuratore e di stilista avesse ri-
volto ad altri generi letterari, in cui dimostrò di saper
meglio riuscire, avrebbe senza dubbio raggiunto un più
alto segno di perfezione. Ma non erano atti i suoi tempi
a una lirica civile e patriottica, quale sarebbe dovuta
essere quella imitata dal poeta Tebano: prima che 1 Italia
abbia potuto avere una lirica clic alla pindarica si avvici-
nasse, convenne che tutta la coscienza popolare si trasfor-
masse radicalmente sotto il benefico influsso della civiltà
greca penetrata finalmente nell'anima italiana. Solo col
classicismo, cioè con il rinascimento più completo e più
vitale della civiltà greca, essa potè sorgere per opera
del Parini, del Foscolo e del Leopardi.
(1) La rara abilità e la rara valentia pittorica del Chiabrera
si rileva specialmente nell’uso dell'epiteto. Pochi poeti furono ori-
ginali (pianto lui nel ritrovarne dei nuovi e nell’unire vocaboli
solitamente disgiunti , tanto che ne sgorgasse la eosidetta « felix
coniunctio ». Molti poeti posteriori derivarono da lui concezioni
poetiche, giri di frasi ; come il Monti il Foscolo d Pindemonie
(Venturi, loc. cit-, pag. 431), a cui io aggiungerei il Parini e il
Manzoni.
— 176 —
• #
Fu l’influenza del carattere pindarico delle tre liriche
ilei Chiabrera c’abbiamo esaminate, oppur la reale af-
fluita dello spettacolo d’un giuoco di palla fatto con
pompa in un grande sferisterio con i solenni giuochi
antichi, la ragione per cui noi, a proposito appunto di
quell’esercizio, troviamo menzionato Pindaro in un poe-
metto d’un poeta bolognese della fine del secolo XVIII?
Non saprei rispondere; ma sia l’una cosa sia l’altra, è
questa di certo una prova novella che in quello spet-
tacolo qualcosa c’i'* dei giuochi antichi e che altro ar-
gomento più pindarico nei tempi moderni non esiste.
Bologna, insieme con Firenze e Ferrara (1) (e aggiun-
giamo, col Ricci, anche Urbino) (2) fu sempre una delle
città italiane, dove il giuoco della palla era tenuto in
maggior onore; lo tracce di esso, antiche e frequenti,
ne sono una testimonianza luminosa: il giuoco dopo aver
vagato qua e là per le vie cittadine (3), s’era fermato
nei pressi della Montagnola, ove s’era costruito un gran-
dioso sferisterio di classica architettura (4), che divenne
il campo di gare illustri. Lo sferisterio fu costruito nel
177G ed il poemetto menzionato fu pubblicato nel 1780.
S’intitola La Montagnola di Bologna e ne ò autore un tale
Iacopo Tarulli (5). Il quale, volendo illustrare le bellezze
della Montagnola, passa in rassegna gli splendidi monu-
menti che l’adornano : il magnifico e sontuoso palazzo
arcivescovile, la Chiesa Metropolitana, il placido util
canale detto il Guazzatoio, la chiusa di Casalecchio fatta
(1) Frati, La vita privata di Bologna, pag. 138.
(2) Ricci, 1 teatri di Bologna , pag. 674.
(3) Cfr. Ricci e Frati, loc. cit.
(4) Jb.
(5) La Montagnola di Bologna , Bologna MDCCLXXX, poe-
metto dedicato da Iacopo Taruffi a 1* rancesco Albergati-Ca-
pacelli, Patrizio e Senatore di Bologna, ecc. ecc.
— 177 -
costruire dal celebre Albornoz governatore a latere di
Bologna e il nobile albergo
Alle tre intitolato arti preclare
Ed a I’allade sacro e al biondo nume,
e finalmente lo sferisterio (1).
Ma qual s’affaccia alle inarcate ciglia,
Contemplatrici dell’aperto cielo
Globo volante lenditor dell’etra,
Che il prescritto intervallo or quinci or quindi
In disugual parabola misura ?
Ecco, veramente quel subito veder colle inarcale
ciglia , contemplatrici dell’aperto cielo, il globo volatile
che misura or quinci or quindi il prescritto intervallo
prima di scojfrir con lo sguardo l’edificio non tanto pic-
colo e tale dwservir per giocarvi alla palla, mi pare un
po’ strano; ma lasciamo correre. 11 poeta vede tosto i
giocatori nella quadrilunga arena.
Di cesto armati il nerboruto braccio,
pronti a disputarsi l’onor della vittoria; e gode ammi-
rando il campimi primo, che, appostatosi con feroce
gravità, sta fisso al
Buttator, che si chiama il Mandarino,
mentre tutti gli spettatori pendono dalle sue voglie. Fi-
nalmente ei si lancia 9
A vibrar con precipitevol lena
Contra un pallon buttato il primo colpo.
Il rivale attende la ribattuta e, se può, raffronta egli
stesso; altrimenti
Del compagno ledei chiama il soccorso,
Che pacifico al balzo il globo attende.
Cominciate così le vicende dell' ardente mischia, il poeta
(1) Pag. 2 e segg.
12
descrive con meticolosa abbondanza di particolari i mo-
vimenti dei giocatori,
Finché in tratti più corti e al suol vicini
Fra gli emuli minor cessa il contrasto.
L’appuntatore intanto nota il segno di due fermate,
cioè le cacce (che chiama anche marche)', e le squadre,
cambiato posto, se le vanno disputare; e neppur tralascia
l’autore di notare la regola del giuoco a cacce, le quali
vanno entrambe guadagnate da una sola parte, perchè
il giuoco si compia; altrimenti esso rinasce, tranne il
caso che vi sia una caccia sola, chè allor basta vincere
questa.
A questo punto viene in campo la folla degli spet-
tatori, che partecipa con passione alla partita e
Or plaude, e approva i snelli, or coce e sprona
I neghittosi...
e ondeggia tra le vicende del giuoco
Qual bionda messe alla stagione estiva
Per lo spirar di placid’aura.
Gli occhi di tutti però non sono solo attenti ad osser-
vare le vicende del votante pallone
Ma ad evitarlo ancora e aprirgli il passo
Ovunque il caso e l’impeto lo spinga,
con premura non minore di quella con la quale l’affollata
turba cede il passo alla guardia elvetica, con paragone
che non spiace, perchè sono evidenti c proprio e con
sufficiente abilità messe in rilievo le varie note di somi-
glianza che uniscon tra loro i due concetti.
Sovra il vulgo degli spettatori dunque, cosi intento
a schermirsi del minacciante globo, non erano tese reti
che lo difendessero: e se per essere l’arena più vasta
e capace, più difficilmente potevano accadere disgrazie
mortali, come quella che s’ebbe a lamentare in un giuoco
fatto nel 1602 nel salone del palazzo del Podestà, quando
uno degli astanti ebbe sfracellato il cranio da un colpo
(li bracciale (1), credo che ancor fosser questi del Tarlili!
i tempi barbari in cui si portarmi via dallo sferisterio
donne svenute, radazzi con un occhio pesto, uomini
col naso spiaccicato (2). Ma che fanno al poeta queste
piccole miserie del volgo? Egli vede difeso lo stuol degli
spettatori gentili e gli basta: non che troppo questi
gli interessino in sè; ma egli si rallegra di veder cosi
evitato il pericolo che il pallone cadendo or sulle curve
spalle di Severo Caton del secol nostro, or di Narciso
sull’ambrata chioma venisse
Nel vulgo ìiB eccitar proterve risa
E di scherrW a turbar l’altrui piacere.
A certe pallonate insemina, che non avevan nessun
rispetto nemmen per la boria nobilesca degli illustrissimi
signori, pare che il volgo ci provasse un gusto matto e
s'abbandonasse a clamorose risate, che turbavan la tran-
quillità e la regolarità del giuoco. Ciò spiaceva al poeta
e lascia capire che le reti lo interessavano in quanto ve-
nivano a ovviare a un simile inconveniente.
Eppure un giuoco che ò
Nobile e antica e dilettevol gara;
un passatempo che ò così delizioso e cosi atto ad in-
gannar la noia del caldo vespertino decade e il poeta
soffre vedendo che
V’ha chi trapassando appena appena
La solenne trincea degna d’un guardo.
La ragione? Eccola: Variano i gusti
... e da diverse fonti
Proporzionato aH’Uoni nasce il piacere.
Causa generica e indeterminala, non sufficiente a spie-
gare un effetto determinato e particolare. Forse un em-
(1) Cronica Rianchina della Regia Università di Bologna,
n. 896 presso Ricci, loe. cit., pag. 677.
(2) I)e-Amicis, Gli Azzurri e i Rossi , pag. 51.
- 180 —
brione di concetto più preciso aveva in niente l’autore
e vi accenna con quel proporzionato all’Uom. Sarebbe:
la piccola gente contemporanea ama i diletti piccoli: il
giuoco, esercizio grandioso e violento dà diletto grande ed
energico: fu quindi amore d’altri tempi e d’altri uomini:
non lo potrebbe essere dei nostri. Ma questo concetto,
che potrebbe avere il suo valore, occorreva svolgerlo e
anche dimostrarlo; l’autore non fa nò l'una nè 1 altra
cosa, rivelando la grande imperizia dell’arte sua. E ve-
ramente egli non ba profondità nò di concetti nè di sen-
timenti: concepisce gli uni con poca chiarezza e preci-
sione, sente gli altri con poca forza e vivezza: ci son
quindi nella sua poesia oscurità di pensieri, sovrabbon-
danza d’idee accessorie, indeterminatezza di contorni,
incertezza di tocco. La causa della decadenza del giuoco
così vagamente e genericamente espressa ne è un esempio.
Un altro esempio ò la perifrasi del severo Caton del
seroi nostro, per indicare i vecchi dell’aristocrazia: peri
frasi che non ha col contesto nessuna relazione di sorta.
Oh che si sarebbe meno sganasciato dalle risa il volgo,
se il pallone, invece d’un severo Catone, avesse colpito
un vecchio libertino, dato ch’osso rideva, quando vedeva
colpita una persona dell’aristocrazia? Con quanta mag-
giore intuito della realtà e maggior senso di comicità,
il De-Amicis, allo stesso proposito e forse traendo di qui
l'idea prima, introduce nella descrizione delle visite del
pallone nella tribuna degli spettatori le tube pericolanti
e ricerca il riso nei ridicoli modi diversi con cui i visitati
cercali di schivare l’importuno visitatore ! (1).
Ma tornando al Taruffl, egli non è poeta: è un discreto
verseggiatore che ha una certa eleganza e disinvoltura
e sa variare il suo stile di immagini abbastanza proprie
e talvolta originali : ma gli manca l’inspirazione, gli manca
la scintilla animatrice che dà vita alla materia più arida.
(1) Gli Azzurri e i Rossi, cap. Vili, pag. 52 e segg.
— 181 —
Clic fa quando rievoca i fasti del giuoco in Bologna per
ravvivarne il culto? Registra in sette versi una filza di
diciasette nomi di giocatori famosi, e si raccomanda a
Pindaro. Entrato il grande vate Tetano nella poesia, la
concentra tutta su di sè: so ancor si accenna al giuoco,
10 si vede attraverso lui. Pindaro immenso incoronerà
coi suoi robusti carmi l’alto valor di si gagliardi eroi
e Bologna udrà nel canto angusto di lui
... 11 sublime chiarissimo argomento
Dei vincitori elèi posto al confronto.
Ma dopo avere, con l’aiuto di Pindaro, trasportato il suo
soggetto cosi in alto, il poeta ricade nelle solite astrazioni
generiche e oscure. Il giuoco diventa gli oggetti lontan,
eh e, benché solenni, benchiidi pinti del color più viro,
non han più forza di ni/fy-er e d'eccitare. Ma questo,
11 poeta lo doveva sapere anche prima; a che prò’ quindi
disturbar Pindaro? a che prò’ far sentire ai Bolognesi
Del gran vate Teban l’augusto canto,
se questo non poteva valere a scuotere di dosso ai buoni
Petroniani l’indifferenza pel giuoco? C’ò nel passo o un
enigma indecifrabile o una contraddizione palese.
La taumaturgo verga poi, con la quale il poeta vor-
rebbe evocar Pindaro immenso, e l’urna e revocazione
sono luoghi comuni di quella poesia romantica, che, ve-
nuta di moda nella 2.” metà del secolo XVIII per Pili
tluenza di Joung e di altri scrittori nordici, prese il nome
di poesia sepolcrale. Le tracce, troppo evidenti, di questa
poesia io non noterei, se l’autore non avesse atteggiato
fa.nebremente il suo poemetto proprio nel suo inizio:
Dei solitari miei foschi pensieri,
Collinetta gentil, deh vieni a parte
E soffri ch’io horror teco divida
Di mille spettri, onde ho la mente ingombra.
Senza inoltrar malinconioso il guardo
Colà del tetro Young entro alle notti,
Ben so che a guisa di vapore o lampo
Questa vita mortai dilegua e passa...
— 182
Come possa un esordio cosi funereo dispor l’animo
del lettore a ricevere e gustare le bellezze descritte
nel carme, io non so. Ma il Tarulli povero di fantasia
e di sentimento, non poteva trarre la materia poetica
di dentro a sè stesso: egli quindi raccatta di fuori. La
poesia dei cimiteri gli dà in imprestito l’esordio, il quale
cosi lugubre com’ò, li in principio d'nn poemetto in cui
si cantano le bellezze della natura e delle opere dell’uomo,
le laudi cioft di uomini e ili cose, mi fa Tuffetto d’un
velo per lutto sopra uno sfarzoso vestito da ballo.
#
« *
Il Leopardi prese il giuoco della palla ad argomento
della sua canzone Ad un r incitar nel pallone. Nelle
Marche il giuoco che, come già vedemmo dalla lirica
del Chiabrera a Ci nt.it) di Cagli, aveva tradizioni an-
tiche, era ancora popolarissimo ai tempi del Leopardi.
Recanati stessa aveva flato a esso valenti campioni e,
come si rileva dalle Notes biografivi ques della vedova
di Carlo Leopardi, Luigi, fratello del poeta, era morto d’un
malanno presosi giocando a questo giuoco (1). Certamente
dunque il Leopardi dovette assistere più e più volte alle
frequenti partite col pallone che si facevano in Recanati,
le quali costituivano una delle poche distrazioni nella
vita monotona del natio borgo selvaggio (2); ed è verosi-
mile che egli, mirando esercitarsi in mezzo alle accla-
mazioni del popolo entusiasmato quei valenti e robusti
campioni, abbia sentito in quel suo animo così pieno ili
Grecia e di Roma e così convinto della necessità di esser
sani e vigorosi e della utilità dei ginnici esercizi, de-
starsi quel tumulto di sentimenti e di idee che son
materia vera e propria d’ogni buona poesia; e sia
(1) I canti di G. Leopardi, commentati da G. Piergili, Pa-
ravia, 1905, A un cincitor nel pallone, nota a 4.
(2) Ricordanze, v. 30.
- 183 —
stato così senz’altro spinto a cantare in versi quel forte
e nobile esercizio. Può anche darsi che non sia stato
estraneo in questo proposito l’esempio del Chiabrera e
la tentazione di emulare un poeta, ch’egli sempre tenne
in grandissimo conto (1), e fors’anche il desiderio di provar
col fatto quanto due anni prima circa aveva scritto al
Giordani, che la lirica cioè era un componimento che
ancora aveva da nascere in Italia (2), cimentandosi nello
stesso argomento con un lirico dei più famosi c’avessero
avuto le età passate e dimostrando come si poteva far
meglio. Ma sia come si vuole, è certo che il Leopardi,
una volta messosi alla prova, fece tutto di suo e da par
suo: e tutta la materia trasse di dentro a sò: dalle sue
impressioni, dalle suo convinzioni, dai* suoi sentimenti,
come si vedrà analizzando il contenuto della sua canzone.
11 poeta, anzitutto, non riuscì forse a percepire nelle
movenze e nelle pose dei giocatori quella bellezza pla-
stica che al Goethe ricordava il Gladiadore Borghese.
Non che egli, il poeta dell’infiri£a^3) entusiasta dell’in-
definito (4), lo spirito proclive a lasciar vagare la mente
pei campi della speculazione filosofica, l’ingegno pronto
a rompere la forma materiale per circonfonderla d’im-
materiale e a trarre dal positivo concreto considerazioni
astratte c teoriche, non avesse la capacità o l'abito del-
l’osservazione e insieme una notevole attitudine a ri-
levare le linee e i contorni delle cose: chè anzi il Graf
dimostrò con evidenza, clic se egli non vede molto in-
tensamente la luce e i colori, vede molto spiccatamente
le forme (5) e che, se non buon colorista, il Leopardi
avrebbe potuto riuscire buon disegnatore (e disegnò con
(1) Leopardi, Pensieri I, III e segg.
(2) Lettera al Giordani del 10 febbraio 1810, Firenze, Le
Monnier, 1856, pag. 110.
(8) L’infinito, XII.
(4) Pensieri, III, 156 e anche III, 155.
(5) Foscolo, Manzoni, Leopardi, Loescher, 1898, pag. 360.
— 184 —
garbo da fanciullo) e forse scultore più buono an-
cora (1). Egli è cbe il Leopardi, con i suoi occhi miopi e
ammalati, non poteva percepire a quella distanza nò i
gesti nè gli atteggiamenti dei giocatori: onde di essi
non fa egli menzione alcuna nella sua canzone, mentre
nel Chiabrera gli accenni ne sono frequenti (2). Ma se
per deficienza della virtù visiva il Leopardi non potè
introdurre nella sua canzone questo elemento di bellezza,
che vi avrebbe cosi ben figurato, la seppe adornare di
un altro concetto, bello di grande bellezza morale e ci-
vile, che manca, come vedemmo, nel Chiabrera, ma che
gli studi lunghi e indefessi dell'antichità e le stesse
sue conclusioni filosofiche avevano reso ben familiare
alla mente di lui: il concetto cioè della viva e benefica
efficacia degli esercizi, non solo nella vita fisica, ma sulla
psichica e sulla morale; o non solo sulle disposizioni
momentanee e transitorie dello spirito e dcH’anirao, ma
bensì ancora sul valore stesso delle sensazioni, sulla
natura delle idee, sulla qualità essenziale dei sentimenti.
Gli esercizi, scrive egli infatti, con gli antichi giuochi
si procacciavano il vigore del corpo, non erano sola-
mente utili alla guerra o ad eccitare rumor della
gloria ecc., tua contribuivano anzi erano necessari a
mantenere il vigor dell’animo, il coraggio, le illusioni,
l’entusiasmo, che non saranno mai in un corpo debole;
insomma quelle cose che cagionano la grandezza e l’e-
roismo della nazione (3).
Ma ancor più caratteristico, perchè più esplicito
per il confronto tra gli uomini antichi e i contemporanei,
è il seguente passo del Dialogo di Tristano e di un amico:
Amico. — Credete che in fatti la specie umana rada
ogni giorno migliorando?
Tristano. — S'i certo, h’ ben vero che alcune volte
(1) Ib-, pag. 360.
(2) LXIII, vv. 21,31,32.
(3) Pensieri, I, 226.
— 185 —
penso che gli antichi valevano, delle forze del corpo .
ciascuno per quattro di noi. E il corpo è ritorno; perchè
( lasciando tutto il resto) la magnanimità , il coraggio,
le passioni, la potenza di fare, la potenza di godere,
tutto ciò che fa nobile e viva la vita dipende dal vi-
gore del corpo, e senza quello non ha luogo. Uno che
sia debole di corpo, non è uomo ma bambino ; anzi
peggio; perchè la sua sorte è di stare a vedere gli all ri
che vivono, ed esso al più chiaccherare, ma la vita non
è per lui. E però anticamente la debolezza de! corpo
fu ignominiosa, anche nei secoli più civili. Ma da noi
già da lunghissimo tempo l’educazione non si degna
di pensare al corpo, cosa troppo bassa e abbietta : pensa
allo spirito v e appunto volendo coltivare lo spirito,
rovina il corpo : sen za avvedersi che rovinando questo
rovina a vicenda anche lo spirito. E dato che si po-
tesse rimediare in ciò all’educazione, non si potrebbe
mai senza mutare radicalmente lo stato moderno della
società, trovare rimedio che valesse dine alle altre
parti della vita privata e pubblica, che tutte, di pro-
prietà loro, cospirarono anticamente a perfezionare o
a conservare il corpo, e oggi cospirano a depravarlo.
L’effetto è che a paragone degli antichi noi siamo poco
più che bambini, e che gli antichi a confronto nostro
si può dire più che mai che furono uomini. Parlo cosi
degl'individui paragonati agl ’ individui, come delle
masse (per usare questa leggiadrissima parola moderna)
paragonate alle masse. Ed aggiungo che gli antichi fu-
rono incomparabilmente più virili di noi anche nei
sistemi di morale e di metafisica. A ogni modo io non
mi lascio muovere da tali piccole obbiezioni, credo co-
stantemente che la specie umana vada sempre acqui-
stando (1).
(1) Le prose morali di G. L. commentate da 1. Della Gio-
vanna, Firenze, Sansoni, 1903, Dialogo di Tristano e di un amico,
pagg. 267-268.
— 186 —
Da questi e da altri pensieri consimili (1) noi appren-
diamo che il Leopardi, alla maniera degli antichi, ben
capiva il nesso indissolubile che passa tra la vita della
spii'ito e quello del corpo e che in un corpo frale e
ammalato non vi può essere un’anima forte e sana e che
chi vuol conservare in sè quelle migliori virtù che fanno
onesto il cittadino e prospera la nazione, e quelle più
grandi idealità (da lui chiamate illusioni) che fanno l’uno
felice e l’altra gloriosa, si deve procurar con gli esercizi
la sanità c la robustezza del corpo. E a proposito del
giuoco della palla, da lui considerato come un esercizio
utilissimo, il poeta si domanderà:
Vano dirai quel che disserra e scote
Della virili nativa
Le riposte faville ? e che del fioco
Spirito vital negli egri petti avviva
Il caduco fervor ? (2).
E: No, che non è vano il giuoco, risponderà, sel’energie
occulte della stirpe ereditate dai padri per legittimo retag-
gio o le naturali disposizioni latenti esso varrà a rivelare
e a scuotere e a spingere aH’azione; no, che non è vano,
se esso varrà a riaccendere nell’animo i sentimenti ge-
nerosi e a ridare a questo i fervidi entusiasmi che lan-
guono o si spengono, quando è debole il corpo. E par
che ci ammonisca: Benedetto questo giuoco e benedetti
tutti gli esercizi fisici che, rinforzando il corpo, rinvigori-
scono ogni virtù dell’animo. Esercitatevi in essi affinchè
voi siate per voi buoni, forti, felici; affinchè voi siate
per la patria capaci, generosi, pronti a ogni sacrifìcio.
(1) Sei corpo debole non alberga coraggio, non fervore, non
altezza di sentimenti, non forza d’illusioni ( Pensieri , I, 346). E
ancora Sei corpo servo l'anima è serva (I, 346). E a pag. 250,
v. IV, dello Zibaldone riporta il detto di Socrate presso Senofonte
(Economico, IV, 2). Tón db somdton thelgnoménon kal ai psi/kaì
polg drrastóterai gtgnontai.
(2) V, vv. 27-31.
— 187 —
E sotto questo aspetto io convengo perfettamente
col Piergili, quando commenta : In questa c nella pre-
cedente canzone (Nelle nozze della sorella Paolina) è
tutto un programma di educazione civile e patriottica:
qui prevale la parte fisica, là la morale ( 1). Sicuro: un
vero programma di educazione civile e patriottica. Poiché
il Leopardi, tanto nel pensiero citato, comesi vede, quanto
nella canzone, mette in rapporto l'individuo col cittadino
e il cittadino colla patria; gli esercizi giovano a chi li
pratica, perchè lo rendono forte e felice; ma giovano
anche alla patria, perché non vi saranno mai in un
corpo debole quelle cose che cagionano la grandezza
e l’eroismo della nazione (2).
Il Chiabrera già loda nelle sue liriche la gioventù
toscana che per mezzo degli esercizi si dispone ad acqui-
star Tarli guerriere (3) : ma la sua mente non si spinge
più in là: a eli i dovranno servire codeste arti ? perchè
e per chi la gioventù dovrà combattere? L’idea di patria
è in lui assente, come si disse: nè egli Tha nè, dati i
tempi, l'avrebbe potuta avere. Nella canzone del Leo-
pardi invece, appena ci è stato presentato il suo eroe,
ecco comparir l'idea della patria:
Te rigoglioso dell’età novella
Oggi la patria cara
Oli antichi esempi a rinnovar prepara.
E l'esempio storico che segue nei versi immediatamente
successivi sta a dimostrare quanto s'avvantaggi la patria
da questi esercizi che rendon forti e sani i cittadini (4).
(1) / Vanti, commentati da E. Piergili, pag. 40, nota (").
(2) Pensiero citato.
(3) LXI, vv. 19-27, LXIII, vv. 43-44. E al Chiabrera dà lode
il Carducci. (Prose citate, pag. 1421) d’essersi proposto la virtù
e la gloria militare d’Italia, pur non tacendo ch’egli si dà da
fare per essere inteso come chi parla di cose che non son più
del suo tempo.
(4) V, vv. 14-26.
— 188 —
Cosi i due concetti, quello individuale dell’eroe e dei
vantaggi che egli trae dagli esercizi e quello collettivo
della patria resa prospera e gloriosa dai cittadini amanti
degli esercizi, si intrecciano e s’alternano per tutta la
poesia, la quale su d’essi appunto si svolge come sulle
sue basi fondamentali : e come quei due concetti sono
essenzialmente greci, e pindarici direi, perchè nell’ef-
ficacia dei pubblici giuoohi antichi sul benessere fisico
da una parte e sulla educazione patriottica e civile dei
cittadini dall’altra, consisteva appunto gran parte della
loro importanza, anzi della loro stessa ragion di essere,
essi accostano il Leopardi a Pindaro assai più che non
se gli sia avvicinato il Chiabrera, che pur si era pro-
posto d'imitarlo.
E infatti, sebbene l’ autore stesso abbia dichiarato
che essa canzone Ad un vinetto}' nel giuoco del gallone
non è un’imitazione di Pindaro (1) e sebbene ci sian
tutte le ragioni per credere che nè in questa nè in altre
canzoni non fu mai suo proposito deliberato di cammi-
nare sulle orine di lui, pur tuttavia si sente spirare
in quella lirica un tale soffio di pindarica poesia, che
il nostro pensiero non può astenersi dal correre spon-
taneamente e insistentemente alle grandi liriche del
poeta tebano. Anzitutto c’è l’affinità del soggetto: infatti
anche lasciando da parte quello che già altrove avemmo
occasione di dire, cioè che il giuoco della palla così
fatto appunto come il Leopardi lo aveva potuto osservare,
è l’argomento più pindarico che si possa trovar nei tempi
moderni, è da notare che la canzone è un epinicio nel
(1) Opere, di G. Lkopardi, v. IH, Studi filosofici raccolti e
ordinati da Pietro Pellegrini e Pietro Giordani, Firenze, Le
Monnier, 1883, pag. 282. Cfr. altresì, a proposito dell’imitazione
pindarica nel Leopardi, G. Setti, La Grecia letteraria nei pensieri
di G. L., Livorno, Giusti, 1906, pagg. 86-89: e Carducci, Degli
spiriti e delle forme nella poesia di G. L., pag. 64.
— 189 -
vero senso della parola, tal quale un’ode qualsiasi di Pin-
daro. 11 Leopardi inoltre, come Pindaro, astraendo da
ogni circostanza di tempo e di luogo, omettendo ogni de-
scrizione del giuoco o del personaggio, subito nelle prime
strofe, ci mette innanzi il suo eroe nel momento fulgido
in cui, vinta la prova, egli gusta i frutti saporosi della
sua vittoria. Egli è, come Pindaro, nota il Piergili, un
sapiente, che interpreta la sorte all’eroe da lui cele-
brato, scorgendolo ad un ordine superiore di cose, dove
10 splendido e fulgente momento della vita, ond’ei gode,
trovi la sua ragione (1). Quindi, ancora come Pindaro,
11 Leopardi rompe i confini del fatto individuale e si stende
a ricercar la relazione di esso con la vita nazionale del
popolo e anche con quella universale di tutti gli esseri,
estendendo il tema a dimensioni grandiose e inaspet-
tate. Lo svolgimento della trattazione e la tecnica del-
l’arte, sono in questo, come si vede, analoghi.
Ma a questo punto, a partir dalla scelta stessa del-
l'esempio storico, il Leopardi comincia a distaccarsi da
Pindaro e sempre più se ne va allontanando fino a riu-
scire agli antipodi di esso. Le condizioni politiche e l’in-
dole dei tempi in cui vissero i due poeti e lo stesso
temperamento particolare a ciascuno di essi, mettono
tra loro un abisso incolmabile. Pindaro è oggettivo : il
mondo dei fatti, delle idee, dei sentimenti, ond’è ma-
teriata la sua poesia, è fuori di lui; egli vede la sua
patria credente nei suoi Dei, fidente nei suoi fati, glo-
riosa nelle sue imprese, libera nelle sue leggi, felice
nello splendore delle sue arti e della sua letteratura; e
questa grandezza multiforme della patria egli fa materia
della sua poesia. La sua è quindi la voce del vate na-
zionale; voce universale che parla a tutti i Greci sparsi
per il bacino Mediterraneo, proclamante nella luce del
sole la loro fede, le loro glorie, i loro orgogli, le loro
speranze.
(1) Loc. cit., pag. 40, nota (*).
- 190 -
Il Leopardi invece è soggettivo; non solo la materia
della sua poesia egli la prende in maggior parte nella
sua mente e nel suo animo, ma ancora quella che prende
fuori di sè, la fa passare attraverso al crogiuolo delle
sue idee e dei suoi sentimenti, tutta di sè improntandola.
Oh lo stato miserando della patria, serva dello straniero,
senza libertà nelle sue leggi, senza gloria presente, dimen-
tica delle glorie passate, avvilita, umile, assonnata! Dove
prenderà egli, gettato dai fati in tempi così perversi,
l’esempio storico d'una patria vittoriosa e grande per
la virtù dei suoi figli ? Cosi il poeta esce subito fuor
della sua patria c attraverso alle sue idealità di cittadino
e ai suoi ricordi di studioso, vola alla Grecia, madre vera
d’eroi, immagine vagheggiata di una patria felice; e dal
periodo più splendido della sua storia egli trae l’esempio
illustrativo e dimostrativo. Ma dallo spettacolo dell’avvili-
mento presente della sua patria, fatto più sensibile e dolo-
roso dalla contemplazione della fulgida visione della patria
ideale, viene neU'animo del poeta un’amarezza sconsolata:
la sua è quindi voce di lamento, di ammonizione, di rim-
provero; è la voce di quel pessimismo civile, al quale
si informano tutte le sue liriche che furon dette patriot-
tiche.
Ma è notevole il fatto che questo pessimismo si fa
in poco tempo tanto profondo e largo che dalla canzone
All'Italia del 1818 a quella Ad un vincitor nel pallone
del 1821, a soli tre anni di distanza, da puramente ci-
vile c patriottico, è diventato filosofico e universale e,
peggio anche, quasi disperato. Che cosa era successo nel
frattempo? Ce lo dice il Leopardi stesso conia solita fran-
chezza e sincerità: Nella mia carriera poetica, il mio spi-
rito ha percorso lo stesso stadio che lo spirito umano in
generale. Da principio il mio forte era la fantasia ei miei
versi erano pieni di immaginazioni e dalle mie letture
poetiche cercavo di profittare riguardo all’immagina-
zione. Non aveva meditato ancora intorno alle cose e della
filosofia non aveva che un barlume La mutazione
- 191 —
totale in me e il passaggio dello stato aulico al mo-
derno, sega), si pub dire , dentro un anno, cioè nel
18 W, dorè, privalo dell’uso della cista e della continua
distrazione della lettura cominciai a sentire in un modo
assai più tenebroso, cominciai ad abbandonare la spe-
ranza, a riflettere profondamente sopra le cose e a
divenire filosofo di professione (di poeta ch'io ero), a
sentire l'Infelicità certa del mondo in luogo di cono-
scerla (1).
La mutazione totale nell'animo dell’infelico poeta, elio
produsse quella concezione pessimistica della vita umana
in particolare e degli esseri in generale, avvenne dunque
nel 181 U (2). Infatti le due prime canzoni All’ Italia e Sopra
il monumento di Dante in Firenze anteriori a quell’anno
ne sono perfettamente immuni : del pessimismo ve n'è
anche in esse : ma è patriottico e civile nel carattere
e retorico nella figurazione poetica. Non di' io intenda
dire con questo che il dolore del poeta per le sciagure
d’Italia fosse solo nella sua mente e non nel suo animo,
chè i suoi, o dolore o ira o vergogna, sono veri senti-
menti, che diventali nelle sue canzoni vera e sentita
poesia : ma certo l'immagine dell'Italia, quale noi la scor-
giamo nelle due canzoni, è assai somigliante a quella
della canzone famosa del Petrarca e alle altre delle altre
canzoni che da questa son derivate (3).
(1) Pensieri, I, 249-251.
(2) Avvenne essa per evoluzione o pei- rivoluzione? Forse
per entrambe le forme, comecché le condizioni speciali del corpo
e dello spirito del poeta e anche i casi e i modi della sua vita
facessero nascere nell’animo del poeta quell’inclinazione al pes-
simismo, che trovò poi la ragione del suo manifestarsi nell’infer-
mità che distrasse il poeta dalle continue letture e l’obbligò a
concentrarsi e meditare sugli uomini e sulle cose.
(3) Tracce dell’inlluenza petrarchesca sono visibili special-
mente nel colorito nell’armonia e perfin nel fraseggiare della se-
conda canzone Sopra il monumento di Dante in Firenze.
192 —
Ad ogni modo in quelle due prime canzoni il dolore del
poeta è il dolore del cittadino che vede la sua patria infe-
lice: ma esso è ancor puro d'ogni infiltrazione di quel pes-
simismo filosofico universale che più tardi colori di sè
tutti i fenomeni della vita psichica di lui e fece sì che
anche il suo dolore civile divenisse senza consolazione e
senza speranza.
Quando furono composte le canzoni Ad Angelo Mai
(1820) e Nelle noz.se della sorella Paniina (1821) (senza
stare a ricercare se quest’ultima sia anteriore o poste-
riore a quella per il rincitor nel pallone , cbè solo im-
porta a noi sapere ch’esse sono posteriori al 1819), la
totale mutazione nella psiche del Leopardi già s’era ef-
fettuata; e del conseguente suo pessimismo filosofico e
dell’abito d'allora in poi contratto di abbandonar la
speranza e sentire l’infelicità certa del mondo in luogo
di conoscerla (1) se ne hanno in vari luoghi delle due
canzoni tracce evidenti: più nella canzone al Mai, dov’è
preannunziata la totale mutazione (2) :
... lo son distrutto
Nò schermo alcuno ho dal dolor, citò scuro
M'è l'avvenire e tutto quanto io scemo
È tal che sogno e fola
Fa parer la speranza (3),
e dove si lamenta che i nostri sogni leggiadri son giti {A)
e che il vero uccise il caro immaginar (5) e che disco-
prendo questo vero, il nulla s'accresce intorno a noi (6);
meno nella canzone alla sorella, dove però compaiono
anche e le larve beate e l’antico errore (7) e altri accenni
(1) Pensieri, 1, 249-251.
(2) Cfr. appunto la citazione stessa del Leopardi: Pensieri,
I, 249-251.
(3) III, vv. 34-38.
(4) IH, v. 91.
(5) III, vv. 102-1(13.
(6) III, v. 100.
(7) IV, vv. 2-3.
- 193 —
al dolore universale. Però, conio quelli dei suoi Pensieri
che urtano troppo contro le idee correnti, egli talora li
attenua o smuzza e quasi si perita di enunciarli (1), così
in queste due canzoni non osa trarre le sue teorie pes-
simistiche, che pur erano ben maturate nel suo cervello,
alle ultime conseguenze.
Nè lo poteva fare senza mancar di riguardo alle per-
sone, alle quali le canzoni erano indirizzate, c senza con-
traddire a se stesso. Poiché quello al Mai era pur sempre,
e ben a ragione, un canto encomiastico in esaltazione del
più grande filologo vivente, del quale il poeta ammirava le
scoperte insigni (2), e di queste apprezzava, da quel coscien-
zioso e competente estimatore che era, tutta l'importanza
e il bene e l’onore che ne veniva all'Italia; e quello alla
sorella era un canto solennemente parenetico insieme e
augurale e ognun vede quanto mal s’associno la paranesi
e rauguriocon la disperazione. 11 poeta quindi non poteva
rappresentare la patria in condizioni disperate, come il
suo pessimismo avrebbe voluto; e la speranza infatti
aleggia, tenue come un sodio, in entrambe le canzoni.
Quando nella canzone al Mai il poeta afferma che prov-
vida confi è che la voce dei padri antichi vengano a
rinfacciare ai fardi figli degeneri la /or codardia e
sonnolenza e soggiunge che essi ora o mai più si sco-
leranno (3), espiamo una vera e propria speranza, por
quanto egli, in omaggio alle sue nuove teorie, se ne voglia
personalmente escludere (4). Nella canzone alla sorella
corre da cima a fondo il concetto che la risurrezione
d'Italia dipende dalla retta e virile educazione che le
(1) Dico così per non offendere le orecchie e non urtar troppo
le opinioni ; per altro io son persuaso, e si potrebbe dimostrare,
che il male c’è di gran lunga più che il pene ( Zibaldone , VII,
pag. 198-199).
(2) Vedi lettera al Mai in data 10 gennaio 1870.
(3) III, vv. 16-30.
(4) III, vv. 34-38.
13
- 194 -
madri sapranno impartire ai loro fluii; se il poeta dunque
pensa che la patria può, in un modo qualsiasi, rigenerarsi,
ancora accoglie neH’aniiuo la speranza. Nella canzone
Ad un vincìtor nel pallone l’applicazione delle teorie
pessimistiche è invece completa, esplicita, rigorosa. In-
fatti lasciando da parte l’accenno al pessimismo univer-
sale fatto con le meste rote che Febo istiga, e con V opre
dei mortoli che nuWaltro son che giuoco e con il cero
chi' non e men cono detta menzogna, ecc. (1), in nessuna
delle canzoni precedenti il poeta ci ha rappresentata la
patria nell’estrema e irreparabile rovina, come in questa.
Era inerme e nuda e coperta di ferite e corca di
catene e sedera in terra negletta e sconsolata nella can-
zone Alt' Italia (2). Era misera ed afflitta, nella canzone
Per il monumento di Dante e neramente corsa da sol-
dati stranieri (11) e in essa, come nella precedente, mo-
rirono i suoi figli, non per la moribonda madre, ma
per i tiranni suoi (4). Era ignara e accolla duina nebbia
di tedio (5), d’ozio, di oìdio, di viltà, dappoiché att'anime
prodi era successa immonda inonorata plebe (fl), nella
canzono al Mai. Era infelice la famiglia nei!' infelici-
Italia (7) c obbrobriosa Velate (8) e luttuosi i tempi (9),
corrotto il costume (10), spenta la fiamma di gioventù,
attenuata e franta nostra natura, assonnate le menti
e le coglie indegne (lì) in quella alla sorella Paolina. Ma
(1) V, vv. 31-34.
(2) I, vv. 6-16.
(3) II, vv. 92-119.
(4) II, vv. 134-136.
(5) III, vv. 4-5.
(6) HI, vv. 38-45.
(7) IV, vv. 10-11.
(8) IV, v. 6.
(9) IV, v. 9.
(10) IV, v. 19.
(11) IV, vv. 39-43.
- 195 -
nella canzone Ad un r indi or nel pallone si presenta
agli occhi «lei misero poeta come distrutta:
Tempo forse verrà ch’alle mine
Delle italiche moli
Insultino gli armenti, e che l’aratro
Sentano i sette colli; e pochi soli
Forse fleti volti, e le città latine
Abiterà la cauta volpe e l’atro
Bosco mormorerà fra le alte mura (1).
Ma a (piai condizione si dovrà avverare la terribile
profezia del poeta, che ormai non Ita più speranza nei
destini della patria? Se i suoi tigli traviati continueranno
a dar Taiuto del loro senno e del loro braccio non alla
madre ma ai suoi nemici come nella prima e seconda
canzone? 0 so altre glorie più splendide o altre voci
antiche più severe non verranno a scotere i degeneri
Agli dal loro letargo oblioso, come in quella al Mai? 0
non saranno educati a spiriti alti, forti e vigorosi, come
in quella alla sorella Paolina? Nulla più di tutto questo:
nè il non morto valor negli italici petti, nè le memorie
grandi e i forti esempi dei padri, nè una più retta e
vigorosa educazione, nè tutte le varie e possenti energie
della stirpe ridestate e rinnovate nei contemporanei non
varranno più a scongiurar la matura elude (2), se la
cieca forza del fato o la bontà del Cielo non soccorre-
ranno alla patria in rovina (3). È insomma necessario
l’intervento d’una potenza sovrumana; la salvezza d’Italia
non è più in potere dell’uomo. Così fa capolino in quest’ode,
superba per tanta bellezza formale e per tanta novità e no-
biltà di concetti, una delle forme peggiori di pessimismo:
la fatalislica.
Il dissidio dunque tra il sentimento del poeta, il quale,
(1) V, vv. 40-46.
(2) V, v. 50.
(3) V, vv. 47-52.
— 196 —
nutrito ancora dai forti errori ( 1) e magnanimi che abbel-
liscono o pia veramente compongono la nostra vita (2),
lusingato da quelle opinioni, benché false che generano
atti e pensieri nobili, forti, magnanimi, virtuosi ed alili
al ben comune e privalo e da quelle immaginazioni
belle, benché vane, che danno pregio alla vita (3), va-
gheggia una patria ideale sullo stampo della greca antica,
e la sua ragione guidata dalle sue nuove teorie dell'infe-
licità universale, che gli rappresenta le condizioni della
patria come disperate e più non gli lascia scemerò via
di risurrezione, s’è fatto nel poeta incomponihile: e questo
dissidio si ripercote nella poesia del vincitor nel pallone,
la «piale risulta appunto composta di due parti, nelle
quali si svolgono due concetti non solo distinti, ma con-
trari tra di loro; essendo le due prime strofe perfetta-
mente antitetiche con le due ultime e stando la terza
come anello di congiunzione in mezzo a loro non a ten-
tarne la conciliazione, ma solo a spiegare o giustificare
la ragione delfinio e dell'altro membro dell’antitesi (-1).
Per conseguenza il poeta, quando di nuovo nell’ultima
strofa rivolge la parola al suo campione, non solo vuol
ch’egli oblìi quanto gli ha promesso in principio del canto:
le gioie della vittoria, la felicità conscia del benessere
fìsico, e il vanto del sentirsi degno e capace di rinnovar
gli esempi antichi in prò’ della patria; ma la causa di
(1) V, v. 37.
(2) Dialogo della Comparazione delle sentenze dì Bruto e
Teo/'rasto in Le prose morati «li G. L., ed. Sansoni 19(13, curato
dal Della Giovanna, pag. 286, lin. 6.
(3) Dialogo di Timandro ed Eleandro, loc. cit., pag. 226,
lin. 30 e segg.
(4) I due concetti antitetici si ricongiungono appunto nella
3.“ strofa, che si divide quindi in due parti. La prima spiega come
il poeta abbia potuto lusingarsi che un bene potesse derivare alla
patria dalla educazione fisica. La seconda invece è l’espressione
esplicita del suo pessimismo, che nega che qualche cosa ancor
possa alla patria giovare.
— 197 —
questa subito distacca, per così dire, da quella di lui:
non darti più pensiero della patria — par che gii dica —
e non ti rincresca che la tua fama muoia con essa (1)
cioè non abbia lunga durata. Pensa solo a te; fatti forte
e coraggioso, per gettarti nella lotta, per obliar in essa
le patri e lente ore, sensa doverne misurare il danno
e ascoltarne il flutto (2), per esporre la vita al pericolo
che t’insegni a maggiormente apprezzarla.
Cosi la canzone cominciata con un ottimismo vago e
piacevole, allargatasi alla visione della patria salvata e
glorificata dai figli fatti forti e magnanimi dagli esercizi
fisici, allargatasi ancor più alla triste concezione dell’infe-
licità universale che viene d’un tratto a sgombrar dal-
l’animo del poeta ogni rosea illusione e dalla poesia ogni
senso di ottimismo; si restringe di nuovo alla contem-
plazione della patria che, ora, attraverso al velo nero
del pessimismo, spenta gli appare nel deserto d’Italia,
per restringersi ancor più alla persona del bennato gar-
zone e chiudersi in una massima del più puro egoismo:
nel lutto della patria, nella vanità infinita d’ogni cosa,
cerchi il giovane di trar dalla sua forza e dalla sua va-
lentia tutto il vantaggio che può per sè nù si curi degli
altri. Così la canzone del Leopardi si viene ognor più sco-
stando, nell’intonazione e nello svolgimento, ma sopratutto
nei sentimenti e nello spirito, dalle odi di Pindaro.
Eppure dal fin «pii detto ognun si persuaderà che il
Leopardi è a Pindaro più vicino che non il Chiabrera.
Anche lasciando da parte la maggior perfezione dell'arte
e la grandezza maggiore dell’ingegno poetico e la più
fi) Mi distacco dagli altri commentatori (Clr. Straccali,
I canti di (f. L. f 2." ed., Sansoni, 1902, pag. 89, nota ai vv. 53-65)
i quali per lo più interpretano : Tu cerca di non sopravviverle,
cimentando la vita per lei . Ma percliò cimentar la vita, s’ella
è morta? E se conchiude appunto il poeta: cimenta la vita, non
per la patria, ma solo perchè essa vita ti divenga più cara?
(2) V. vv. 61-63.
— 198 —
nobile dignità dei concetti e i trapassi pure audaci e
insieme strettamente logici, si riscontrano nell'infelice
poeta recanatese un sentimento più profondo della gre-
cità e quindi un’affinità maggiore di spirito con il poeta
tebano. Ma sopratutto si sente vibrare in tutte le sue
canzoni civili, qualunque ne sia l'origine e qualunque
l'espressione, un sicuro e caldo amor di patria. Egli
l'ama, la sua patria, e si affiigge per le sin* sventure o
si vergogna della sua ignavia e la rimbrotta e smania
e piange e... spera, anche quando par che più disperi. Ora
come in tutte le cose umane chi più desidera un oggetto,
più s’affligge della sua privazione; e chi più se n'arro-
vella, più ne è degno; e chi più ne è degno, più vicino è
a possederlo, così più degno della patria e più prossimo
a essa è Giacomo Leopardi, e quindi più degno di Pin-
daro e più prossimo a lui.
#
* #
La canzone del Leopardi Ad un vincitor nel pallone,
per l’identità dell’argomento da cui trae origine e per
una certa qual rassomiglianza negli intenti civili e politici
0 nel modo stesso della composizione fa ricordare quella
dell’ Aleardi la quale s’intitola Per un giuoco di palla
nella valle di Fiumane e figura nell’edizione delle sue
poesie del 18(54, curata dal poeta stesso (1).
Nelle due prime strofe la vita arcadica e tranquilla
del piccolo villaggio, nel quale gii abitanti se ne vivono
felici, paghi dei soliti svaghi innocenti e semplici, con-
cordi negli stessi sentimenti e uniti tutti come da vin-
coli d’un’affezione familiare, è assai bene rappresentata.
Il poeta sente da lontano i colpi del tamburello che per-
ente e respinge la palla e s'affretta ad assistere al giuoco.
1 pochi tratti, buttati giù alla lesta, con cui rappresenta
(1) Canti di Aleardo Aleakdi, edizione notabilmente ac-
cresciuta e rivista dall’autore. Volume unico, Firenze, Barbèra
editore, 1804.
— 199 —
il noto suono che lo richiama sulla piazzetta dove si
giuoca, sono una parca ma nitida descrizione onomato-
peica, se non del tutto originale:
Echeggia all’iterato
Suon di battute e ili respinte palle
Con pronto magistero
Colte sull’impugnato
Disco ili tesa pelle, echeggia intorno
La vitifera valle (1).
Ma tosto il poeta si distacca dal giuoco e. seguendo
la naturai sua inclinazione al dipingere e al rilevare con
troppa diligenza i particolari (2), s’indugia soverchiamente
a descriverci la sua rapida passeggiata attraverso la
campagna, in cui trova però modo di notare le locaste
pronte (?) (3) e il ramarro lesto a la fuga (A) e il re di
macchia , che gli svolazza trinanti e allato od h felice
se Dio gli conceda una falena a la solinga cena (5).
Ma finalmente arriva sul luogo del giuoco e la vista
di esso, attraverso ai cari ricordi lo trasporta alle ore
gaie che al tempo della sua gioventù trascorreva nel-
l’esercizio salutare e alle amabili vittorie sudate, le (piali
gli sono ancora adesso, dopo tanti e tanti anni, impresse
nel cuore e ancor gli dettano accenti di vera poesia:
(1) Vv. 1-6.
(2) C’informa egli stesso che questo era una sua debolezza.
In un luogo dichiara: Se io per avventura ero nolo a qualche
cosa, ero nato al pittore; e per questo se qualche cosa ci è di non
cattivissimo nella roba mia, è tutta pittura. (Due pagine autobio-
grajlche ad uso di prefazione, ed. cit. , pag. XVIII). In un altro
luogo confessa : Non avendo dunque potuto adoperare il pennello
ò adoperato la penna. E appunto perciò ella (la poesia) sente
troppo di pennelli, appunto perciò sono sovente troppo natura-
lista e amo troppo perdermi in particolari (loc. cit., pag. XIX).
(3) Vv. 13-14.
(4) Vv. 15-18.
(5) Vv. 18-23.
— 200 —
Oh amabili vittorie, o gentil loco!
Oh di salute rosea feconde
Sudate ore gioconde
Della mia giovinezza! (1).
La fantasia, cosi ridesta dai ricordi, rivede
linei bei mattini che ferveva il giuoco
Bulla piazza di rustica villetta
Humoreggiando (2).
E il quadretto in cui è dipinta la scena del giuoco,
con quella frasca di nocciuolo a segnare i termini della
lizza e il parteggiar della gente alla parlila e le fan-
ciulle che compaiono dal sommo dell’altana tra un firn'
di limo e un por di maggiorana a far più bella l’in-
nocente festa (3), ha sapore veramente fiammingo.
Ma a un tratto suona la campana del mezzogiorno
e la gente prega. Questo del pregare, quando la cam-
pana ne dà il segno, pare che fosse un costume caro
e abituale al poeta. Infatti gli accenni alla squilla che
invita alla preghiera, o la mattutina o la meridiana o la
vespertina, sono frequenti nella poesia dell’Aleardi. Nelle
citate note autobiografiche, di appena una quindicina di
pagine, vi accenna due volte (4). Così pure entra la
campana nella canzone Un’ora della mia giovinezza (5)
e in quella a Cesare Betteioni, nella quale ultima la squilla
in vila alla preghiera perfino il vigli cacciatore (6), che
cessa quindi di esser vigile a tutto profitto della selvag-
gina. Ma io credo che questo motivo della campana ritorni
così spesso nella poesia dell'Aleardi per una certa qual
sua inclinazione alle fantasticherie e al sentimentalismo
(1) Vv. 24-27.
(2) Vv. 28-30.
(3) Vv. 30-38.
(4) Pag. XI fi.
(5) Ed. cit., pag. 14, vv. 254-255.
(l>) Tornerà, a Cesare Betteioni, ib. pag. 388, vv. 1-4.
— 201 —
romantico. Egli infatti, per quanto lo voglia negare (1),
per la sua maniera e per lo stesso temperamento poetico
fu c rimane un romantico; e la squilla che invita a pre-
gare, da quando Dante v’ha infuso tanto sentimento di
soave melanconia coi notissimi versi, è sempre stato un
tema caro a tutti i romantici del mondo.
Dopo la preghiera e dopo la vaga e indeterminata
perifrasi del silenzio che prega e che sublima (2), il poeta
torna poi al giuoco, cioè, con un bel verso, la folla tor-
nava al plauso e al favellìo di pria (3).
Nella strofa terza la visione s’allarga da un episodio
singolo e anche umile della vita quotidiana alla consi-
derazione generale della vita di tutto il paesello, anzi a
quella di tutta la società del tempo; ma il passaggio è
fondato sul tenue filo cronologico; un’altra qualsiasi tran-
quilla manifestazione della vita del paese: una partita
alle bocce, una fiera di beneficenza, una quieta conver-
sazione sotto l'olmo secolare del paese, avrebbe potuto
porgere al poeta occasione a simili considerazioni; ben
diverso in questo l’ Aleardi dal Leopardi, il quale, allar-
gando lo svolgimento della sua poesia col sottomettere
il giuoco stesso, da cui prende le mosse, al servizio
della patria che v’avrebbe potuto trovare un mezzo
della sua rigenerazione, la fonda sopra il rapporto assai
più stretto di causa ed effetto. Ma anche se più super-
ficiale, il modo della composizione di questa canzone
dell* Aleardi ricorda tuttavia quello consueto del poeta
recanatese di estendere il concetto particolare a concetti
generali: al contrario del processo solitamente seguito
dal poeta veronese di restringere un fatto generico o
storico al caso suo personale, come in La badia (4) ne
(1) Quanto a romantici e classici io ne ò capito sempre poco
(Note uutobiografiche, pag. XXI).
(2) V. 48.
(3) V. 49.
(4) Ed. cit-, pag. 20.
— 202 —
La ralle della Morte { 1) no 11 cantore Sellali houli (2) e
altrove.
Ancor risente la medesima poesia della influenza
Leopardiana in quella tecnica speciale consistente nel
contrapporre tra loro condizioni storiche diverse o stati
psicologici diversi per trarre dalla energia dell’antitesi
una più forte ragione dimostrativa; ma in questa tecnica
appunto sta il difetto più grave della canzone, perchè
o per inesatta visione della realtà storica o per una
indeterminatezza e superficialità di concezione o per im-
precisione nella espressione di questa, i termini dell’an-
titesi non sono così ben delineati e posti che se ne abbia
un'impressione viva e profonda. Esaminiamo infatti. Nel-
l’assistere ora dopo tanti anni a quel giuoco in cui
era valentissimo ancor pare al poeta di essere sbrac-
cialo, sudan te sai piazzale e respirare la sventata aria
dei veni’ anni (3). E nella poesia si sente che la fan-
tasia del poeta, eccitata dai dolci ricordi, rivede con
verità e rievoca con evidenza tutte le virtù e le bellezze
della vita del paese ai bei tempi della sua giovinezza.
Erano allora sicure le case {4), sicuri i frulli dei campi (5),
sicure le persone (0), sicura l'onestà delle spose e delle
fanciulle (7), rispettala la vecchiaia (8), santo il giura-
mento (!)), soccorsi i miseri (10), viva la religione di Dio
e dei morti (11); insomma, era allora una vita patriarcale,
(1) Ed. cit., pag. 21G.
(2) Ed. cit., pag. 219.
(3) Lettera a V. Baffi clic si
Ed. cit., pag. 321-322.
(4) Vv. 50-51.
(5) Vv. 52-54.
(6) Vv. 55-57.
(7) Vv. 58-60.
(8) Vv. 61-62.
(9) V. 63.
(10) Vv. 63-67.
(11) Vv. 68-73.
legge nelle note alla poesia.
— 203 —
elio l’onestà, la pietà, la fede rendevano tranquilla e
gioconda. E il poeta sospira e rimpiange: Quanto mutato
ormai da quel di pria Veggo il villaggio! (1).
Ma la giovinezza del poeta, nato nel 1812, cade in-
torno al 1830, nel qual tempo già esistevano tutte le
cause che il poeta adduce del doloroso mutamento.
Leggi severe e lungo giogo (2)? Ma dal '15 in poi
leggi e giogo erano gli stessi. La corruzione (3)? Ma
doveva essere dessa maggiore nel periodo che va dal
1851 al 1850, cioè quando l’Italia diede tanti nobili ed
eroici esempi di virtù civili e patrie? La gioventù ita-
liana tolta alla famiglia e alla patria e mandata in terra
straniera (4)? Ma questa dolorosa usanza era praticata
dall’Austria nel 1830 non meno, e forse più, che nel 1857.
E il clero italiano (5), se si eccettua il breve periodo
a cui Pio IX diede l’intonazione liberale, fu mai pa-
triotta? È inutile negarlo: sebbene il poeta abbia collocato
questo suo canto Urti quelli che intitolò putrii , non è
quello della patria il pensiero dominante di esso; chè
altrimenti il poeta si sarebbe accorto che quell’età, che
egli vagheggiava e rimpiangeva come perduta, era stata
per la patria la più dolorosa. Spento infatti il ricordo
ili quei principi di libertà e d’eguaglianza civile che l’89
aveva insegnato e non ancora accesi gli entusiasmi una-
nimi e irrefrenabili che fecero nel ’48 l’Italia provviso-
riamente libera e idealmente una, più profondo che mai
era nel ’30 il servaggio d’Italia, appunto perchè la grande
maggioranza dei cittadini, a malgrado degli sforzi isolati
dei pochi generosi, ancor non ne sentiva tutta la vergogna
e il dolore. Ma se la patria fosse stata più vicina allo
spirito del poeta quando componeva la sua poesia, si
(1) Vv. 74-75.
(2) V. 78.
(3) Vv. 79-80.
(4) Vv. 81-88.
(5) Vv. 89-100.
— 204 -
sarebbe egli accorto che le cose erano ben diverse nel
1857, alla vigilia di quel '59 che recò con sè il compi-
mento di gran parte delle speranze da lungo tempo ac-
carezzate; e avrebbe sentiti i fremiti degli animi im
pazienti e trepidi nell’aspettazione dello scioglimento
imminente del gran dramma storico; e avrebbe visto i
germi, maturati nel silenzio e nel sacrifizio e germogliali
già fuori del suolo delle congiure e delle aspirazioni,
prossimi ormai a dare il frutto giocondo della patria;
e avrebbe dagl' indizi ormai certi, e a tutti visibili e da
lui stesso altrove cantati, tratto il vaticinio lieto pei' le
sorti d’Italia.
Ma invece il concetto fondamentale della poesia non
è patrio, ma è sociale.
Tra le varie cause delle mutate condizioni nella vita
del villaggio, che enumera il poeta, una sola ve n’è che
ancor non esistesse nel 1830 ed è l’ impuro Fumo di
studi (1), col quale egli accenna alle nuove dottrine
comunistiche, il cui rappresentante più famoso era il
Proudhon. Il poeta le abborrisce, vuoi perchè le condan-
navano i suoi principi, vuoi per la dolorosa impressione
prodotta in lui dalle orrende (jiornate del ghigno IS IS
che fecero di Parigi un macello di cristiani, alle quali
aveva assistito terrorizzato (2); più per i principi però, che
per l’impressione; poiché già l’anno precedente a quello
della poesia in discorso, con il canto II comuniSmo e
Federico Bastia! egli le aveva severamente condannate
come quelle che non potevano altro che partorir l’odio e la
lotta di classe; e quest’ultimo canto è appunto un elogio
encomiastico del grande economista Maionese, sorto a
combatterle in nome del dritto, della libertà e della reli-
gione. E veramente questo canto al Bastiat è, a mio giu-
dizio, per movimento lirico e per serrato e logico svolgi-
ti) Vv. 78-79.
(2) Lettera dedicata a un amico con la data 13 febbraio 1859.
— 205 —
mento e per precisione di contorni, uno dei più belli
dell’ Aleardi e l’odio dello nuove dottrine e il terror della
lotta civile «rii dettano accenti di vera poesia; le strofe
IV, V e VI, ad esempio, non si posson leggere senza
raccapriccio; si vede chiaramente che in questo tempo
(1856-1857) quell’odio e quel terrore erano i sentimenti
predominanti nell’anima «lei poeta.
I quali finiscono anche di prevalere nella poesia
Per un giuoco di pallone..., di cui informano tutta l'ul-
tima strofa. Infatti, obbedendo all’ impulso di essi il
poeta si scaglia d’un tratto contro i contadini con vee-
menza brutale: Ah! villano, villano! Ahi vecchio seme
degenerato ! (1) e con amaro sarcasmo gli rimprovera
la gioia dimostrata per la catastrofe del ’49 (2) e per le
stragi di Belfiore (3).
Ma queste dimostrazioni, che sarebbero nefandezze
degne d’ogni maggior biasimo e castigo, non si sono
fortunatamente mai avverate, nel senso almeno che vor-
rebbe il poeta. Può darsi che qualcosa di simile si sia
perpetrato in quelle occasioni dal partito austriacante
nel Veneto: ma tali scelleratezze non erano imputabili
ai contadini; e quel che più monta per il giusto giu-
dizio della poesia, non erano conseguenza delle teorie
comunistiche, le quali tanto orrore destavano nell’animo
del poeta. Ed è quest’orrore appunto che lo fa veder
grosso e gli detta quelle parole tanto più amare quanto
più ingiuste; cosa tanto vera, che quando egli vuol cercar
un esempio dei tristi effetti delle esecrate dottrine, lo
va a trovare in Galizia. Scrive egli: Ognuno conosce i
selvaggi macelli di Galizia, provocati dalla politica
iniquamente ipocrita dell' Austria. Il giuoco stesso dello
aizzare il villano contro il signore, rotea, la scellerata,
tentare nelle nostre bande; ma la non bestiale indole
(1) Vv. 101-102.
(2) Vv. 107-119.
— 206 —
dei nostri campag nuoti sventò la trama bestiale (1). È
confortevole che il poeta stesso lo confessi; ma la ri-
trattazione non 6 sufficiente. Se i tristi fatti fossero av-
venuti sarebbe stata carità di patria tacerli; ma simu-
larli o accrescerli fu ingiustizia più che mai atroce e
intempestiva in un tempo che gli animi di tutti i citta-
dini di tutti i ceti, assorti nell'unico pensiero della patria,
dimostrarono tanto unanime consentimento e tanta mi-
rabile virtù di concordia.
lo son ben lungi dall' approvare lo critiche troppo
acerbe e talvolta inurbane che V. Imbriani (2) mosse
contro l’Aleardi, il quale ebbe amor di patria vero e
sincero e per la patria operò non inutilmente nel ISIS
come inviato dal governo provvisorio di Venezia e soffrì
per la patria persecuzioni dall’Austria nel ’52 e la patria
cantò nobilmente e amorosamente in poesie, che dagli
Austriaci gli procurarono il carcere, ma gli meritarono
però l’ammirazione e ancor gli meritano la riconoscenza
degli Italiani. Ma il bizzarro critico napoletano aveva in
gran parte ragione, quando sentenziava che tra il fanta-
sma (poetico) contemplata e ini (il poeta) contemplatore
s’inframmette sempre un'altra immani ne: quella della
sua persona (3). L’Aleardi infatti è una di quelle nature
poetiche fornite di poca oggettività, cioè poco capaci di
astrarre la propria persona dal loro soggetto : i concetti
sono in esse più precisi, i sentimenti più profondi, laflgura-
zione più sicura, se passano attraverso al loro io soggettivo
che è, come dire, l’etere cosmico attraverso il quale av-
viene il fenomeno. Nella canzone, che abbiam sotto esame,
succede appunto che la personalità del poeta, o uno
dei suoi sentimenti più profondi che in fondo è la stessa
cosa, si sovrappone a poco a poco al tema e finisce per so-
di Nota 3, pag. 322.
(2) Fame usurpate, 4 studi di V. Imbriani, seconda edizione,
Napoli, Morano 1888. I." Il nostro grande quinto poeta (A. A.)
(3) Fame usurpate, ed. cit. I, III, pag. 16.
- 207 —
verchiarlo. Il poeta si propone ili comporre un canto
patrio e ne scrive uno sociale; il cittadino uccide il pa-
triotta; Proudhon fa dimenticare anche pii Austriaci; il
sentimento anticomunistico oscura il sentimento della
patria. Sono i suoi principi sociali che lo spingono a
descrivere come onesta e beata e a sospirar, lui pa
tri otta, una società politicamente disgraziatissima; sono
essi che lo spingono a limitare alla classe dei contadini
le tristi influenze che ad ogni modo agivano su tutti i
cittadini; sono essi che gli dettarono quella feroce, quanto
ingiusta invettiva e gliela fanno terminare in quella ma-
cabra, quanto inestetica, immagine dello spiccar l’in-
sanguinato capo da le salme morte e — peggio! — ven-
derlo ai /iridi oppressori (1).
Nell’ indirizzar il canto all'amico V. Batti, il poeta
scrisse: K canto inedito , e forse meriterebbe rima-
nerci (2). Infatti, se noi la paragoniamo ad altre bellissime
poesie dell’ Aleardi, a It comuniSmo e F. Bastia t (3).
a La ralle della morte (4), a molti passi di Monte
Circello (5) grandioso qua e là di immagini potenti;
alla leggiadra e vaporosa canzonetta Le ondine (0) e
tra gli stessi canti patrii a I tre fiumi e Tornerà , noi
ci sentiamo quasi disposti a dar ragione al poeta, se
non pensassimo che, per una completa costruzione della
personalità d’uno scrittore, ò necessario conoscere di lui
l’ottimo e il buono e anche quello che non è nè ottimo nò
buono.
(1) Vv. 132-134.
(2) Nota 1 alla poesia pag. 320.
(3) Ed. cit., pag. 245 e segg.
(4) Pag. 210 e segg.
(5) Pag. 77 e segg.
(0) Pag. 213 e segg.
- 208 —
Tra "li scritti apologetici del giuoco della palla io
non dubito di mettere Gli Azzurri e i Rossi di Ed-
mondo Dc-Amicis (1). Sono essi un vero inno in prosa
del giuoco: in prosa si, ma la prosa è così agile, alata,
ritmica, che, pel diletto che procura, può gareggiare con
qualsiasi poesia; e per tutto il libro scorre un senso di
così calda e convinta ammirazione per il nobile esercizio,
di gratitudine così manifesta per la sua virtù ricreatrice
c una nozione così sicura della sua bellezza c utilità,
che vi si sente l'inspirazione e vi si troverebbe il mate-
riale per molte liriche. In verità tutti questi sentimenti
sono spesso velati da uno scherzo bonario e urbano;
vero sale attico che serve a variare e render più saporito
il gusto della squisitissima vivanda imbandita. Questo
scherzo, però non toccando mai il giuoco, non diminuisce
la serietà della trattazione, e non fa dubitare della since-
rità della inspirazione, quando questa gli detta quelle pa-
gine mirabili di vera e calda eloquenza o gli suggerisce i
tratti di quelle limpidissime descrizioni.
Il l.° capitolo contiene 1’apologia del giuoco: le bellezze
varie e molteplici ili questo sono rivelate mediante com-
parazioni con le bellezze dei più svariati spettacoli della
natura o della vita degli animali e degli uomini : no na-
scono paragoni originali e curiosi. Le arcale descrii te
da un pallone ballalo e ribaltato alla brava sono im-
magini vive e distinte nella cui varietà infinita si vede
la maestà, la forza, l'eleganza, la grazia come in linee
d’archi di trionfo titanici, in curve d’arcobaleni, in
traiettorie di bombe, in faglie di razzi, in voli di ron-
dini e di saette, in contorni di montagne e d'onde di
oceano in tempesta (2); il pallone rade il muro d’ap-
(1) Edmondo De-Amicis, Gli Azzurri e i Rossi, Torino, Ca-
sanova, 1897.
(2) Loc. cit., pag. 14.
— 209 —
poggio e lo morde e ne sfugge e vi ribatte , rabbioso
moie il ronzone che non si pub staccar dal vetro dorè
dà del capo (1); la fantasia dello scrittore va dietro al
pallone che sapeva il gioco da tetto o da basso come
dietro l’areostato che si perde nell' azzurro n alt 'astro
che cala dietro l* orizzonte (2) ; certe rotate lo fanno
ribrare da capo a piedi come una nota sostenuta e
limpidissima d’un tenore (3 ); una battuta trionfale che
ha tenuto l'animo sollevato come una disputa di medici
a! capezzale d' un ammalato gli allarga l’anima come un
annunzio di salvezza (4); i diversi colpi, e i rari rim-
balzi, scozzi, salti del pallone hanno figura e senso di
pror orazioni, di scherni, di risposte superbe, d'audacie
eroiche, d’insidie feline, ere. ecc. (5).
Quale altro scrittore, prosatore o poeta, ha veduto
così addentro nelle bellezze del giuoco e cosi bene le ha
sviscerate e con tanta fedeltà e varietà descritte?
E le lodi del giuoco rifulgono meglio ancora nel
2." capitolo, dove l’autore fa l’analisi degli effetti dei
giuoco. Egli non si dissimula la difficoltà di spiegare
chiaramente in che questo diletto (del giuoco) consista
e definire tutte le fonti da cui deriva (ti); ma, messosi
all'opera, questo fa con grande conoscenza del soggetto
e con acume sottile e diligente.
Dire che (il diletto) nasce dal veder compiere un
esercizio di destrezza e di forza, che noi conosciamo
per esperienza difficile, è dire una ragione che vale
per tulli gli esercizi fìsici. Questo ne ha moli' alt re sue
proprie (7), avverte l’autore prima di iniziare l’enume-
(1) Ib-, pag. 14.
(2) II)., pag. 14.
(3) Ib-, pag. 15.
(4) Ib., pag. 15.
(5) Ib., pag. 15.
(6) Ib.. pag. 18.
(7) Ib., pag. 18.
14
— 210 —
razione (Ielle ragioni di diletto particolari al giuoco della
palla, e ha in parte ragione. Ma solo in parte: perchè
se noi consideriamo che, per la medesima varietà del
giuoco, in nessun altro esercizio è possibile dimostrare
la forza e la destrezza in condizioni cosi diverse, in casi
cosi imprevisti, con atti e pose cosi varie come in questo,
dovremo ammettere che quelle due doti egregiamente
manifestate hanno in questo, più che in qualunque altro
esercizio, valore di destare, specialmente in chi n'è buon
conoscitore, una gioconda meraviglia e una deliziosa
ammirazione.
Anzi io credo che l’abilità dei giocatori non solo è
la principale fonte del diletto, ma è la condizione neces-
saria perchè possano coesistere quelle altre fonti di esso
che il De-Amicis enumera. Vedere una partita giocata
da giocatori inesperti è come veder guastare una cosa
bella. Che curiosità potrebbe destare un pallone battuto
da giocatori deboli o inetti (1)? E quale spettatore, al
vederli, potrebbe dimenticarsi in tanta curiosità e so-
spensione d’animo da acconsentire con tutto il corpo a
tutti gli sforzi di lui (2)? E quale occhio dilettarsi nel
mirarli ad avanzarsi e indietreggiare dopo la battuta e
dopo la rimessa (3)? o alPaccorrere simultaneo degli uni
e degli altri ora a destra e ora a sinistra (4)? E che
bellezza trovare nella varietà (lenii atti, dei passi, denti
slanci, dei salti, delle corse che presentano insieme lo
spettacolo dell' acrobatica, della scherma e de l pagi-
latori E come parteggiar per l’uno o per V altro
parlilo ì
Insomma, se i giocatori non sono e valenti e forti
e destri, lo spettacolo non può gran cosa dilettare. E
(1) Ib., pag. is.
(2) lb., pag. Iti.
(3) Ib., pag. 20.
(4) Ib., pag. 20.
(5) Ib., pag. 20.
— 211 -
ben lo sa il De-Amicis, al quale l’ ammirazione per i
campioni del giuoco inspirò pagine magnifiche e gran-
diose, come sono lineile dedicate a Battista da Porta-
comaro (1) e al Bossotto (2). Leggasi la chiusura dell’en-
comio a quest’ultimo:
Aveva un occhio di linee, una sveltezza di cervo,
una forza di. toro, una precisione di colpo sbalorditola;
faceva, dette rimesse che andavano da un capo all’altro
del giuoco , delle battute come cannonate, e un colpo di
vento pareva, che era da per tutto ad un tempo; e fu
uno sgomento negli avversari, uno stupore nei vecchi
intenditori, un seguito di vittorie fulminee, salutate
con entusiasmo crescente dalla moltitudine, per cinque
giorni successivi ; fu un 'epopea di prodezze fa volose,
finita la quin ta sera, che già imbrun iva, con una volata
di battuta che sorpassò il muraglione in fondo, non
toccato mai da alcun battitore, e che ci lasciò traso-
gnati come un miracolo ; dopo di che l 1 2 3 4 accompagnammo
alla stazione, come una falange di vinti affascinati,
e lo vedemmo partire a notte chiusa — cavaliere er-
rante del bracciale — per ignoti lidi, in cerca di più
ardue prore e di più fulgide glorie (3). Chi ha saputo
scrivere queste linee, sotto cui palpita tanta commossa
ammirazione per uno dei campioni più famosi della mo-
derna sferistica, ben capirà che nella valentia dei giocatori
più che in qualunque altra cosa consiste il diletto degli
spettatori.
Degni di speciale considerazione sono ne (ìli Azzurri
e i Itossi gli studi di psicologia individuale e collettiva;
della folla e delle persone. Ci passano innanzi le figure
più diverse: il pubblico di tutti i giorni (4) e quello della
(1) Ib., pag. 78-78.
(2) II)., pag. 79-82.
(3) Ih., pag. 82.
(4) Cap. VI.
— 212 —
domenica (1), giocatori e spettatori, gli assidui fanatici (2),
gli scommettitori (3), i giocatori vecchi (4), gli attori e
gli appassionati delle gare in città e di quelle in pro-
vincia (5), ecc. Certi tipi son delineati con tanta maestria
che si stampano nella memoria indelebilmente; altri ce
ne ricordano di quelli che noi stessi abbiamo visto o
spettatori di qualche gara al pallone o in consimili altre
occasioni e sentiamo che veramente essi son fatti cosi
e che è naturale che si comportino così. Curiosi quegli
spettatori assidui, uomini agiati e maturi, la più parte
rlie giocarono al pallone (piando acerano tutti i loro
denti, come il bracciale (ti), raminganti nei varii tempi da
un luogo all’altro per seguire lo sferisterio da un capo al-
l’altro della città, accomunati con la gente più diversa
dalla stessa passione del giuoco, che tutti si assorbe i
lor più gravi pensieri (7) ! Comiche (incile signore del
pubblico della domenica che si vanno ad annoiare allo
sferisterio per compiacere il marito che invece vi si
diverte un mondo (8)! Cari quei bambini che guardano
e non vedono con il loro sguardo errante il babbo gio-
catore, indicato dalla mamma (9)1 Divertenti quei pro-
vinciali che càpitano allo sferisterio per conoscere i gio-
catori il cui nome va per le gazzette (10)1 E quei vecchi
che allo spettacolo ringalluzziscono, memori del lor bel
tempo antico (11) ? Ma tipica sopratutto la famiglia (licer-
li) Cap. VII.
(2) Cap. IX.
(3) Cap. X.
(I) Cap. XI.
(5) Cap. XIV.
(6) Loc. cit., pag. 39-40.
(7) Ib., pag. 40 e segg.
(8) Ib., pag. 45-46.
(9) Ib., pag. 46
(10) Ib., pag. 46.
(II) Ib., pag. 49.
— 213 —
lentissima dagli amici dei giocatori stupendamente
ritratta, che noi sentiamo che è proprio così per averla
conosciuta in mille circostanze (1) ! E chi può trattenere
le risa al leggere i modi differenti con cui gli spettatori
tentano di schivar il pallone che viene a cader su di loro,
oppure al sentire le appassionate e sbalorditone escla-
mazioni dei fanatici (2)? Non fi degno di storia e di poema
il grido memorabile d’uno che, durante un palleggio
straordinario, esce fuori a esclamare: Ma io divento
matto (3)!?
Dopo i fanatici i piò degni di studio sono gli scom-
mettitori (4), che si possono dividere in due classi: i
giocatori, d'istinto che giocano o scommettono da per
tatto e quelli in cui il baco della scommessa non si
sveglia che al gioco del pallone, per effetto dell’ ecci-
tamento che dà loro lo spettacolo (5). A questi conviene
aggiungere ancora gli scommetti tori per risentimento (0).
Ed eccoli classificati. Questo del classificare è un pro-
cesso logico caro al De-Amicis e frequente negli scritti
di lui: metodo razionale per eccellenza, mediante il (piale
l'autore, discendendo dal generale al particolare giunge
a distinguere i tratti caratteristici della specie nel genere,
della sottospecie nella specie, dell’individuo nella sotto-
specie e a penetrare nella natura essenziale così delle
classi come delle persone; la quale una volta ben cono-
sciuta, egli poi fissa con tocchi di mirabile precisione e
ci rivela in quegli schizzi e quadretti così veri, così vivi,
coi (piali si dimostra eccellente conoscitore dell’anima
della folla e degl' individui. Ma il processo logico e ar-
tistico, di cui discorriamo, non ò solo per il De-Amicis
(1) Ib., pagg. 49-50.
(2) Ib., pag. 56 e segg.
(3) Ib., pag. 57.
(4) Ib., pag. 61.
(5) Ib., pagg. 61-62.
(6) Ib., pag. 62.
— 21 4 —
10 strumento della sua abile e fine analisi psicologica,
ma è ancora una fonte sicura di ordine o di chiarezza;
poiché ogni atto, ogni fatto e ogni fenomeno ò con questo
procedimento prima considerato nel suo complesso e poi
conosciuto nelle singole parti e quindi con la forza della
sintesi e con la diligenza dell'analisi chiaramente e or-
dinatamente ed efficacemente descritto.
E le medesime qualità, il De-Amicis le dimostra pur
come descrittore; chè psicologo e descrittore, mutato il
campo, sono la medesima cosa, comecché esser psicologo
significhi descriver atti e aspetti morali ed esser descrit-
tore significhi conoscere e riprodurre la natura essen-
ziale delle cose e dei fenomeni.
E i saggi di descrizione che noi troviamo ne Gli
Azzurri e i Rosai sono degni della rinomanza dell'autore.
In poco più che due paginette, egli descrive la tattica
del giuoco (1), nelle sue linee generali almeno, e lo fa
intendere meglio che non lo Scaino con tutto il suo trat-
tato. Lo sferisterio con il suo campo, solido e /orso come
11 pavimento duina sa/a( 2), con il suo muraglione bianco
che taglia l’azzurro del cielo come la cortina d’uno,
fortezza ciclopica (3), con le sue reti di fil di ferro...
che dònno l’immagine (l’ima gabbia smisurata dove
debba roteare una famiglia di aquile { 4), ci sta dinanzi
nella descrizione del De-Amicis, grandioso e solenne come
per invitarci a preparar l'animo alle lotte epiche che vi
si combatteranno e alle lodi entusiastiche che di esse
farà l’autore. E quella folla serrata sulle scalinate noi
sentiamo che vive e s’agita e palpita nell’aspettazione
della partita imminente (5); e vediamo passare il pallonaio
(1) Ib.. pagg. 29-31.
(2) Ib., pag. 35.
(3) Ib., pag. 35.
(4) lb., pagg. 35-30.
(5) Ib., pag. 36.
f
- 215 —
che va a lavorar (li schizzatolo dietro la rete (1), sen-
tiamo tossir il chiamatore gallonato che prepara le corde
vocali a urlare i punii alle nuvole (2), assistiamo col
cuore quasi sospeso ai preparativi d’ima partita clas
sica (3).
Altrettanto vivaci descrizioni sono quelle de II gioco
del pallone a Firenze (4) caro al filologo o quelle de
Il nuovo sferisterio di Torino caro alle spettatore
assiduo; sgorgante dal cuore appassionato è la dichia-
razione di preferenza al giuoco del cordino contro il vecchio
giuoco a cacce, dichiarazione che s’espande quasi com-
mossa nel penultimo periodo del capitolo (5), largo come
il respiro di chi, giunto alla mèta dei suoi desideri, sod-
disfatto, intenda riposar finalmente; squillante come un
osanna, il canto delle memorie (/loriose (6) e delle Gior-
nate d'oro ( 7); pungente come lo smarrimento di cosa
preziosa e cara, il rimpianto della decadenza del gioco,
specialmente nelle nostre regioni, ma presto confortato
da Speranze e Propositi (8).
Ma dove la maestria descrittiva del De-Amicis tocca
veramente il culmine della perfezione è nel capitolo
Fu palleggio memorabile (9). Del (piale, scrive l’autore,
ebbi una così vira impressione che con un leggero sforzo
me lo potei rifare nella mente < piasi intero per ri-
petermene poi la rappresentazione a mio piacere, come
(Vana scena ili teatro col cinematografo (10). Ed ecco
(1) II)., pag. 3(5.
(2) Ut., pag. 37.
(3) Pagg. 3(5-37.
(4) Gap. XV.
(5) Cap. XVII, pag. 107-108.
(fi) Gap. XXIX.
(7) Gap. XXVII.
(8) Gap. XXX.
(9) Gap. XXVIII.
(10) Gap. XXVIII, pag. 1(53.
— 216 —
una serie di colpi uno più sorprendente dell’altro: colpi
abilissimi tutti, ma quale dato di punta elegante e
fermo (1), quale contro il muro donde scozza ad angolo (2),
quale di sopra capo giusto e vigoroso (3); l’uno di rac-
chetta a vita rasente al muro, l’altro di sotto in su (4),
il terzo e il quarto a tutto sbraccio (5); alcuni serrati,
a poco più d’un’altezza d’uomo con scambio rabbioso
di botte e di risposte ((3), un vero tic Zac di tiratori
•li bastone, altri di piena data (7), o a braccio carico,
o ad arco basso e crescente, difficilissimo a conoscere (8):
una. ventina di colpi di palleggio insomma, ansando i
giocatori, eccitati gli spettatori, crescendo l’urlo alle
stelle (il), li finalmente, dopo altri pochi colpi altrettanto
magistrali, libero e già appostato, riceve il pallone un
giocatore e con una volata sovrana lo manda a perdere
oltre la rete (10). E la descrizione procede senza gira-
volte, a tocchi rapidi e sicuri, con gli abbondanti termini
tecnici sbrigativi che dispensano dalle perifrasi, quasi
per imitar la rapidità delle botte e delle risposte o quasi
per abbreviar l’ansia che ci solleva il petto dinanzi al
ripetersi di colpi che si fanno a mano a mano sempre
più improbabili. È un inno questo al giuoco della palla.
11 diletto, che in simili momenti esso può dare, non mai
da altri fu sentito con maggiore intensità nè con maggiore
intensità riprodotto.
Riassumendo dunque: un senso largo della vita e
un umorismo festevole e discreto; osservazione diligente
(1) l’ag. 163.
(2) Pag. UH.
(3) Ib.
(4) Ib.
(5) l’ag. 165.
(6) Pag. 166.
(7) Pag. 167.
(8) Pag. 167.
(9) Pagg. 167-168.
(10) Pag. 160.
— 217 —
della realtà e visione esatta di essa nel suo insieme e
nelle sue parti; chiarezza e ordine nella disposizione e
distribuzione della materia; precisione e sicurezza di
disegno; stile immaginoso e caldo e pur costantemente
sorretto dal buon gusto elegante e sobrio; ricchezza ab-
bondante di tavolozza concessagli dalla padronanza as-
soluta della forma ricca, varia, propria, pura, elettissima :
queste sono le qualità invidiabili di tutta l’opera letteraria
del De-Amicis. Ma in qualcuno dei suoi libri, specialmente
negli ultimi comparsi, ci può parer di sentirvi un rilas-
samento nell’inspirazione, un senso di stanchezza, per
cui le migliori attitudini di questo scrittore paiono finire
in una virtuosità un po’ vuota e monotona. Ne (ìli Azzurri
r i Rossi questo non succede mai. L’amore del nobile
giuoco è per lui una fonte perenne di inspirazione, che
non viene ad affievolirsi mai, ma si sostiene da capo a
fondo sempre con il medesimo émpito di vigore. E noi
dobbiamo esser grati al De-Amicis che con questo suo
bel libro e con il suo autorevole esempio ha saputo in-
fondere anche in altri l’entusiasmo per questo esercizio
e propagarne il culto salutare. E con lui ci domandiamo
perchè non prende amore la gioventù a un esercizio
virile che prova così gagliardamente /ulte le forze fi-
siche a un tempo e mette in così bella evidenza le forme
e le forze e dà soddisfazioni d’amor proprio così vive
ed in pubblico ( 1); e perché non si curano i fautori
dell'educazione popolare d’uno spettacolo così piacevole
e così sano (2); e con lui speriamo di veder sorgere
società di ('resi sapienti e munifici che facciano co-
strame sferisteri giganteschi , pari alle antiche terme,
divisi in vasti scompartimenti per il popolo, per la
studentesca, per i fanciulli, dove intorno a quella sovrana
de! pallone tutte le palestre d'educazione fìsica siano
(1) Loc. cit., pag. 180.
(2) Ih., pag. 180.
— 218 -
raccolte. Speriamo insomma che risorgano i ginnasi greci
e le terme latine. E nel presente decadimento delle forze
fisiche, nel progressivo esaurimento del sistema nervoso
delle persone d’ogni classe, ma specialmente di quelli
che s’applicano allo studio, è quanto si può augurare
ogni buon cittadino.
CAP ITO 1.0 V.
Gruppo IV [La letteratura giocosa, satirica e umoristica del
giuoco della palla). Il giuoco in Firenze e Canti Carnascia-
leschi che ne traggono argomento (I’Ottonaio e il Lasca)
— II Boccalini e il Ragguaglio XI II della /." Centuria. — Il
Clasio e la favola II pallone e il bracciale. — Il Belli e il
sonetto Er giucator de Pallone. — Il Limi e l’episodio del
Tura nel Malmantile Riacijidatato. — Lokenzo Bellini e un
passo della sua Bucchereide. — 11 Leopardi e il Dialogo
d'Èrcole e di Atlante. — Il De-Amicis e l’umorismo ne Gli
Azzurri e i Rosai. — Il Fagiuoli e un passo d’un suo capi-
tolo. — Il Fusinato e una pallonata formidabile.
La letteratura del giuoco della palla, della quale
mi propongo di trattare in questo capitolo, si potrebbe
chiamare letteratura di costume, perchè ai costumi
essa tutta si volge o per approvarli o burlarli o bia-
simarli; ma a differenza della poesia satirico-umoristica
originata dal mitologico episodio di Giacinto la quale
aveva per fondamento la parodia, essa ha, la massima
parte almeno, per base la metafora. E come è necessario
in siffatta poesia metaforica, nella quale coso e parole
son trasportate a essere o a significare altro da quello
che naturalmente sono e significano, siano ben comuni
e note tra il popolo, affinchè il doppio senso o il motto
arguto o l’acre punta, il riso cioè o la satira, scatti fuori
con spontaneità e prontezza, così centro naturale di quella
poesia doveva essere e fu Firenze, i cui cittadini, più
- 220 —
che quelli ili qualsiasi altra città, furono del giuoco della
palla appassionatissimi. In Firenze infatti il giuoco fiori
in tutte le sue forme, da quella nobile ed eroica del
pallone col bracciale a quella più umile della palla di
cuoio colla mano o col trespolo o col maglio e a quella
prettamente fiorentina del calcio. E a tale punto giunse
l'amore di quei cittadini per il loro giuoco prediletto,
che, neppur nei tempi più calamitosi della città, smettevan
l’uso del piacevole trattenimento; così che il Varchi at-
testa che durante il memorabile assedio che fini con la
morte della libertà fiorentina la città era piena di al-
legro coraggio , tanto che nel Camerale non vollero fosse
ammesso l’antico gioco del Calcio, del gitale diedero un
simulacro, com'era usanza, sulla piazza di S. Croce, che
fu salutato, ma senza danno, dalle artiglierie nemiche (1 ).
Data quindi la grande frequenza del giuoco in Firenze
e l’amor dei cittadini per esso, non fa stupire il vederlo
spesso passare, nella maggior parte (.Ielle sue forme gaia-
mente atteggiate, in quel copioso e vario e sollazzevole
cinematografo della vita fiorentina che sono i Canti Car-
nascialeschi {2): nella maggior parte, ma non in tutte,
chè la più nobile, quella col pallone al bracciale non vi
figura, poiché, rinata tardi coll’ultimo Rinascimento e
rimasta piuttosto esercizio particolare delle classi più
agiate, non poteva trovar posto tra le più umili conso-
sorelle nei canti carnascialeschi, che sono la riprodu-
zione di caratteri, di usanze, di professioni, di passatempi
tutt'alfatto popolari. Quattro di questi traggono argo-
(1) Benedetto Varchi, Storia Fiorentina, Società tipografica
milanese dei Classici Italiani, voi. IV, libro XI, pag. 37. Cfr. pure
Gino Capponi, Storia della Repubblica di Firenze, Firenze, Bar-
bèra, 1875, v. II, libro VI, cap. IX, pag. 139 e F. D. Guerrazzi,
L’assedio di Firenze.
(2) Canti Carnascialeschi, Carri e Mascherate, secondo l’edi-
zione del Bracci, con prefazione di O. Guerrini, Milano, Son-
zogno, 1883.
— 221 —
mento dal giuoco : due sono di Battista dell’ Ottonaio,
due di Anton Francesco Grazzini, detto il Lasca.
Il primo dell'Ottonaio è intitolato Canto dal calcio (1),
del giuoco cioè più particolare di Firenze. Comincia con
un invito a giocarvi:
Al prato, al calcio, su giovani assai
Or che le palle balzan più che mai! (2)
e continua con le lodi del giuoco (3) e con istruzioni intorno
a esso (4), alla disposizione dei giocatori (5), al tempo
da scegliersi (6), ai vari modi di comportarsi (7), ecc. ecc.
Parrebbe insomma una semplice e minuta descrizione
del giuoco. Ma questo e i particolari anche minimi di
esso hanno tutti una significazione metaforica : la quale
è riferita a cose così laide, con un’insistenza così continua,
che se ne ingenera un’insoffribile stucchevolezza. Nè
maggior finezza nè maggior varietà ha l'altro Canio dalla
palla col trespolo ; del quale ncmmen l’ultima parte, che è
diretta a donne, non è esente dalle allusioni salaci e dagli
equivoci grassocci. Onde, per quanto si voglia pensare
che questi sono canti carnascialeschi, canti cioè che
erano detti o cantati in un tempo in cui par che fosse
di prammatica ogni maggior tolleranza, e che son tutti
d’indole meramente popolari, anzi composti per la mi
nata plebe, pur tuttavia non può non stupire e nauseare
tanto triviale e sfacciato turpiloquio, indice tristo della
corruzione della Firenze medicea, nella quale, spento il
sentimento della libertà, sembra si fosse spento pure
(1) Ed. cit.. pag. 222.
(2) Vv. 1-2.
(3) Vv. 3-6.
(4) Vv. 8-10.
(5) Vv. 11 e segg.
(6) Vv. 10 e segg.
(7) Vv. 25 e segg.
ogni sentimento di moralità (1). E tutta questa indecenza
non è neppur resa nell’Ottonaio meno tediosa dai pregi
dell’arte, la quale spesso ò rozza e grossolana, affaticata
(piasi sempre nella ricerca dell' allusione e del doppio
senso.
Più linda facile e scorrevole, se non più pulita, ò
l’arte del Lasca; chè, non mancano in essa le trivialità
nè l’ambiguità oscene, queste anzi sono egualmente sozze
e intollerabili ; ma per essere meno continue, sono meno
monotone. Il Canto dei giocatori di patta al maglio (2),
dopo la notizia della provenienza del giuoco da Napoli,
dalla quale città si diffuse poi fra la gente (3), dà i re-
quisiti di un buon giocatore: giovinezza , robustezza ,
buona vista ( 4); poi le norme intorno al ben giocare (5)
e alla scelta del tempo ((1) c dell’abbigliamento (7); ter-
mina con le lodi del giuoco (8) e con un invito a eser-
citarvisi (9).
Nel Canto dei Pallai (10) i fabbricanti di palle e palloni,
elio dovevano essere numerosi in una città che aveva
tanta passione per questo giuoco, vantano l’utilità e l’ec-
cellenza del lor mestiere:
(1) Vedi Prefazione di O. Guerrini all’edizione Sonzogno,
pagg. 13-16.
(2) Ed. cit. pagg. 271-272; e inoltre Le rime burlesche edite
ed inedite di Anton Francesco Grazzini detto il Lasca, per cura
di Carlo Yerzone nella Raccolta di opere inedite o rare d'ogni
secolo della Letteratura, Firenze, Sansoni, 1882, canto Vili a
pagg. 175-177. Per la bibliografia di questo e del canto sottocitato,
vedi Prefazione del Ver zone.
(3) Vv. 4-7.
(4) Vv. 11-17.
(ó) Vv. 18-31.
(6) Vv. 32-38.
(7) Vv. 311-46
(8) Vv. 47-50.
(9) Vv. 51-55.
(10) Ed. Sonzogno, pagg. 286-287: ed. Sansoni, pagg. 196-197.
— 223 —
I)i far palle e palloni
Noi siam tutti maestri eletti e buoni (1).
E si fingono stranieri venuti in Firenze per inse-
gnar la loro arte (2), e si dicono espertissimi non nel
far palle lesine e bonciane (3) cioè di cuoio ripiene
di materia diversa e ben salde, ma quelle a vento (4),
che si giocati col bracciale (5) e con le quali si fa il giuoco
del calcio (6). A proposito del quale fa il poeta un’allu-
sione a una costumanza degna di menzione, che il Varchi
descrive diffusamente nelle sue storie. Narra questo scrit-
tore che era anticamente usanza in Firenze che
Fanno ne' giorni di carnevale, per interrompere i con-
tinui ragionamenti delle faccende mercantili e l'assiduo
lavorar degli artefici che i giovani, e massimamente
i nobili, uscissero fuori travestiti con un gran pallone
gonfiato innanzi, e venissero in mercato vecchio e in
tutti quei luoghi dove sono le botteghe e i traffici dei
mercatanti e degli artefici, e quindi dando a quel pal-
lone, e mescolandosi con gli altri cittadini, e Intendo
loro addosso il pallone, e cercando di metterlo per le
botteghe le facessero cessare e finire in quella maniera
le faccende per quei pochi giorni. Quest'usanza dei
Fiorentini... cominciò... a peggiorare e, dove (piasti tra-
vestiti non facevano altro che dare col pallone a chimi-
che eglino trovavano per le vie e per le piazze, e me-
scolarsi cogli altri senza far oltraggio alcuno alle
persone cominciarono di poi a uscir fuori quando
pioveva e che i rigagnoli correvano, e le rie erano
piene di fango e di mola, e gittandosi per l'acqua e per
(1) Vv. 2-3.
(2) Vv. 4-1 0.
(3) Vv. 11-14.
(4) Vv. 15-17.
(5) Vv. 18-1!).
(6) Vv. 20-24.
— 224
la broda . non solamente dar col pallone a cui eglino
trovavano, ma ancora con i stracci e panni tuffati nel-
l'acqua, nel fango, e in ogni altra bruttura... e mandar
sottosopra, e guastare tutte quelle robe delle botteghe,
cli’ei trovavano fuori e massimamente erbaggi e altre
robe degli ortolani. Onde ancor oggi dura quest’usanza
che, l’anno per carnevale, e massimamente il giorno
dopo desinare, perciocché il più delle volte il pallone
esce fuori intorno alle ventidue ore, le botteghe non
s’ aprono se non a sportello, e acciocché gli uomini
siano a tempo a serrarle del tutto , poco innanzi che 7
pallone esca fuori, vanno i trombetti sonandole trom-
be (1) per piazza, per mercato nuovo, per mercato
(0 Da questo passo del Varchi parrebbe che le trombe siano
venute in uso solo quando il giuoco cosi degenerò da esser necessario
il suono di esse per avvertire i cittadini dell’avviciriarsi del pallone,
come d’un pericolo. Ma da una Descrizione del giuoco de I calcio
di Bruscaccio ua Rovf.zzano tratta da un codice dei primi anni
del secolo XV (Il giuoco del calcio descritto da Uruscaccio da
Rovkzzano tratto dal Codice Mnrucelliano (’, 7 e pubblicato in-
sieme con due altre poesie del medesimo autore da L’ietko 1' an-
fani nel suo giornale II Borghi ni, anno I, 1 863, pagg. 52-57)
risulta che a quel tempo le trombe già sonavano per avvisare
i cittadini che il giuoco incominciava e invitarli ad assistervi.
L’autore infatti, uscito dal suo scrittoio e messosi in ria per
Spassarsi (vv. 6-7), sente le trombe del calcio e s’avvia anche lui
al giuoco. E quando questo sta per cominciare,
Duo trombe pel quartieri hanno a suonare
E dua pel prato a quattro, e paion cento;
Era grida e suon questo giuoco comincia
Che par che triemi tutta la provincia (vv. 77-80).
Il Bruscaccio descrive il giuoco notando atti, movimenti, lotte,
gesti di ben 30 giocatori: nella descrizione v’è quindi grande
monotonia e confusione e sciatteria. La poesia vale come testo
di lingua e come documento storico; come opera d'arte, niente.
Del resto, quanti poeti, preso a trattar del giuoco, troppo s’in-
dugiarono a darne le regole o a descriverne le vicende, tutti,
chi più chi meno, riuscirono noiosi. Noioso la sua parte ù il
Taruffi, dove con troppa abbondanza rileva i particolari del
— 225 —
vecchio e per tutti quei luoghi ore sono le botteghe
e i mercati, perciocché qui ri il pallone farebbe pii'
danno che altrove, se le trovassero aperte; e in tanto
crebbe questa barbara e sporca usanza, che non solo
questi travestiti imbrattavano qualunque egli trovavano
per le vie e per le piazze, ma cominciarono ancora a
persegui/are e imbrattare in fin per le chiese, e appresso
gli altari coloro che gli erano fuggiti per {scampare
da quel bestiai furore del pallone ( 1 ).
Quello che racconta il Varchi in più pagine, il Lasca
10 condensa in cinque versi, pur riuscendo in sì breve
giro di parole a rappresentarci il fatto in modo abba-
stanza compiuto e particolareggiato, sicché noi sentiamo
che ci faremmo di esso un’idea adeguata, anche se non
conoscessimo la descrizione del Varchi.
Con queste il Carnovale
Al calcio si fan zuffe e gran rumori :
Con queste s’esce fuori
quand’è piovuto a ’nfangar la gente,
che ciascun grida: serra, ecco il pallone.
Ci son dunque in questi pochi tratti e le zuffe e i cla-
mori, che destatali con il lor pallone quelle compagnie
festanti, e la brutta usanza d* imbrattar la gente, che
11 Varchi severamente biasima, e facilmente da questi
pochi versi s’immagina il danno che potevasi recare alle
botteghe ed ai mercatanti, e la fretta del chiudere, be-
nissimo espressa da quel: serra, ecco il pallone. Tal
quale è la descrizione del Varchi, e ci verrebbe voglia
di pensare che uno scrittore dall’altro deriva, se non
sapessimo che essi erano contemporanei e chissà quante
giuoco ; noioso il Lasca nei suoi capitoli in lode del Calcio e in
lode del Maglio, come vedremo: noiosissimo Giovanni Fresco-
Bai.di nella sua Palla al Calcio (cfr. V. Rossi, II Quattrocento,
pag. 261).
(1) Varchi, Storia Fiorentina, ed. cit-, voi. V, libro XIII,
pagg. 20-22.
15
— 226 —
volte avran visto ripetersi il fatto; la somiglianza quindi
dello loro descrizioni nasce dalla identità delle loro im-
pressioni.
Finalmente dopo due strofe (1), ambigue al solito, il
Lasca ha un’allusione politica:
Fur sempre mai con gloria e reverenza
Le palle celebrate ;
E non pure in Fiorenza
Ma in tutta Italia e nel mondo onorate;
Or più che mai beate
Splendono in terra con eterna luce
Sola mercè del vostro invitto duce (2).
Ma a proposito della politica nei canti carnascialeschi,
nota bene il Guerrini: Tuttavia, queste scorse del Cauto
carnascialesco nel dominio della politica o piuttosto
queste allusioni ai fatti del giorno , sono l’eccezione (3).
E così è difatti. In una poesia promossa e favorita dal
Principe (4) per addormentare gli animi dei cittadini e
distoglierne l’attenzione dalla pubblica cosa, la politica
non ci poteva aver molta parte; e quando ci fa la sua com-
parsa, o si vela come nel Canto dei diavoli (5) e nel
Canto degli spiriti beati (0) del Macchiavelli; o sta sulle
generali come nel Trionfo della compagnia del Bron-
cone nella renata di Papa Lione (7) e nel Trionfo della
Fama e della Gloria (8) di Jacopo Nardi, nel Trionfo della
Dea Minerva (9) di M. A. Dovizio da Bibbiena, nel Trionfo
delta Pace (10) di Lodovico di Lorenzo Martelli ; oppure
(1) Vv. 25-38.
(2) Vv. 39-45.
(3) Prelazione citata, pag. 16.
(4) Prelazione citata, pag. 12 in principio e pag. 14.
(5) Ed. cit., pag. 124, e specialmente, versi 4-7.
(6) Ib., pag. 126.
(7) lb., pag. 92.
(8) lb., pag. 93.
(9) lb., pag. 95.
(10) lb., pag. 96.
— 227 —
adula come in questa chiusa del Canto dei Pallai e in
genere in tutti i passi che alludono alla famiglia dei Me-
dici o alle palle che ne erano l’onorata insegna. Il Canto
delle palle, per esempio, si svolge tutto su di questo solo
concetto: Firenze già afflitta durante l’esilio del suo Si-
gnore, gioisce ora ch’ei è ritornato. Quindi
Puossi Fiorenza or dir beato regno
Semiosi colle palle ricongiunta,
Che stata è senza lor più che defunta (1).
In questo canto d'incerto iiutore la politica persiste più
a lungo che in qualsiasi altro: ma anche l’adulazione
è in esso più smaccata che in qualsiasi altro. Del
resto, salvo queste e altre poche digressioncelle, i canti
carnascialeschi si rassomigliano tutti come i ciottoli dello
stesso torrente: struttura su per giù eguale: due o tre
versi di presentazione; una serie di strofette di sei o
sette o otto endecasillabi misti a settenari in cui è de-
scritta la professione o l’occupazione qualsiasi nella sua
realtà ed essenza; questa poi e i suoi accessori e gli
strumenti del lavoro e quanto può alla professione ri-
ferirsi, costretti, con una persistenza degna di miglior
causa, al significato metaforico osceno; finalmente pa-
role, motti, frasi, perifrasi, motivi che si ripetono in tutti
i componimenti. Con questo sistematico processo tecnico,
nessuna originalità è più possibile: gli autori perdon la
loro fisonomia individuale, anche quelli che altrove di-
mostrano d’averne una propria.
11 Lasca, per esempio, è scrittore vario, fecondo e
originale: ma nel capitolo che ha In lode del Maglio (2)
non fa che ripetere quello che di esso già aveva detto
nel canto carnascialesco dei Giuocatori di palle a maglio,
salvo qualche chiaccberata di più, concessa dal genere
diverso del componimento. C'è di nuovo l’origine napo-
(1) Ih., pagg. 336-337, vv. 26-28.
(2) VftKZONE, Le rime, eco., pag. 538-511.
— 228 —
litana del giuoco (1); v’è descritto il sito in cui si devo
fare (2); stabilito il tempo che dev'essere asciutto (3) ;
la stagione che può esser qualsiasi (4) ; vi si dicon le
lodi del giuoco (5); i requisiti dei giocatori che sono anche
qui giovinezza, gagliardia, ecc. (6), e finisce questa come
l’altra poesia con un invito a giocare (7); non manca
naturalmente neppure qui, seliben vi sia forse in minor
misura, l’equivoco lubrico.
Così pure il capitolo del medesimo autore A M. 1 ico
Salvelti in lode della Palla al Calcio (8) rassomiglia,
nei concetti e nel frasario e in generale nel movimento,
al Canto del Calcio dell’Ottonaio, come apparirebbe da
un breve raffronto; e più forse gli rassomiglia nell'in-
sistente compiacersi delle oscenità. A dare tanta unifor-
mità a tutti questi componimenti, concorse certo l'identità
dell’argomento e l’indirizzar sempre il lor canto a una
classe particolare di cittadini e l’uso tradizionale di si-
mili canti, che certo già aveva fatto cristallizzare e frasi e
forme e concetti e finalità e metro, ecc., ecc. Ma io credo
che più d’ogni altra cosa influì a render queste poesie
così uniformi la ricerca assidua dell’equivoco o del doppio
senso, la quale, costringendo il poeta a sceglier solo
date cose e queste ancora a veder sotto un dato aspetto
e a dibattersi sempre tra i medesimi concetti e a lottar
con un sistematico modo di composizione, gli tarpa le
ali dell’inspirazione, gli fiacca le forze dell’ingegno e
(1) Cap. vv. 10-12 - canto vv. 4-7.
(2) Cap. vv. 22-27 - canto vv. 35-38.
(3) Cap. vv. 28-36 - canto vv. 32-34.
(4) Cap. vv. 37-39 - canto vv. 48.
(5) Cap. vv. 40-53 - canto v. 49.
(6) Cap. vv. 57-68 - canto vv. 11-17.
(7) Cap. vv. 89-95 - canto vv. 53-56.
(8) Vurzone. Raccolta citata, pag. 529-534. Questo capitolo
in lode del Calcio e quello pure In lode del Maglio compaiono
alla luce per la prima volta in questa raccolta del Verzone, tratti
dal codice del Museo Britannico di Sloane.
— 229 —
toglie quindi all'arte sua ogni fisonomia e originalità.
La qual ricerca forse nei primi tempi si faceva per ri-
coprir d’un velo decente le oscenità, che il pudore ancor
sensibile ilei poeta e del pubblico mal avrebbe sopportato;
ma a poco a poco essa divenne una maniera poetica con-
venzionale: e in tutti i canti carnascialeschi, e in generale
nei componimenti che lor si possono avvicinare, si ricorse
al senso traslato perchè era di moda far così, perchè
più che altro occorreva far dello spirito e destar le risa
colle arguzie e coi lazzi. E in verità, ai tempi del Lasca,
nè la coscienza dei poeti era così delicata nè gli animi
dei contemporanei cosi pudibondi che potessero arrossire
gli uni a dire e gli altri ad ascoltar le trivialità più impu-
diche. E tanto è vero questo che nel Lasca, nell’Ottonaio
e negli altri talora il velo metaforico è cosi sottile e
trasparente, che tanto varrebbe aver chiamato le cose
col loro nome proprio: il Lasca anzi, nel capitolo del
Calcio, abbandonato a un tratto ogni riserbo, spiattella
apertamente, senza sottintesi e senza un riguardo al
mondo, le sue oscenità; le quali, per colmo, sono di tal
natura, che, per solo averle dette e per il modo con cui
son dette (1), Dante non avrebbe esitato a mandar l’autore
a tener compagnia a ser Brunetto.
Se la metafora però contribuiva assai a dare uni-
formità alla tecnica e al frasario, è innegabile che, trat-
tata con arte discreta e con spirito assai arguto dal Lasca
e dagli altri, serviva purearendcrne più accette le poesie,
le quali, per esser troppo grassocce, a lungo andare
avrebbero potuto nauseare anche un pubblico in gazzarra
carnevalesca; precisamente come certe salse piccanti e
certe droghe aromatiche rendono i cibi, che son troppo
unti, più saporiti e digeribili.
11 canto carnascialesco ha sempre uno svolgimento
serrato, materiato tutto di concetti intrinseci all’argo-
(1) Canio del Calcio, vv. 139-147.
— 230 —
mento, frettoloso quasi d’arrivare alla line; non fa quindi
nft digressioni nè soste: il capitolo è invece loquace;
ama indugiarsi per via, per far due chiacchere o qualche
paragone o qualche osservazione e magari per scorrazzar
in campi vicini e anche in campi lontani, per esempio
nei tempi antichi. Nei due capitoli del Lasca, non son rare
le reminiscenze dantesche e gli accenni classici. Dante
è fatto ricordare, non solo da frasi spiccicate e solitarie,
come il faticoso calle (1) e Dal basso centro al bel retino
stellato (2), occ. eco., ma dal colorito generale dello stile,
dalla tornitura della strofa, dal ritmo del verso. 1 ricordi
classici si mostrano nella invocazione, anche se latta
alV amico Salvetti in cambio che a Febo (3) e nel vantar
che dinanzi alla bellezza del giuoco devon tacere e Greci
e Latini,
perchè non vide giammai Atene e Koma
spettacoli si belli e peregrini (4);
e ancora nelle lodi sperticate del giocatore che abbia le
qualità del poeta enumerate; il quale allora
morta maggior lode
Ch’Achilie in Grecia o in Francia Carlo Mano (5);
e in quelle anche maggiori di Bracalone per cui Doma
teste trionfa e gode e a cui dan più vanto le persone
Che non ebbe al suo tempo, Cincinnato
Cesar, Fabrizio, Orazio e Scipione (6).
Ma son poi fatte sul serio queste scorrerie nel campo
dell’erudizione classica? o non sono esse piuttosto can-
zonature fatte per mettere in ridicolo l’antichità e i suoi
ammiratori? Il carattere del poeta che fastidiva ogni
(1) In lode del Calcio, v. 8.
(2) I b . , v. 18.
(3) Ib„ v. 8.
(4) lb., vv. 52-54.
(5) In lode del Maglio, vv. 75-77.
(6) lb., vv. 80-82.
— 231 —
accademismo e ogni posa o corte piccole, ma comiche,
sfumature elio ci costringono ad abbozzare un sorriso
a fior di labbra, come il verso solenne Achille in Grecia
o in Fi-ancia Carlo Mano, il nome stesso di Bracalone c
quello stipar, in -poco più (l'un verso, tanti nomi illustri
il cui splendore pur deve impallidire dinanzi a quel del
famoso giocatore, ce lo lasciano, e in verità con ragione,
supporre. Ci sarebbe dunque qui una leggera punta di
satira contro l’esagerata ammirazione delle cose antiche:
ma così tenue, che non è nemmeno il caso di parlarne.
Satira vera non c'è nè in questi capitoli nè nei canti
carnascialeschi, nei quali ultimi poi sarebbe stata addi-
rittura fuor di proposito.
Altri scrittori invece, pure usando della metafora
come gli autori dei canti carnascialeschi e dei capitoli
esaminati, cioè traendo a senso traslato le usanze o gli
strumenti ola terminologia o altri particolari del giuoco,
ne ricavarono satire appropriate contro i costumi o contro
certi vizi in astratto o contro personaggi e fatti politici, ecc.
E primo ci si presenta Traiano Boccalini, il quale, dal
medesimo campo che i canti carnascialeschi, raccolse la
materia d’un suo gustosissimo ragguaglio, in cui fa una
satira indovinatissima del cortigiano (1). Il ragguaglio è
il XLIII della 1." Centuria e ha questa intestazione:
La nailon Fiorentina rappresenta il giuoco dei Cal-
cio , nel quale harendo ammesso un mollo forbito cor-
tigiano forestiere , egli ottiene il premio del Giuoco (2).
Il giuoco avviene naturalmente in Parnaso e l’autore,
secondo la sua finzione, c’ informa coni' esso s' è pas-
sato. La nobilissima natipn Fiorentina Giovedì passalo
(1) Traiano Boccauno. Ragguagli di Parnaso, 1.“ Centuria,
Venezia, P. Ferri, 1612: 2." Centuria, Venezia, Guerigli, 162-t.
(2) Ed. cit., pag. 105.
— 232 —
nel lindo Febeo rappresentò il suo diletterai Giuoco del
Calcio , al quale concorsero i Letterati lutti di Pai •
naso (1). Ingaggiatasi dunque la partita, il forbito cor-
ligian forestiere si pose il pallone sotto il braccio e
con le braccia, con le spalle , col capo e con tutta la per-
sona cos) francamente investiva ogn’uno che da qualsi-
voglia si faceva f<u • largo (2). Di modo che egli, avendo
superato ogni contrasto, senza che alcun glie lo impe-
disse, gettò il pallone oltre lo steccato e riportò il pre-
mio del giuoco (3). Di che i Fiorentini talmente rimasero
storditi che solennemente giurarono di non ammettere
più cortigiano alcuno al gioco loro, come quelli che
nel corso han Vali ai piedi e nel dar gli urloni e le
stomacate alle persone per farle stare indietro, hanno
i gomiti foderati di ferro, nel farsi far largo nelle
folle , nell’ aprirsi /estrude patenti nelle più folte calche
dei concorrenti, nell'arte di non mai più lasciarsi ca-
dere il pallone, che una volta sia capitato nelle numi
e nell' artifizio di saper far la cianchetta agli emuli loro
per far loro dare in terra crepacci cos) vergognosi
che mai più possono risorgere, più tosto erano diavoli
che uomini.
Nel descrivere le arti e gli atti del suo protagonista,
aveva il Boccalini dinanzi alla sua niente uno o più per-
sonaggi veri oppure copiava solo il tipo astratto del
cortigiano? La verità ed evidenza della descrizione e
quell’insistere più volte sopra l’origine forestiera, fareb-
bero supporre che gente straniera — poca o tanta, non
importa — venuta in Italia, sapesse cosi bene destreg-
giarsi nelle corti da dare colle lor maniere intriganti lo
scaccomatto agli altri cortigiani e farli scadere dall’animo
del principe. E avremmo qui una manifestazione di quello
(1) Ed. cit., png. 195.
(2) III., pagg. 196-197.
(3) Ib., pag. 198.
— 233 -
spirito antispagnuolo (•"animava tutte le opere del Boc-
calini. E se cosi fosse, anche questo ragguaglio dovette
avere pei contemporanei dell’autore, storditi e magari
irritati dai successi di codesti intrusi, un sapor più pie
caute e soddisfacente che non per noi. Ma non si può
dir nulla di positivo su di ciò; ad ogni modo, copiata
dal vero o immaginata, il Boccalini ha saputo percepire
ed esprimere la natura vera e immutabile del cortigiano
e ha creato un tipo che, proprio del suo tempo, è anche
proprio di tutti i tempi, perchè noi riconosciamo in esso
la fisonomia e i comportamenti essenziali del cortigiano
che fu e sarà sempre cosi, finché ve ne sarà uno sulla
faccia della terra. Il personaggio poi vive e s'agita di-
nanzi a noi : e noi lo vediamo arrabbattarsi e spingere
e dar gomitate e dar lo sgambetto per farsi far largo
e salire.
Per salire il cortigiano che voglia assicurarsi il suc-
cesso deve aver l’occhio a due cose: farsi innanzi lui
e tirar gli altri indietro: cattivarsi ranimo del principe
e toglier da esso i concorrenti che vi avesser preso posto.
11 cortigiano del Boccalini, che sa il fatto suo, fa una
cosa e l’altra: ha fati ai piedi per arrivare primo: ma
ha anche i gomiti foderati di ferro per dar gli urloni
e le stomacale alle persone per farle stare indietro ;
sa farsi largo nelle fotte e aprirsi le strade patenti
nelle più folte calche dei concorrenti, ma conosce pur
l’arte di non mai più lasciarsi cadere o ritorre il
pallone che una sol colta gli sia capitato nette mani ,
cioè di conservare il favore del suo signore una volta
acquistatolo e di più di far/lar vergognosi crepacci in
terra a chi desse sospetto di volerglielo ritorre. E si noti
con quanta sapienza d’arte è contemperato il linguaggio
proprio col figurato: chè le citate son tutte frasi che i
indicano altrettanti atti del giuoco e insieme arti del cor-
tigiano. Un buon giocatore di calcio deve infatti fare nel
senso proprio, precisamente come il cortigiano nel figu-
rato: deve concorrere lui e fare stare indietro gli altri, e
aprirsi la via tra la calca degli avversari e tenere il pal-
lone una volta preso e mandar gli altri per terra, quando
glie lo vorrebbero disputare. Gli altri per le terre, e a lui
la vittoria del giuoco o il favore del principe.
#
* #
Ogni scrittore, secondo la naturale inclinazione del pro-
prio ingegno e del proprio animo e secondo la disposizione
acquistata dall’esercizio, trae dalle cose osservate inspi-
razione e materia pel genero letterario, da lui di pre-
ferenza coltivato. Dal giuoco della palla il Cbiabrera
toglie motivo e contenuto per le sue liriche che vogliono
essere pindariche e il Leopardi per una sua che è di
queste più pindarica senza volerlo essere; S. Agostino
trae da esso occasione per fare una nuova rinuncia alle
gioie della vita e i canti carnascialeschi se ne servono
per affermare il diritto di tutti a -esse, magari nella
loro forma più libera e sciolta; l’Aleardi parte dal giuoco
per arrivare a brontolare contro Proudhon e le teorie
comuniste e il Belli ne fa uno strumento di critica acerba
al governo papale; il Marino lo accetta dall’Anguillara
come mezzo di svolgimento d’uno degli episodi che for-
mano il mosaico del suo Adone e il Bracciolini lo acco-
glie per ridere del medesimo episodio e di tutta la mi-
tologia: il l)e-Amicis, innamorato del giuoco, ne fa la
glorificazione in uno dei suoi più bei libri e Luigi Clasio,
abate e favolista, ci trova la materia d’una favola e ue ri-
cava una morale. La l'avola ha per titolo 11 Pallone ed
il Bracciale (1). Con essa dunque noi ci troviamo ancora
nella metafora; chè la favola è allegoria e il fondamento
dell’allegoria è la metafora. Ma non son più gli atti
singoli del giuoco o le norme e la terminologia di esso
che son trasportati al senso traslato; ma si gli strumenti
(1) Lorenzo Lignotti e Luigi Ci.asio, Favole, Milano, Sonzo-
gno, 1879, pag. 285, fav. XXXII.
— 235 —
stessi, il pallone e il bracciale, personificati, rappresen-
tano l’azione. Il pallone si lamenta col bracciale (Tesser
respinto da tutti: Se vado da una parte, dice, son ricac-
ciato con forti colpi all’altra, dove trovo sorte eguale (1),
finché, sgonfiato, sono abbandonato con trascuranza in
terra (2). E domanda sospirando al bracciale: Perchè tan-
t’odio contro di me, che non faccio male a nessuno?(3). Gli
risponde l’interrogato: Perchè sei pieno di cento (4). È
questa l’idea fondamentale del piccolo componimento; il
pallone pieno di vento suggerisce all’autore l’idea degli
uomini fatui, che gonfiano il cervello di rana albagìa (5),
i quali subito gli appaiono ben meritevoli d’osser bia-
simati e ammoniti con satira urbana; l’idea materiale
del pallone tira con sé l’idea materiale del bracciale, che
entra come personaggio necessario nello sviluppo del-
l'azione, e la favola è fatta.
Però, se noi esaminiamo le altre favole del Clasio,
troviamo che l’idea propria e la traslata in generale
hanno tra loro stretta analogia e numerosi nessi di re-
lazione: onde dalla natura intrinseca del fatto e dalla
omogeneità dei caratteri finti e reali la verità enunciata
a morale ammaestramento, sia che premessa attenda da
quello o da quelli la sua dimostrazione sia che ne debba
derivare come logica conseguenza, scaturisce fuori spon-
tanea, limpida, ricca di molta virtù persuasiva.
Per citar qualche esempio, che il beneficio è reso vile
se da esso si vuol trar mercede, è ben dimostrato dal
cespuglio che dal difeso capretto strappa molti bei fiocchi
dal lanoso vello , prima di lasciarlo uscir fuori del troppo
avviluppato ostello (6): il fumo, che si vanta di esser figlio
(1) XXXII, vv. 5-8.
(2) 11)., vv. 13-16.
(3) XXXII, vv. 17-22.
(4) Ib. , vv. 30.
(5) Ib., v. 34.
(6) Ed. cit., fav. I, pag. 245.
del fuoco e nipote del sole ed ò mortificato dalla nuvo-
letta, è un esempio appropriato per chi si gloria di gran-
d’avi e lor non somiglia (1); l'uccello, che ragiona che Pah-
fiondante panico sparso d’inverno pel campo può rac-
chiudere qualche insidia, ammonisce opportunamente
di non fidarci dei patti troppo grassi (2); il gelsomino,
il quale è abbandonato per aver celato sotto una vipera
e si lamenta del vuoto fatto intorno a sè, istruisce assai
bene dei danni delle cattive compagnie (il); la testardag-
gine del noce, che non vuol concedere i suoi frutti, è di
sano e chiaro ammonimento (4). E così via di tante e
tante, di quasi tutte le favole del Clasio. Ma nella favola
Il Pallone e il Bracciale il pallone c i vanitosi, fuor di
essere entrambi pieni di vento, non hanno altra somi-
glianza: anzi hanno quasi contraria natura; chè quello
che è difetto dell’uno è pregio dell’altro; e se i vanitosi
si vorrebbero più sgonfi e che rimanessero più terra
terra, il pallone allora va, quando è ben gonfiato e vola
volentieri per aria. E se la gente l’uno e gli altri da sò re-
spinge, questo fa con sentimenti, in circostanze e per fini
ben diversi. Onde l’autore stesso, quando fu sul punto
di far l’applicazione della sua favola, s’avvide che pallone
e vanitosi non eran precisamente la stessa cosa; anzi che
l'uno ò stimabile appunto per quella ragione per la quale
gli altri sono biasimevoli e sentì il bisogno di rettificare:
11 detto del bracciale
Per lo pallon non vale:
Ma se taluno v’è
Che di vana albagia gonfi il cervello,
A lui ben quadra quello
Che fu detto del pallone (5).
(1) lb., fav. II, pag. 246.
(2) Ib., fav. XIV, pag. 261.
(3) Ib., fav. XXXIII, pag. 286.
(4) Ib., fav. XL1II, pag. 301.
(5) XXXII, vv. 31-38.
— 237 —
Una ritrattazione, come si vede, in piena regola (1). E
(•piando è cosi, quando cioè dalla favola l’autore stesso
confessa di non poter conchiudere direttamente, come
vorrebbe, ogni efficacia dimostrativa è perduta.
La metafora regna ancora nel sonetto di G. G. Belli
Er giucator de Pallone (2); e si divide pacificamente il
suo regno con la satira : anzi Luna e l’altra si dan la
mano con grande concordia e dalla loro alleanza sca-
turisce la massima potenza. Il sonetto infatti, vuoi per
l’arte sapiente con cui è adoperata la metafora vuoi per
la satira pungente e spiritosa, appare, come tanti altri
del Belli, di squisita ed efficace fattura. Esso appartiene
alla serie, assai numerosa, dei sonetti in opposizione al
governo pontificio : anzi mi pare che' l’opposizione in esso
sia particolarmente accentuata: e sebbene l’autore stesso
dichiari nella sua Introduzione che egli ha solo deli-
berato di lasciare un monumento di quello che oggi t>
la glebe di Poma (3) e che egli intende presentare nelle
sue carte i popolari discorsi svolti nella sua poesia (4) e
che il popolo è questo e questo egli ricopia non per pro-
porre un modello, mas) per dare una immagine fedele
(1) Del resto la narrazione già era cominciata a sbiadire,
quando il bracciale risponde al pallone:
... se dir degg’io,
Amico, il pensiero mio,
Forse ognun ti discaccia...
Ma che forsel F.ra per quello o non era? Si sente che l’autore
a questo punto già dubitava di far torto al pallone. E allora?
(2j / sonetti romaneschi di G. G. Bkl.li, pubblicati dal nipote
Giacomo a cura di L. Morandi, Città di Castello, S. Lapi editore,
1889, v. II, pag. 400-402.
(3) Ed. cit., v. I, pag. 289.
(4) Ib., pagg. 290-291.
— 238 —
di cosa già esistente e, pia, abbandonata senza migliorò-
mento (1), sebbene cioè si proponga ex professo di voler
unicamente riprodurre t'anima, della plebe di Roma, quale
essa si manifestava ne’ discorsi colti a volo per le vie
e nei pubblici ritrovi, tuttavia io non credo che si possa
scindere la persona del poeta dalla sua opera letteraria
e ebe questa sia potuta essere cosi oggettiva da non
rispecchiare affatto le idee e le convinzioni soggettive
del suo autore : basta a persuadercene la preferenza data
a’ discorsi die sonavano acerba critica al governo co-
stituito. E non si può negare clic scegliere questi e
divulgarli coi suoi sonetti, a malgrado dell’ombrosa dif-
fidenza del governo e sotto l’occhiuta vigilanza della cen-
sura, è un bell’atto di coraggio civile. Se poi si pensa
che il dimostrarsi ostile al governo del papa, il più illi-
berale forse di quel tempo e il più nemico dell Italia,
era anche un bell’atto di vero patriottismo, non si può
fare a meno di dare ragione al Morandi, il quale con
convincenti parole scagiona il Belli dalla taccia di essersi
disinteressato della patria (2).
Ma ecco il sonetto, anzi la sonettessa :
Ar Bervede’ cc’è ppoco. F.r Papa vola,
Clie ppe’ vvolate manco Ggentiloni !
Ma in partita è ttareffe, e ffa cciriola,
Chè li falli so’ assai più de li bboni.
Che sserve che nuoi poveri cojjoni
le seggnammo le cacce 1 A cquella scola
De maiinà sempre a sguincio li palloni,
Si ll’impatti, è pper Dio grasso che ccola :
Ggiucchi a ppassa-e-rripassa, o ccòr cordino,
Dà lui solo l’inviti e le risposte,
E wo’ stà ssempre lui sur trappolino
(1) Ib., pàg. 291.
(2) Cfr., nella citata edizione, la Prefazione di L. Morandi,
pag. 242 e segg.
— 239 —
Cuann’è all’onore poi, là ccerte poste,
Scerte finte, ch’a èss’io Tuzzoloncino,
le darebbe er bracciale in de le coste.
Xe le partite toste
0 nne le mossce s’ingegna, er bon prete,
Cor vadi e vvienghi e cquale la volete.
Tira sempre a la rete
Cuann’è in battuta e nriun là mmai un arzo
0 rribatti de primo o dde risbarzo.
Ar cliiamà, cchiama làrzo ;
E ssi er quinisci pènne da la tua,
Procura de tornà sempre a le dua.
Ha una regola sua
Ogni tanto de dà flora una messa,
Pe’ flatte aridoppià la tu’ scommessa
Ecco' sta jjoja lessa,
Qualunque cosa er cacciarolo canti,
Sce gonfia li palloni a ttutti cuanti.
Per l’intelligenza dei termini dialettali mando al glos-
sario del Morandi e alle chiose del medesimo al sonetto
trascritto. Io mi limito a qualche interpretazione neces-
saria per capire la metafora e l’allusione.
Il sonetto è tutta una requisitoria contro il Governo
papale: non contro fatti singoli o avvenimenti politici
speciali, ma contro il sistema generale di esso. Il concetto
fondamentale è: Il Papa ci dà sempre buone parole : ma
in realtà ci gabba tutti quanti nei modi più diversi. E
questi modi diversi di ingannare il popolo, sono espressi
come si vede, per mezzo delle operazioni proprie del giuoco
e con la terminologia tecnica che le indica.
Comincia a trarre un'immagine dal luogo stesso dove
a Roma si giocava al pallone, che era il Belvedere sotto
il Museo Vaticano, per dire che i tristi effetti del governo
papale sono evidenti: Ar Bei'vedè cc’d ppoco (1). Poi: Er
(i) V. 1-
— 240 —
Papa vola, cioè fa larghe promesse, come son soliti farle
quelli che non pensano ili mantenerle: ma poi è falso e
se l’intende cogli avversari per ingannarci meglio e le
sue promesse (falli) son sempre più che i fatti (boni) (1).
Noi stiamo bensì all’erta (segnamo le cacce) e vigiliamo:
ma che giova? con le furberie cho usa è tanto se non
ci succede di peggio (2), chè in tutti gli atti del suo
governo, in tutte le relazioni ch’egli ha con noi, egli
ha il coltello pel manico e vuol sempre cho la sua
vaila (E vvò sta ssempre lui sur trappolino) (3). Ma al
vedersi cosi turlupinato, il poeta perde finalmente la
pazienza; in modo che a un tratto esce a dire: se si
fosse veramente tra giocatori, vi sarebbe chi le darebbe
er bracciale in de le coste (4). La coda del sonetto con-
tinua renumerazione dei torti del governo con lo stesso
gergo pallonesco, quasi ancor più marcato. Sanguinosa
perchè verissima e per spietata crudezza d'espressione, è
l’allusione a uno dei metodi del governo del Papa: il
celebrar di quando in quando qualche grande solennità
religiosa, dalla quale il popolino usciva colla testa piena
e intontita e non pensava più ai disagi e agli altri mali:
Ila una regola tutta sua
Oggni tanto de da ITora una messa,
Pe’ ITatte arridoppià la tua scommessa (5);
dove quella messa a doppio senso parte sibilando coinè
una saetta a colpire giusto e profondo. E che il poeta
la scocchi ben diritto mirando, e con voglia di ferire,
appare dai versi che seguono:
E eco sta ,i,ioja fessa
Qualunqne cosa er cacciarolo canti,
Sce gonfia li palloni a ttutti cuanti (6).
(1) Vv. 2-4.
(2) Vv. 5-8.
(3) Vv. 9-11.
(4) Vv. 12-14.
(5) Vv. 21-26.
(6) Vv. 27-29.
— 241 -
Questa della messa, è forse l’unica allusione a un
fatto concreto che ci sia in tutto il sonetto. In questo
anzi il Belli si allontana dal Boccalini, perchè, mentre
la metafora di quest’ultimo accenna sempre a fatti e
atti concreti che nel senso proprio sono del giocatore,
come si disse, e nel traslato del cortigiano, quella invece
del poeta romano sta sempre sulle generali, più diretta
a colpire un dato sistema di governo che le singole
manifestazioni di esso.
Pur cosi com’è, si sente nel sonetto l'ira mal repressa
d’una condizione di cose, a sopportar la quale nessuna
.pazienza è più valevole. E l’ultimo verso ne fa fede.
* *
Nato su quel medesimo suolo di Parione (1), sul quale,
sotto l’impulso della gran passione del popolo di Firenze
per il giuoco della palla, sbocciò o dal quale fu altrove
trapiantata tutta quanta la letteratura satirica e giocosa
ch'ebbe dal pallone sua origine, trova qui il suo posto
(1) Parione era la strada, dove in Firenze si giocava alla
pillotta. Di essa la nota del Fortirklli dà parecchie etimologie: dal
marmo Fario, perchè in essa un tempo v’eran le botteghe degli
scalpellini : ripae regio = ripe rione, poiché tale strada sbocca
sul passaggio di lung’Arno ; pars regionis — parte ili rione (Nota
alla strofa 47 del Vili canto, pag. 417). V’è una poesia di Giulio
Dati intitolata appunto II lamento eli Parione, ma io non la potei
vedere.
Del resto, sia riguardo a Parione, sia riguardo a Pillotta
vedi le Usanze Fiorentine (lei sec. XVII del K in ceri ni che sopra
abbiamo analizzato. Nelle citate note del Fortirelli la Pillotta è
definita: Una specie di giuoco che si fa con una palla piccola, pure
ripiena di cento, e se le dii con un mestolo di legno, i Nota alla
strofa 34 del Cantare VI, pag. 203) La Pillotta derivò a noi dalla
Pelota, giuoco spagnuolo assai usato ancora nella l.inguadoca e
nei Pirenei. Ne ha una bellissima e particolareggiata descrizione
Pierre Loti in Kamuntcho (Dixième édition, Paris, Calmami Lévy,
éditeur, 1807. pagg. 54-65).
tu
naturale uno dei più bizzarri episodi di quel bizzarro
poema che è II Malmantile riacquistato ( 1). Come ap-
partenente a un poema eroicomico che fa la satira dei
poemi seri, l'episodio è ancb'esso satirico; ma Tarma
della sua satira non è più la metafora, come negli scrittori
testé esaminati, ma bensì la parodia e la caricatura.
Esso invero non trae direttamente argomento dal giuoco;
ma questo, naturalmente introdottovi dalla qualità stessa
del protagonista, diventa il mezzo essenziale dello svol-
gimento della narrazione e quindi uno degli elementi
principali di essa. I, 'episodio è questo:
Un tale cognominato il Tura,
Cile in Parimi gonfiava le pillotto (2),
Era in bellezza un mostro di natura
Sicché tutte le donne n’eran cotte (3).
Non cli’ei ne desse loro occasione,
Come qualche Narciso inzibettato (4),
Anzi è un di quei che al mondo sta a pigione,
A bioscio nel vestire e sciamannato,
Ch’addosso i panni ognor tutti a minestra
Tirati gli parean dalla finestra (5),
ovverosia trascurato di sé e degli altri, sporchi e disor-
dinati i panni e colla zazzera avviluppata e lorda. Ma
le donne era» capone (6); e solo quando furon chiarite
di quel suo cuor di smalto (7), fecero come la volpe coll'uva
(1) Il Malmantile riacquistato di Perlone Zipoli con note
di vari, scelte da L. Fortirelli, Milano, Società Tipografica di
classici Italiani, 1867.
(2) Cantare, Vili, strofa 47, vv. 3-4.
(3) lb., strofa 47, vv. 56. Si noti il mostro di natura, frase bella
per quella ambiguità, che vedemmo lodata da Quintilliano.
(4) Ib., strofa 48, vv. 1-2.
(5) Ib., strofa 48, vv. 5-8.
(6) Ib., strofa 49, v. 1.
(7) Ib., strofa 49, v. 2.
— 243 —
e lo lasciarono in pace (1). Ma tra le altre una ve n’era
stata, detta Martinazza, una strega venuta in aiuto di
quei di Malmantile (2), la quale, tra i molti altri suoi
amori, anche del Tura s’era incapricciata, e, vistasi da
lui trascurata, ne trasse le sue vendette (3). Fattigli tosare
quei capelli,
ch’un tempo aveva chiamati
Del suo lascio mortai funi e ritorte
Le bionde chiome, oh Dio! quei crini amati... (4),
fece con essi
una potentissima magia,
Che registrata in Dite a protocollo
In un lupo rapace trasformollo (5).
Cosi il Tura, diventato lupo e cacciatosi nelle foreste,
devastava le regioni vicine. A liberarlo da tal flagello
e. rotto l’incantesimo di Martinazza, trarre il poveraccio
dal corpo del lupo e rimandarlo alle sue pillotto e agli
schizzatoi, si fa innanzi Paride Gannii, per incarico di
certe Naiadi del canale di un mulino. Era Paride un
corpulento capitano elio, al seguito di Baldone, marciava
contro Malmantile : ma colto da fiero mal di pancia, s’era
ricoverato in un casolare di campagna (6). Guaritone e
ubbriacatosi del vino dei contadini, aveva sentito ri-
nascere in sè gli spiriti guerreschi e, avviatosi per
raggiungere il campo, era rotolato per le terre e s’era
imbrattato tutto di mota. Avvicinatosi quindi a un canale
per ripulirsi, v’era caduto dentro. E vi sarebbe perito,
se le Naiadi del fiume non lo soccorrevano (7). Salvatolo,
(1) lb., strofa 49.
(2) Cantare, III, strofa 68 e segg.
(3) Cantare, Vili, strofa 50.
(4) lb., strofa 51, vv. 1-4. E si noti la parodia dello stile dei
Petrarchisti.
(5) lb., strofa 52, vv. 6-8.
(6) Cantare, III, strofe 10-25.
(7) Cantare, VII, strofe 6-26.
— 244 —
esse lo fanno asciugare, lo rivestono, lo armano, lo fatano
per renderlo invulnerabile, gli dànno un certo libric-
ciuolo che lo istruisca nell’impresa e lo mandano a rom-
pere l’incantesimo e a liberar il Tura. Ed eccolo dunque
in cammino (1). Gira e rigira trova finalmente colla scorta
del libro la selva, dove il Tura-lupo è rimpiattato (2).
Legge allora il libro e
Cosi leggendo, sente darsi norma:
Di quanto debba fare, in questa forma :
Vicino al boschereccio scannatoio,
Mentre fuoco di stipa vi riluca
l’allon grosso, bracciali, schizzatoio
Co’ giocatori a palleggiar conduca :
Al rimbombar del suo diletto cuoio
Tosto vedrà, che il gocciolone sbuca,
Quei ricchi arnesi vago ili mirare
Che già in Firenze lo facean gonfiare (3).
Paride eseguisce gli ordini a puntino: il lupo infatti
sbuca dal bosco; ma trattenuto dal fuoco, dà tempo al
Garani di metter tutti gli arnesi da giuoco, bracciali, palle,
schizzatoio, in un sacco c d’avviarsi alla città; lo segue
la bestia annusando (4). Giunti alla città, Paride fa serrar
le porte e ordina ai birri di prender il lupo. Ma come
nessun di loro gli dà retta (5), tolti i due guanti a un
caporale, sopra il dorso della bestia a guisa di bisacce
li depone (0); ma por quanto putiscano di caporale, il
fragor ancora non è tale da romper l'incantesimo : poiché
(1) Cantare, Vili, strofe 6-59.
(2) Cantare, X, strofe 33-39.
(3) Cantare, X, strofa 39, vv. 7-8 e strofa 40. Notisi il doppio
senso delle frasi lo faceca n gonfiare che si può intendere : tace-
ri an ch’ei gonfiasse i palloni e lo lacerano insuperbire. Felice motto
anche questo da mettersi con il mostro di natura.
(4) Ih., strofe 41-44.
(5) lb., strofa 46.
(6) lb., strofa 47, vv. 1-4.
— 245 -
Dice Turpino (e par cli’ei dica bene)
Ch’essendo questa si crudel malia
Non erano a disfarla mai bastanti
Gli odor birreschi semplici dei guanti (1).
1 quali però riescono a far sì che
La bestia fece subito due facce,
Oh 1 2 3 4 5 6 una di lupo e l’altra d'uomo sembra (2),
rimanendo tuttavia le due bestie, il Tura e il lupo, an-
cora uniti pel groppone. Paride allora fa venir la sega
che li divida ; e, cacciato il diavolo che aveva corpo nel
lupo con il gettargli contro una manata di terra e di
pietre, libera il Tura e poi va all’ osteria (3). E al
popolo che riconoscente lo vorrebbe regalare, Paride
null’altro chiede, se non che alla regione dal lupo infe-
stata le si dia il nome di Montelupo (4). Cosi l’episodio
diventa una piccola parodia dei racconti epici narranti
di città c’han tratto origine da fatti leggendari. Ma di
che cosa non è spiritosa parodia e satira amena il breve
episodio di Paride Gannii e del Tura ? C’è la parodia
della mitologia con quelle Naiadi del fiume d’un mulino,
che il poeta non sa se sian sirene o lasche o cazzuole,
ma ce^rto non son bestie da dozzina (5), e col fatare che
le Naiadi fanno del corpo di Paride Gannii, da cima a
fondo, tranne la basetta sinistra (6). E c’ò anche quella
della mitologia contemporanea cioè delle fatazioni, degli
incantesimi, delle fattuccherie, delle stregonerie e altre
simili divolerie, c dei pregiudizi che a proposito di essi
correvano tra il popolino credenzone, e della letteratura
che traeva da essi il suo meraviglioso, nel carattere di
(1) Ib-, strofa 48, vv. 5 8.
(2) Ib., strofa 47, vv. 6-7.
(3) Contare, X, strofe 32-56.
(4) Cantare, XII, strofe 5-6.
(5) Cantare, VII, strofe 22-24.
(6) Cantare, VII, strofa 45.
— 246 —
Martinazza, che viene in aiuto di Malmantile coi suoi
scongiuri e coi suoi esorcismi (1) e con la sua calata
all’infèrno (2), e, nel nostro episodio particolare, in quella
stregoneria gettata addosso al povero Tura e così co-
micamente sciolta con quella originalissima trovata del
f rag or birresco, del taglio con la sega, della manciata
di terra che fuga il diavolo.
La satira poi contro i costumi o ridicoli o corrotti
non risparmia nessuna classe di persone. Colpisce la
medicina e i medici empirici e ignoranti il ritratto di
Ser Lion Magin da Ravignano, che rifiuta di visitare
l’ammalato perchè intento a scrivere una commedia e
la visita che in sua vece fa al Garani il medicastro suo
sostituto (3); sferza i soldati ubbriaconi e predatori il
racconto delle gesta di Paride guarito del suo mal di
ventre (4); deride le accademie coi loro gabinetti e musei
e gallerie e colle loro biblioteche male scelte la descri-
zione del palazzo incantato in cui le Naiadi introducono
il Garani salvato dal canale del molino (5); s’appunta
contro la sbirraglia sporca, pusillanime, fannullona la
chiusa dell'episodio dove il Tura è liberato dalla sua
stregoneria (6) ; dimostra l’inefficacia delle scuole d'allora
l’ignoranza di Paride Garani. semi-analfabeta sebbene
scolaro per parecchi anni di Prete Pero (7). Anzi, con
(1) Cantare, V, strofe 6-26.
(2) Cantare, VI, strofe 8189.
(3) Cantare, III, strofe 12-24.
(4) Cantare, VII, strofe 13-21.
(5) Cantare, VITI, strofe 21-37. Il poeta anzi non risparmia
nemmen se stesso, quando immagina che nella biblioteca del
palazzo incantato liguri anche
... un certo Malmantil, che se e’ va fuora
Ecco subito bell’e messe in rotta
Ce Dee col Bombi che l’ha chiesto e vuole
Fareall’acciughe tante camiciuole (Ib., strofa 27, vv. 5-8).
(6) X, strofe 45-47.
(7) Vili, strofe 57-58.
— 247 —
l’insegnamento e i maestri del suo tempo ce l’ha in
particolar modo il Lippi, ingegno ribelle e originale,
cresciuto l'uor d’ogni scuola e disciplina, insofferente a
ragione dei metodi allora in uso di far ripetere a memoria
salmi e salmi, appena dopo imparato l’abbici (1); irritato
giustamente contro i mezzi disciplinari, a base di nerbate,
adoperati per infondere negli animi giovanili l’amor dello
studio. Questi mezzi egli ha nel suo pensier così fissi,
che ne trae anche spesso delle similitudini. Martinazza
ingelosita è
Or bigia, or gialla, or rossa, or paonazza
Or più rossa del cui d’uno scolare,
Dopo ch’egli ha toccata una spogliazza (2),
cioè ebbe calate le brache. E la stessa Martinazza osserva
che
In oggi questa par comune usanza :
Stanno i fanciulli un po’ con osservanza
Mentre il maestro o il padre gli bastona (3).
E il povero Baldone, cattivo medico intorno a Berti-
n ella, non resta peggio alle smanie di lei dello scolaro
che si guasta belando la bocca
Quando il maestro col baslon lo chiocca (4).
Questo scagliarsi con tanta insistenza contro maestri
e scuole e insegnamento, questo condannare come inutile
e barbaro tutto il sistema didattico e pedagogico in vigore
al suo tempo, potrebbe indurre qualcuno a credere che il
Lippi seppe intuire e si propose di caldeggiare una riforma
dell’istruzione fondata su principi più larghi, più razionali,
più efficaci, più umani. Ma non è così. Agli spiriti della
(1) Vili, strofa 57, v. 2.
(2) V, strofa 51, vv. 4-6.
(3) VI, strofa 66, vv. 1-3-4,
(4) IX, strofa 61 vv. 7-8.
— 248 —
natura ili quello del Lippi è riserbata una parte nega-
tiva: essi cercano di demolire senza darsi pensiero del
riedificare; sono quasi medici a metà, che san Care
la diagnosi esatta e scoprire e rivelare il male, ma non
si curano d’indicarne il rimedio. Sopra il . male anzi, messo
bene a nudo, magari ci fan su una buona risata, come
realmente mostra di fare il Lippi sopra maestri e allievi,
da quello spirito bizzarro ch’egli è.
Del resto, a giusta regola, non si può neppure at-
tribuire a lui l’onore di aver scoperto, in tempi bassi e
tenebrosi, la piaga delle pessime scuole e dei pessimi
maestri. Egli, nel colpir questi o quelle, forse ubbidì,
più che ad altro, a una moda letteraria, la quale du-
rava da lunghissimo tempo. Per tutto il ’òOO e per gran
parte del ’GOO ancora, le satire contro i ‘pedanti e contro
la vanità della loro scienza e contro il loro tristissimo
insegnamento furono frequentissime (1). E la loro ragion
di essere non va ricercata tanto nel bisogno che sen-
tissero gli uomini del XVI e XVII secolo di altra scienza
e di altra istruzione, quanto nel risentimento che le
povere vittime di metodi barbari e balordi portavano con
sò nella vita contro coloro che quei metodi applicavano
e nel ridicolo che soleva accompagnar quasi sempre la
persona allampanata, contrafatta e sucida del pedante (2),
le sue abitudini singolari ed eccentriche, la sua dottrina
arida, presuntuosa e fastidiosa (3).
L'episodio generale del Tura cangiato in lupo ò poi
una parodia di quanti episodi nei poemi eroici e caval-
lereschi narrano di Circi, di Alcine, di Armide e simili
donne solite a mutare i loro amanti in bestie o in altro.
(1) CTr. lo studio del Graf / Pedanti nel Attraverso il Cin-
rjueeenio, Torino, Loescher, 1888, pag. 172 e segg. e più spe-
cialmente pagg. 211-213.
(2) Graf, loc. cit., pagg. 172-173.
(3) lb., pag. 175 e segg. e pag. 189 e segg.
— 249 —
E da certe circostanze ilei poema mi par che si possa
anche ricercare come sia nata nella mente dell’autore
l'idea di farne protagonista il buon diavolo del Tura. 11
Lippi ci rappresenta se stesso nel suo poema, sotto il
personaggio di Pedone, come un incorreggibile gioca-
tore (1), e se non ci dice che giocava alla palla, si sa
che ogni giocatore ha passione per ogni sorta di giuoco,
perchè tutti i giuochi hanno comuni due elementi della
loro attrattiva: l’allettamento del contrasto tra le parti
e la seduzione di quel non so che di misterioso e di
maraviglioso che hanno in sè le sorprese della sorte.
Pedone o il Lippi, che avrebbe giocato sui pettini da
lino, è presumibile che bazzicasse spesso in Pacione, dove
conobbe il Tura (2), che, così bello da parere un mostro
ili natura e a Moscio nel vestire e sciamannato e col suo
cuor di smalto trascuratissimo del bel sesso, gli parve
la parodia vivente di (pici Narcisi inzibettati che fanno
girare, o credono, la testa a tutte le donne: degnissimo
quindi di diventar l’eroe del comico episodio. Il mestici 1 2
suo poi di gonfiatoi' di pillotto trascinò con sè l’idea della
partita e degli istrumenti del giuoco come mezzi di ade-
scamento e così ancora una volta il piacevole passatempo
divenne elemento d’arte d’una piacevole e lepida nar-
razione.
*
• *
Nel cantar scherzevolmente i pregi sorprendenti di
quella terra odorosa delle Americhe, colla quale si fa-
ce vali certi vasi avidamente ricercati nel '600, si proponeva
Lorenzo Bellini di satireggiare la esagerata frenesia di
(1) IV, strofe 11-12.
(2) Ognuno sa die sotto i nomi anagrammati e sotto i ca-
ratteri esagerati o contraffatti del poema del Lippi si nascondono
personaggi reali. Così, p. es., Paride Garani è Andrea Parigi,
capitano rinomato.
— 250 —
possederli che occupava gli animi dei contemporanei con
quella sua cicalata, che dal nome Bucchero dato a quei
vasi egli chiamò La Bucchereide (1)? Per quanto l'indole
del poemetto permetta di crederlo, non lo si può dir con
certezza, perchè anzitutto l’opera non è fluita (2), e non
si sa qual ne sarebbe stata la conclusione; poi se satira
vi doveva essere nell’intenzione dell’autore, essa v'è cosi
blanda, cftsì dissimulata, così avviluppata negli intrighi
delle chiacchere senza fini', che non appare visibile.
Poiché il Bellini non è altro se non un chiaccherone che
si fa ascoltar volentieri : egli possiede in sommo grado
l’arte del parlar bene, con brio e vivacità di forma, in
una lingua ricca, pura, tutta viva, schiettamente to-
scana: e conoscendo questo suo segreto, egli ne usa e
ne abusa; una volta preso l’aire non la finisce più: si
intrattiene di mille nonnulla e di mille frivolezze: s'in-
terna nei meandri di infinite digressioni, procedendo
senza norma o ragione, senza proposito nè mèta, solo
guidato dalla inesauribile sua loquacità. E quando questa
lo ha trascinato troppo lontano dal suo principio, sor-
preso egli stesso d’essorsi tanto dilungato, s’arresta allora
e, come fanno tutti i veri e propri chiaecheroni, si do-
manda: Oh! che volerò dire ? e ritorna indietro a ri-
prendersi da capo.
Mentre così chiaccherando tesseva l'elogio delle tante
virtù della terra, sovvenutogli che i Giganti eran stati
dagli antichi chiamati appunto figli della terra, eccolo
a parlar di loro: e il periodo che ne esce, così lungo che,
a leggerlo d'un fiato, c’è da perderne i polmoni, è così
(1) La Bucchereide del Dottor Lorenzo Bellini, in Firenze
MDCCXXIX, nella stamperia di Sua Altezza Beale, appresso
Gio. Gaetano Tortini e Santi Franchi, con licenza dei superiori.
(2) Il poemetto fu pubblicato incompiuto 25 anni dopo la
morte dell'autore. Contiene l.° Dna cicalata in [irosa di servir
di prefazione (pag. 1-20); 2. u Un primo proemio al conte Lorenzo
Magalotti (pag. 21-69) ; 3." Un secondo proemio al cav. G.B. D’Am-
bra (pag. 71-260).
— 251 —
architettato: voleva dire che gli antichi, visti i giganti,
gli vollero nominare; ma sopravvenuta l'idea nuova dei
giganti, il loquace poeta ne resta adescato e si pone a
parlar di essi per non meno di 60 versi, endecasillabi,
settenari, quinari, per finalmente ritornare a dire che
Gli chiamaron cosi
Con queste tre parole scusse scusse :
« Figliuoli della terra » (1).
Parlando dunque di
Quegli sgangherati bacchettoni
Ch’or si chiaman Giganti
Miglia e miglia lungacci (2),
per dare un esempio delle loro prodezze, dice che eran
«l’una forza
Che volendo giocare al pallone
Per palla prendevan Montefiascone
E non col bracciale, ma col nudo braccio,
Stando un sul Caucaso e l’altro in sul Testaccio,
Il facevano andar di volata si in alto
Ch’ei sorpassava la luna e le sfere
E tal risplendente laceasi vedere
Ch’ei di qui in terra pareva un pianeta,
Ma in verità poi gli era la cometa (3).
Qui certo
Questi cosacci
De’ Gigantacci (4)
sono posti in caricatura : ma non è da pensare che l’autore
abbia voluto cosi parodiarli per far la satira d’un mito
e quindi della mitologia in generale e più in generale
ancora di tutto un sistema complesso di principi etici
(1) Op. cit., pagg. 228-229.
(2) Op. cit., pag. 228.
(3) Op. cit., pag. 229.
(4) Op. cit., pag. 229.
— 252 —
ed estetici che la reazione condannava e sopratutto del-
l'uso delle favole antiche come amminicoli letterari, come
avevan fatto il Bracciolini e il Lippi stesso e fors’anche
il Fagiuoli, negli scritti sopra citati. Ohibò! L’autore sa
che un tempo i giganti accatastarono monti a monti, come
fosser ciottoli: il giuoco del pallone gli è cosi familiare alla
mente per vederlo tutti i giorni per le vie della sua città na-
tiva dove pur vive e fa i suoi versi : perchè non dovrebbe
farli fare la più originale e ridicola partita ? La parodia
è dunque lì perchè se ne rida : altro non si deve cercare.
Non li compone egli così i suoi versi come vengono ven-
gono, alla buona e come per caso? Prendeteli dunque
come sono : leggeteli, esilaratevi e non domandate altro.
Se però non vi parranno troppo noiosi.
*
* *
Somiglianza con questa del Bellini ha l’ invenzione
della partita a palla che con la terra fanno Atlante ed
Ercole nel dialogo del Leopardi, che da loro appunto si
intitola (1). In questo almeno s’assomigliano le due par-
tite, che i giocatori d’entrambe sono personaggi mitolo-
gici; ma se la parodia del mito c’è nel Bellini ed è messa
in evidenza da quegli epiteti irreverenti di cui regala
i Giganti e dallo scegliere per palla Montefiascone e dal
porre i giocatori un sul Caucaso e l’altro sul Testaccio e
dal far che essi, battendo, mandino il monte su tra le stelle
si che s’assomigli a un pianeta , che poi è la cometa, ecc.,
nel Leopardi non si può asserire assolutamente che
essa ci sia. Certo quella di due eroi che giocano alla
palla con la terra è una situazione bizzarra ; ma nè l’eroe
Titanico nè quello delle Dodici Fatiche non ci scapitano
(1) Le prose morali di Giacomo Leopardi, commentate da
Ildebrando Della Giovanna, 2." ed., Firenze, Sansoni, 1903,
pagg. 21-27.
— 253 —
nella comica avventura ; neppur per un momento lo
scherzo va su di loro, essi ne escono perfettamente
immuni.
Anzitutto essi sono nel loro carattere, quale la leg-
genda mitica è venuta loro foggiando. Atlante sempre,
Ercole una volta resse la terra, quando questa era quanto
pesante! E ora ch’ella s’è fatta così leggera che non
peso più del mantello del Titano, e che questi, se non
fosse condannato a tenerla sulla schiena, se la porrebbe
sotto l’ascella o in tasca o se l’attaccherebbe ciondolone
a un pelo della barba e se n’andrebbe per le sue fac-
cende (1), perché non possono fare con essa a palla?
È colpa loro se essi son rimasti così forti e possenti
come una volta ed essa, poverina, s’è fatta leggera e
piena sol del vento delle illusioni, sì da parer tutta a
un pallone gonfiato e suggerir loro di far la partita,
precisamente come al Clasio il pallone da giuoco sug-
gerì l’idea della gente leggera e sol ripiena del vento
della loro vanità? Son qui colpiti dalla parodia essi, i
due eroi antichi, che si dispongono ora a un'impresa
tanto più facile al confronto di quelle già un tempo ope-
rate, o non piuttosto la terra, gravo una volta di so-
stanza onorevole e degna e or così diversa e vana ?
Buffi dunque nella scherzosa caricatura non sono essi,
ma buffi gli uomini ridotti in così ridicolo stato. Ma il
Giapetico Titano e il figlio di Giove e di Alcmena, che
si mettono a giocare come due giovinoti i e scherzano
e fan dello spirito, scadono della loro semi-olimpica
dignità. No, neppur questo. Atlante saluta bensì l’amico
sopraggiunto con un caro Ercolino (2), lepidissimo su
quelle sue grandi labbra; e la terra, divenuta leggera,
se la vorrebbe mettere sotto l’ascella o in tasca o ap-
penderla a un pelo della barba (3), che son tutti modi
(1) Dial. cit-, pag. 22, Un. 6-11.
(2) Dial. cit., pag. 22. Un. 5.
(3) Dial. cit., pag. 22, Un. 9-10.
- 254
ridicolissimi ; e comico egli è quando, creduta morta la
terra, se ne sta in pensiero del come e del luogo del
seppellirla e dell’epitaffio da porle (1). E ancor più in
vena di scherzare 6 l’altro eroe con la sua cosmografia
studiata per fare quella grandissima spedizione degli
Argonauti (2); con l'umoristica applicazione della favola
di Ermotimo alla terra (3); e con quei frizzi pungenti
contro Fetonte, che ci diviene uno scioperato zerbi-
notto intento a civettar con le Ore che gli tennero il
montatoio quando sai) sul carro (4) e ad acquistare
opinione di buon cocchiere con Andromeda o ('al listo
o colle altre costellazioni , alle quali voce che ne!
passare venisse gettando massolini di raggi e pallot-
toline di luce confettate (5) e a fare una bella mostra
di sè tra gli altri Dei nel passeggio di quel giorno,
che era di festa (6), con quella sua aria un po’ spavalda
ma non intempestiva, con la quale si vanta della benevo-
lenza paterna (7); con l’atteggiamento così originale
dato alla figura di Orazio che, ammesso in Olimpo ad
istanza di Augusto , che era stato deificato da (Duce
per considerazione che si dovette avere alla potenza
dei Romani, va canticchiando certe sue canzonette (8).
Pur tuttavia i due eroi non sono ridicoli, ma degne
di riso le cose ch’essi fanno e dicono, ridicola la terra e
l'altro, contro cui quello son dirette. Anzi di più: essi sono
in vena di tanto buon umore, perchè bau tra mano una cosa
ridicola; non è torto loro se, trovando la terra in condi-
zioni cosi diverse da quelle che le conobbero un tempo e
(1) Loc. cit., pag. 23, limi. 17-18.
(2) Loc. cit., pag. 23, limi. 1-2.
(3) Loc. cit., pag. 24, linn. 5-13.
(4) Loc. cit., pag. 25, lina. 16-20.
(5) Loc. cit., pag. 25, liun. 20-23.
(6) Loc. cit., pag. 25, linn. 24-25.
(7) Loc. cit-, pag. 25, linn. 10-10.
(8) Loc. cit., pag. 26, linn. 7-11.
— 255 —
così leggera e vana e piena di vento e sonnolenta e
senza sostanza di quelle azioni, gravi, serie e nobili che
per l' addietro su di essa si compivano, si sentono esi-
larati e disposti allo scherzo. t
Ma Ercole e Atlante sono il Leopardi stesso ; è lui
che ride e scherza e si balocca con questa ridicola pal-
lottola ; è anzi il suo terribile pessimismo giunto al cul-
mine: il genere umano è scaduto in tale stato di miseria
e di abbiezione clic non merita più il silo sdegno nè
le sue rampogne nè il suo disprezzo : merita il riso. E
il riso infatti pervade tutto il dialogo e si manifesta in
generale nella invenzione, nel contenuto, nello svolgimento,
come nei minimi particolari dello stile e della forma.
E questo il dialogo dove il riso è più continuo e più
abbondante e dove, anche, esso è forse meno amaro e
sarcastico. E pur tuttavia esso ci appare come un’espres-
sione non meno dolorosa del pessimismo leopardiano:
quasi sentiamo che l’indifferenza ha ucciso nell'animo
dell’autore l’amore e la pietà del genere umano : e che,
spezzati questi vincoli, l’autore può riderne senza che
tra il riso faccia capolino il pianto (1). E ne ride infatti
Ercole ancora nelle ultime sue parole che son quasi le
estreme del dialogo. Crederi), dice, che oggi tulli gii
uomini siero giusti perché il mondo i> caduto e ninno
più s'è mosso (2). Nè il sarcasmo di Atlante Chi dubita
della giustizia degli uomini ? (3), vale a spegnere l’onda
della vasta risata d’Èrcole. Povero genere umano degno
di tanto riso!! Contro gli uomini dunque e non contro
gli attori del dialogo s’appunta il riso del Leopardi; non
altrimenti che nel dialogò La scommessa di Prometeo (A)
(1) Cfr. Dialogo di Tristano e. d’un amico, ed. cit., pag. 267.
Dove filosofando sulla felicità umana, scrive : e così tra la me-
raciglia e lo sdegno c il riso passai molto tempo (lin. 13) ; il riso
dunque 6 l’ultimo stadio del pessimismo leopardiano.
(2) Loc. cit., pag. 27, lin. 12-U.
(3) Il>., lin. 15.
(!) Ed. cit., pagg. 63-75.
— 256 —
il vino, l’olio necessario alle unzioni delle quali (jli Dei
fanno quotidianamente uso dopo il bagno (1) e la pen-
tola di rame, detta economica, che serve a cuocere che
che sia con piccolo fuoco e speditamente (2), spregevoli
cose che pur saggiamente sono dagli Dei anteposte al
genere umano, non gettano il ridicolo o il dileggio sopra
gli Dei, ma sugli uomini stessi, trovati poi da Momo e
dal loro stesso fabbricante Prometeo assai più di quelle
spregevoli.
Per questo che ho detto, mi par che si possa escludere
che nel Dialogo d'Èrcole e di Aliante il Leopardi, met-
tendo i due eroi nella comica situazione che s’ò visto
e atteggiando al riso i loro detti e fatti, ne abbia voluto
colla parodia e collo scherzo fare la satira; mi par quindi
che si debba anche escludere quel che dal dialogo vorrebbe
concludere il Della Giovanna, cioè che la satira in esso con-
tenuta va a colpire indirettamente gii Dei e cheha ragione
il Weiss quando vi sente il soffio di (\wo\Y audace scuola
boreale cotanto avversa alla mitologia (3). Il Leopardi
romantico fu la sua parte e in che consista e dove
il suo romanticismo, ha egregiamente dimostrato il
Graf nel suo bellissimo studio Classicismo e Romanti-
cismo del Leopardi (i). Sono elementi romantici in lui
il sentimento della natura più settentrionale che meri-
dionale e quindi più romantico che classico (5), la mi-
santropia (6), la sentimentalità vaga e diffusa e la ma-
linconia dolce e il rimpianto della giovinezza e la noia (7),
(1) Loc. cit., pag. 65, linn. 8-9.
(2) II)., linn. 10-11.
(3) Cfr. Dia. la Giovanna, Cenni riassuntici e critici premessi
al « Dialoi/o d'Èrcole e d' Atlante ». Ed. cit., pagg. 21-22.
(4) Graf, Foscolo, Manzoni , Leopardi, ed. cit., pag. 311-347
e per quel che riguarda il Romanticismo, pag. 317 e segg.
(5) Graf, loc. cit., pagg. 321-322.
(6) Ib., pagg. 322-327.
(7) Ih., pagg. 327-331.
I
— 257 —
il senso dell’indefinito e dell’infinito (1), ecc., l’idea della
letteratura civile (2) e certe sue opinioni sulla questione
della lingua (3), eco. ecc.; ma l’avversione alla mitologia,
che fu uno dei capisaldi della scuola romantica, egli
assolutamente non l’ebbe. E come avrebbe potuto averla
il poeta del canto Alla primavera o delle favole an-
tiche (4)?
È vero che il Leopardi fa della mitologia un ano di-
verso da quello dei classicisti ortodossi (5) i quali / rat
Inno la mitologia come cosa vera e presente ; vira non
già solo nella loro memoria e latra! piò nel sentimento
ma ancora nella credenza (6), mentre invece egli con-
sidera il mito come cosa irreparabilmente perdala (7);
ma nessuno più di lui rimpiange le belle e dolci fantasie
per la cui virtù parve vivere la natura e conversare
con l’uomo (8), e nessuno meglio di lui inteso l’universa
significazione e il perpetuo valore del mito (9), e ancora
la duttilità sua, la quale lo pone in grado di ricevere,
mutando i tempi e la civiltà, nuova forma e spirilo
nuovo (10). E in questo stesso dialogo d’Èrcole e di
Atlante noi abbiamo un esempio dell’uso del mito come
simbolo o significazione d’yna condizione ideale che Fau-
tore vagheggia; in esso il vecchio Titano e il giovine
oi-oe rappresentano un’età infinitamente piu bella in con-
fronto della tristissima presente (11): essi quindi in questo
(1) Ib., pag. 332.
(2) lb., pagg. 3315-337.
(3) Ib., pagg. 338-339.
(4) I canti di G. Leopardi. Ed. cit. del Piergili, pagg. 60-67.
(5) Graf. loc. cit., pag. 318.
(6) lb.
(7) II).
(8) Ib.
(9) II)., pag. 320.
(10) II)., pag. 320.
(11) Cfr. Dialogo di Tristano e di un amico. Ed. cit., pag. 2I3S,
finn. 17-23.
»
— 258 —
senso, come tipi scomparsi d’ima schiatta migliore, non
che non esser bersaglio della satira d’un nemico della
mitologia, sono oggetto dell’ammirazione e del rimpianto
d’uno spirito innamorato delle belle favole antiche
cui la sciagura e l’atra
Face del ver consunse
Innanzi tempo (1).
Quell’Èrcole poi, cosi gagliardo e cosi sicuro e baldo e
giocondo nella coscienza della sua forza, ha grande ana-
logia col rincitor nel pallone della canzone dello stesso
Leopardi. Nel dialogo l’umanità è morta o dorme o è
tutta giusta si che neppur i colpi e la scossa ricevuta
nel giuoco e nella caduta hanno servito di risvegliarla :
la patria è morta nella canzone nè l’energie naturali
della stirpe e le virtù rinnovate dagli esercizi fìsici gio-
veranno a farla rivivere. Il giuoco quindi, tanto nel dia-
logo quanto nella canzone, non ha più benefica efficacia
per altri, se non per gli stessi giocatori: ne trae l’eroe
un diletto presente: il giovine, vincitore per se stesso
al polo erge la mente , cioè si prepara coll’esercizio a
procurarsi una vita securae beata. Cosi entrambi si disin-
teressano infine dall’umanità o dalla patria, alle quali in
principio pur sembrava voler l’autore ch’ossi volgessero
le loro cure o almeno la loro attenzione.
*
« *
Trattando de Gli Azzurri e i Rossi ho accennato
allo scherzo fine e piacevole, del quale il De-Amicis si vale
per variare una materia che a lungo andare sarebbe
potuta divenire alquanto monotona. L’autore però sa
usare dello scherzo con grande discrezione e con tatto
finissimo : Io fa scaturire da parti diverse; da fatti e da
(1) Leopardi, Canto alla Primavera, vv. 12-14.
— 259 —
cose, dagli spettatori, dai giocatori inesperti, dagli scom-
mettitori, da se stesso anche, da mille nonnulla estranei
al giuoco : ma da questo mai. No, il giuoco è troppo
hello e gli è troppo caro; è cosa sacra, cui adombrar
collo scherzo sarebbe profanazione. E in questo il De-
Amicis s’ allontana dal Chiabrera (1) e dal Leopardi
stesso (2), che, almeno per un momento, mostrano di du-
bitar dell’importanza del giuoco e del loro argomento,
e s'accosta allo Scaino, il quale come s’è veduto, tratta
del giuoco con la più genuina serietà aristotelica e sco-
lastica; e se inai egli ha dubbio alcuno, questo è di non
aver òmeri capaci di tanto argomento.
Del. resto lo scherzo de Gli Azzurri e i Rossi è una
nuova manifestazione di queH’umorismo che il De-Amicis
introduce in quasi tutte le sue opere per romper la mo-
notonia delle ponderose trattazioni; umorismo discreto,
fine, aristocratico, originale, senza fiele però; sorriso
arguto e bonario di uomo che sa che in questo mondo
assai più si deve compatire che biasimare. Lo scherzo
quindi non solo è sempre blando e senza malizia, ma
anche fuggevole, a colpi e guizzi improvvisi, che subito
si spengono inoffensivi. Una sol volta l'autore si indugia
un po’ a scherzare: ed è quando vede sciuparsi il suo
giuoco diletto da giocatori inesperti ; allora persiste un
po’ di più a ridere, ma il suo è riso di amichevole e
pietoso ammonimento, non di scherno. I principianti, in
i special modo, avverte egli stesso, offrono uno spettacolo
comico e compassionevole Pare che non essi pio-
chino col pallone, ma questo con /oro (3). E Wan Dyck
della penna per la potenza descrittiva e Creso per la
ricchezza della lingua, egli ottiene effetti di spontanea
e impensata comicità nella sola rappresentazione dei
(1) LXl, vv. 53-54.
(2) V, vv. 27-33.
(3) Gli Azzurri e i Rossi., XVIII, pag. 109.
— 260 —
rapporti tra il pallone e i principianti: Non si puh im-
maginare come gì' inganna, come li beffa, come li fa
sgambettare capriole, annaspare e ansimar senza frutto
passando sopra il loro capo quando credono che ca-
schi loro sul bracciale, schizzando a destra quando
lo cercano a sinistra, sforzandoli a correre aranti
e indietro e a girare a naso ritto intorno ad essi
come cacciatori di farfalle. Oliranno incontro come di-
sperati, e nel buon punto non lo vedono più; è »
itilo come una botta di sapone;, lo aspettano di pie ’
fermo con un'impostatura tragica ; ma impauriti al-
l’ultimo momento, si scansano come da una sassata,
o gli fanno una riverenza come a un uccello sacro,
o lo fuggono guardandolo come uno sparviero che gli
insegua, o gli tirano un colpo incerto e se lo pigliano
nel braccio, o gli roti ano le spalle e son bollati nella
schiena, o si cacciano avanti a capo basso per pren-
derlo di contrattempo, picchiano nei vuoto e ranno
a gambe levate, o anche gli allungano un colpo alla
cieca, per difendersi, e rimangono comicamente stupe-
fatti, aprendogli occhi, di vederlo volare { 1). L’umorismo
si sprigiona dal contenuto e dalla forma, da ogni atto e
gesto del giocatore come da ogni proposizione o frase
clic ce lo rappresenti. Sghignazzano i quattro spettatori
con la bocca fessa da un orecchio all'altro (2) alla vista
del giocator novellino ; ma ridiamo anche noi a (loi di
labbra dinanzi a tanto spirito di comicità. E il caso d un
dilettante che ritenti il giuoco per la prima volta dopo
gran tempo, e crede ancora d’aver l’occhio antico e non
l’ha più o tratta con familiarità il pallone che più non
lo riconosce, non è meno comico. A un tratto il pal-
lone gli dice brutalmente con un picchio nel petto : 1 a
ria, vecchio cucco : non si scherza più con me a cin-
(1) Loc. cit-, pagg. 109-111.
(2) Loc. cit., pag. 111.
- 261 -
quant’anni (1). Con questo capitolo dei giocatori, che pei*
esser novellini o disavvezzi sono inesperti, il De-Amicis
ci dà una prova di quanto son ridicole le partite di
pallone giocate alla peggio, specialmente se chi giuoca
ostenta una valentìa che non ha.
«
# #
11 Fagiuoli descrive una di queste partite comiche
per l'imperizia dei giocatori in un capitolo, nel quale,
di comandamento del Serenissimo e Reverendissimo Si-
gnor Principe Cardinale dei Medici , ragguaglia V Illu-
strissimo Signor Conte Lorenzo Magalotti d'una festa
fatta nella villa di Cappeggi (2).
Quivi dunque, levate le mense
Una partita dopo si trovò
Di palloncino, e ognun dei giocatori,
Desto di mano, la mestola pigliò.
Lesti di mano a prender la racchetta, si; ma poi, quanto
mal destri a giocare quei signori !
Dietro alla palla or quà or là correvano
Gridando: Mia! mia! e non le davano;
Il che avventa, perchè non la coglievano.
Mia! mia! ò il grido convenzionale con cui un gio-
catore domanda che la palla sia lasciata a lui; e tosi
sente per lo più ripetuto dai soli giocatori poco pratici
che non si san distribuire le parti o, distribuite, non le
san mantenere; e corron tutti insieme contro la palla
e tutti le voglion dare, guastandosi il colpo a vicenda.
E cosi facevano appunto i giocatori che il Fagiuoli
mette in scena: dietro la palla or qua or là correvano e,
(1) Loc. cit., pag. 113.
(2) Rime piacevoli di G. B. Fagiuoli. Edizione cit., parte II,
c.ap. XXX, pag. 247.
— 262 —
dopo molto gridare e affannarsi, sbagliavano il colpo:
non per altro però se non per nn motivo semplissimo :
perchè non la coglievano. Ma la semplicità, anzi l'in-
genuità della spiegazione è solo apparente: ossa è invece
di grande effetto comico e contiene una punta di ben
diretta satira, perchè mette in tutta evidenza ed espone
bene al ridicolo di tutti l'imperizia dei buffi giocatori,
che non ne azzeccavano una. Del resto il ridicolo scaturisce
ancora dal contrapporre che fa l’autore la smania che
ogni giocatore aveva di fare lui il colpo e lo sbaglio
sicuro che ne seguiva: anzi questo dell’antitesi è uno
dei mezzi più frequenti che il Fagiuoli usa per provo-
care il riso. Quei giocatori così dappoco e cosi degni di
fischi e di risate a pia poter si trafelarano e non eran
ritenuti nè da timor nè da disagio perchè fìssa la gloria
in cor portavano ; dove la contrapposizione tra l'alto
concetto che i giocatori avevan di sè e della lor partita
e la inabilità da loro dimostrata è quanto mai comica.
Finalmente
Con si bel partitone al palloncino
termina la festa e il capitolo. L’antitesi qui è, puramente
formale e consiste nel trovarsi sapientemente accoppiato
un diminutivo con un accrescitivo: quel palloncino infatti
dà risalto al partitone e lo accresce smisuratamente nel
concetto dei presuntuosi giocatori e nel ridicolo degli
altri.
Le persone non sono ridicole se non quando vogliono
parere o essere ciò che non sono, avverte saggiamente
il Leopardi (1). Se ci muovono a riso i giocatori ine-
sperti del De-Amicis e del Fagiuoli, perchè dimostrano
un’abilità troppo impari alla nobile arte del giuoco nel
(1) Pensieri, IC, in principio.
- 263 —
primo, e troppo al disotto della lor presunzione nel se-
condo, noi non ridiamo dell’imperizia di Arnaldo Fusinato,
il quale, tanto più buon poeta quanto più cattivo gio-
catore, non seppe giocando difendersi dal pallone e ne
ebbe un dente rotto e una mascella mezzo fracassata;
e non ne ridiamo, non perchè il caso abbastanza grave
comincia a esser pietoso, ma perchè il primo a riderne
è il poeta stesso.
Egli infatti racconta questa sua disgrazia con tanta
gioviale lepidezza, con tanto arguto e squisito umorismo
che noi ci sentiam costretti a sorridere con lui e delle
botte e del dente rotto e delle mascelle guaste e del
dolore che ne soffri e della malattia che ne segui e che
lo inchiodò per nove giorni nel letto. Il caso occorse al
poeta nell'estate del 1846 ed egli lo narra nella poesia
Un’impressione autunnale (1), che è una specie d’epi-
stola in sestine diretta al suo amico Guglielmo Stefani,
redattore del Caffè Pedi-occhi di Verona, il quale gli
aveva domandato le sue ciutunncil i i oiprcssioìii, L’autore
risponde subito scherzando :
Ebben, ti scriverò d’un’impressione,
Clie m’ha lasciata un colpo di pallone (2):
e nessuno può negare che un’impressione simile dovette
essere la piu profonda e duratura tra quante il poeta
n’ebbe in tutto quell’autunno. Cosi cominciato a scher-
zare, continua sullo stesso tono :
Tre mesi or sono nella natal mia Schio
Noi giocavamo a «piel terribil gioco;
Il fatai globo era per aria, ed io,
Che di pallone me ne intendo poco,
Gli vo incontro correndo, in arco il braccio,
F, paff! nella mascella me lo caccio (3).
(1) Poesie di Arnaldo Fusi nato. Ultima edizione con aggiunte.
Palermo, a spese dell'editore, 1868, v. l, pagg. 34-39.
(2) lb., vv. 5-6.
(3) Ih., vv. 7-14.
— 264 —
Le frasi terribil (fioco e fatai globo, comicamente
solenni e ironiche, dipingono assai bene .1 incordo pau-
roso che il poeta conserva del fatto; ne ride, e\eio,
vuol c’ al tri ne rida con lui; ma si h certi che agiocare
al pallone nessun l’avrà visto più. Cosi pure è eunuca
la fiducia, colla quale egli crede di poter trattare con
il pallone, e comico l’atteggiamento sicuro e d'sinvo t
con cui si dispone a riceverlo, ma piu comico ancora
quel subito castigo, indicato con l’onomatopeica e lepida
interiezione di Pafl'H
Nella descrizione degli effetti della terribile pallonata
sempre in giuoco la persona dell’autore bersaglia a
in tutti i sensi, da frecciate innumerevoli di argu
spiritose e innocue, abilmente dirette or contro nonio
or contro il poeta. A quella botta il povero colpito vede
lutti gli astri del firmamento senza cannocchiale ( 1)
e sente cadérgli in terra un dente
Senza bisogno della chiave inglese (2)
e il giorno dopo il triste avvenimento s’accorge che la
gola s’era enfiata si
Che il pallon ci pareva restato dentro (3)
ed è costretto a rimanere nove giorni in letto. Non che
il letto gli dispiaccia (4), ma gli sta a cuore di non poter
mangiare, con tutto il suo appetito, altro che un po _
nan bollito (5). Anzi questa del mangiare è la nota piu
insistente della poesia. Guarito del colpo ricevuto, come si
duole egli del dente perduto? Nonio ne soffersi, soggiunse.
Ma la perdita sugli altri ricadè
Che han l'atto tutto ciò ch’ànno potuto
Per compensarmi del fratei perduto (6).
(1) lb., vv. 13-14.
(2) lb., vv. 17-13.
(3) lb., v. 34.
(4) lb., vv. 37-38.
(6) lb., vv. 39-42.
(6) lb., vv. 52-54.
— 265 —
E con che slancio di gioia riconoscente ricorda i
Cortesi abitator del Rovereto
Che di cene lautissime e di pranzi
Per otto giorni lo rendevan lieto (1) '• •
e con qual sentimento di profonda soddisfazione esclama:
Ditelo voi se fecero a dovere
I superstiti denti il lor mestiere •
Ma la faccenda del mangiare gli permette anche di get-
tare una pietra nell’orto dei poeti. Quando, colpito dal
fatai globo, egli raggia siccome un matto;
Eh non è niente, ripetean gli astanti,
Si dia coraggio, non è niente adatto! (3);
alle quali conforte voli parole comicamente egli tìnge di
stizzirsi e con ironia maliziosetta fa osservare:
Ma guardate che razza d’ignoranti!
Credon forse che sia una bagattella
Un poeta colpito alla mascella? (4);
Ch’ei resti tocco al cervello, ho inteso
Esser casi che nascon di frequente,
Ed un poeta col cervello offeso
Son d’accordo anch’io non sarà niente;
Ma se per caso ei perde la mascella
Perduto egli ha la sua virtù più bella (5).
Qui il ritratto del poeta, come volgarmente viene
raffigurato, di persona cioè che ha sempre d ceive ou
processione e il ventre in lotta colla fame, sicché dov
capita è un diluvio, capovolto, è riuscitissimo Con lo
stesso spirito di gioviale umorismo il poeta continua po
(1) Ih., vv. 59-60.
(2) Ih., vv. 20-21-
(3) Ib., vv. 22-24.
(4) Ib., vv. 25-30.
(5) Ib., vv. 56-58.
— 266 —
narrando un altro suo malanno che lo colpi e rese in-
dispensabile una piccola operazione chirurgica. Anche
di questa ride come della pallonata. Ma la pallonata gli
rimase più profondamente scolpita nella memoria e in
bocca. Onde, terminando la sua poesia all’amico, tra gli
auguri che gli fa, questo soggiunge :
Pregherò il ciel con tutta divozione
Che ti tenga lontano dal pallone (1).
E non aveva torto il povero poeta!!
(1) Ih., ultimi versi.
INDICE
Png.
Prefazione v
PARTE PRIMA.
Il giuoco della palla
nella vita e nella letteratura dei popoli classici.
- Capitolo I.
Diversi periodi nella storia della ginnastica presso i Greci o
forme maggiori e minori di essa. — Carattere del giuoco
dello palla, sue funzioni e suo sviluppo. — Le notizie più
antiche del giuoco (Odissea, VI), origine di esso, i tratta-
tisti (Ateneo, Erodoto, Plinio e Saverio Quadrio; Caristio
Pergamene). — Le varie forme del giuoco: la feninda e
Varpasto (Ateneo, Polluce, Marziale, e Antonio Scoino;
Luciano, Ovidio e Properzio); V Urania (Odissea, Vili e
Polluce); V Aporrassi (Polluce e Platone); le palle variopinte
( Odissea , Antillo, Platone e Ovidio) 3
Capitolo II.
Le varie forme di giuoco presso i Romani: il trilione; alcune
usanze di «mesta e di altre forme di giuoco (Marziale, Ma-
crobio e Diogene); il folle e il follicolo (Marziale, Antillo,
Svetonio, Plauto); la paganica e alcune frasi tecniche del
giuoco (Marziale, Vairone, Novio, Plauto); congetture in-
torno all’ interpretazione di queste frasi ; P opinione «lei
Quadrio; significato del vocabolo Pilicrepns (Seneca, una
iscrizione antica); una multa originale al vinto . . 26
— 268 —
Capitolo III.
Pag-
Luoghi dove gli nut iclii giocavano alla palla e personaggi storici
giocatori di palla. — Il giuoco nella letteratura: le immagini
tratte da esso (Platone, Aristotile, Cicerone, Quintiliano,
Seneca, Plutarco, Clemente, Alessandrino); letteratura di
costumi (Petronio Arbitro, Plinio, Orazio, Ovidio); il poe-
metto Ciri » attribuito a Virgilio 31)
Capitolo IV.
Ultime vicende della ginnastica nella decadenza greca e romana.
— Carattere terapeutico del giuoco della palla; medici che
lo consigliarono (Antillo presso Oribasio, Galeno, _ Paulo
Egineta, Celio Aureliano, Areteo, Avicenna, ecc.) . . 67
PARTE SECONDA.
Il j/iuoco della palla nella letteratura italiana.
Capitolo I.
Vicende del giuoco della palla nel Medio Evo e sue relazioni col
sentimento religioso e la disciplina ecclesiastica (San Ago-
stino, S. Carlo, il Petrarca). — Le più antiche notizie del
giuoco e diffusione crescente di esso. — Il giuoco della
palla e l’educazione della gioventù nel Rinascimento (Vit-
torino da Feltro, Leon liattisla Alberti, Baldassar de Ca-
stiglion, Erasmo di Valvason, Rabelais) . . . .75
Capitolo II.
Divisione in gruppi dei componimenti che han per soggetto il
giuoco della palla. — Gruppo I [La letteratura dei trattati).
Antonio Scaino, Francesco Saverio Quadrio, Tommaso lli-
nuccini 92
Capitolo III.
Gruppo II [La letteratura mitologica del giuoco della palla de-
rivata dall’episodio ovidiano di Giacinto tradotto «la Gian
Andrea Dell’Anguillaia]. Il mito di Giacinto in Ovidio e
nell’Anguillaia; Ovidio e le condizioni letterarie del secolo
XVII ; partigiani e avversari della mitologia (Marino e Brac-
ciolini). — Il Marino, il Preti e l’Obizzi. — Il Fagiuoli 103
— 269 —
Capitolo IV.
P»g-
Gruppo III [Ln letteratura d’imitazione Pindarica ed encomia-
stica ilei giuoco della palla]. Gabriello Cliiabrera e le sue
tre liriche del giuoco ; Pindaro c i Secentisti; l’imitazione
di Pindaro e l’arte nelle liriche del Chiabrern. — Jacopo
Tarulli e La Montagnola di Bologna. — Il Leopardi e la
canzone A un vincitore del pallone ; il contenuto di questa
poesia e il pessimismo leopardiano. — Alenrdo Aleardi e
la poesia Per un giuoco della palla nella ralle di Fiumane;
l’arte di essa e le idee politico-sociali elio l’informano. —
Edmondo De-Amicis e fili Azzurri e i /tositi; pregi di questo
libro apologetico del giuoco della palla .... 140
Capitolo V.
Gruppo IV [La letteratura giocosa, satirica e umoristica del
giuoco della palla]. Il giuoco in Firenze e Canti Carnascia-
leschi che no traggono argomento (l’Ottonaio e il Lasca).
— Il •alini c il Ragguaglio XIII della prima Centuria.
— Il Clasio e la favola II pallone e il bracciale. — Il Belli
e il sonetto JSr giucator de Pallone. — Il I.ippi e l’episodio
del 'Pura nel Malmantiie Riacquistato. — Lorenzo Bellini
e un passo della sua Bucchereide. — Il Leopardi e il Dia-
logo d'Èrcole e di Atlante. — Il I)e-Amicis e l’umorismo ne
Oli Azzurri e i Rossi. — Il Fagiuoli e un passo d’un suo
capitolo. — Il Fusiuuto e una pallonata formidabile 219
ALBA
STABILI MUNTO TIPOGRAFICO SINF.O